di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Negroland. Margo Jefferson

 Negroland

Negroland è la regione dell’élite afroamericana al di fuori da confini geografici. Un’enclave dove, tra benessere e privilegi, sin da bambini si apprende una rigida etichetta per evitare che il proprio comportamento possa favorire pregiudizi razziali, dove essere irreprensibili nello studio, ineccepibili nell’aspetto, nei modi in società e nel rigore formale, per vivere senza sentirsi sopraffatti dalla percezione di inferiorità nel rapportarsi ai bianchi. A Negroland il privilegio della libertà è nel guadagnare dei soldi, sposarsi legalmente, viaggiare, creare società letterarie, esercitare pressioni al Sud in favore dei propri diritti ignorando, al tempo stesso, “le richieste dei Negri liberi più poveri e dalla pelle più scura” e mobilitandosi, al Nord, contro la schiavitù e per il diritto al voto ma perpetuando esclusioni sociali nel proprio ambiente.

negrolandConia questo termine Margo Jefferson, figlia dell’alta borghesia nera, per rimarcare, con forza e in maiuscolo, l’appellativo “Negro”, che sente come illustre e terrificante al tempo stesso. Docente alla Colombia University, insignita del Pulitzer per la critica nel 1995, con Negroland, (66thand2nd, trad. Sara Antonelli), Jefferson intreccia pagine private alla storia di un Paese anzitutto interrogandosi sulla razza, un termine dietro cui si celano anni di lotte contro la segregazione, di storie di schiavi in cerca di libertà e di quelle delle generazioni successive che lottano per emanciparsi dal marchio del pregiudizio e scardinarne ogni certezza. E lo fa con uno sguardo inclemente sulla realtà in cui è cresciuta, smontando e ricostruendo attraverso i ricordi dell’infanzia ciò che ha forgiato la sua identità di afroamericana nella realtà élitaria e ovattata che definisce Negroland.

Con una forma narrativa ibrida tra il memoir, il saggio, il diario intimo e il racconto di sé stessa in terza persona nell’intento di guardarsi dall’esterno, Margo Jefferson usa una scrittura sferzante per ripercorrere le tappe storiche legislative, le battaglie per i diritti, gli esempi illuminati di quanti, tra l’élite afroamericana, si distinsero per ridurre quel margine verso l’accettazione sociale. E, al tempo stesso, si addentra nel proprio privato per raccontare un’infanzia e un’adolescenza segnate dalla convivenza con le continue discriminazioni, seppur nel contesto apparentemente protetto dell’alta borghesia.

Si interroga sul vero significato della coscienza afroamericana cercando di darle una nuova definizione, una nuova forma che, pur essendosi plasmata dalle lotte antisegregazioniste, è innervata dalla volontà di non ricadere nelle immagini del lascito di sofferenza:

“Quando scrivi sulla razza è troppo semplice indugiare sui brutti ricordi. Crogiolarsi nella propria innocenza. Rendere omaggio al proprio dolore.”

Per definire quella nuova consapevolezza, Jefferson affonda la narrazione in continue digressioni storiche sui grandi cambiamenti favoriti da libri come Sketches of the Higher Classes of Colored Society del 1841 di Joseph Willson, il primo a raccontare l’élite nera sotto lo pseudonino di “un uomo del Sud”, o la denuncia del divario di genere e il predominio maschile dilagante dalle mura domestiche a ogni ambito sociale in A Voice from the South, del 1892, di un’anonima donna nera; o i dettami per le generazioni a venire che genereranno un acceso dibattito culturale di W.E.B. Du Bois del 1903 con Le anime del popolo nero.

I grandi temi delle lotte sociali, i diritti civili, il Black power, sono legati a filo doppio alle storie di degradazione della donna nera e alla necessità di portare avanti le battaglie del femminismo, come Florynce Kennedy, la prima femminista che l’autrice abbia mai visto manifestare in pubblico.

Jefferson attraversa la storia, gli sconvolgimenti politici e sociali, per definire  la presenza della borghesia nera tra gli attivisti nei movimenti per i diritti civili anche nel rapporto con la società conservatrice bianca degli anni Settanta, senza lesinare critiche al modo di raccontare oggi la storia della buona società nera, dall’esempio di Lawrence Otis Graham del 1999 con Our Kind of People, al celebrativo Black Society, di Gerri Major, uscito quasi quindici anni prima. Margo Jefferson compie una revisione di certezze acquisite dalla nascita legate a diritti sentiti come elargiti non dalle leggi ma dalla Storia, per riflettere sul concetto di razza nello scarto tra il diritto e il privilegio. E lo fa intessendo una narrazione parallela al percorso storico e politico, per entrare nel proprio privato e raccontare chi cresce imparando già dall’infanzia che occorre costantemente avere chiara la propria autodefinizione per potersi difendere.

Denise Jefferson, 1951.
Denise Jefferson, 1951.

Nel parlare dei grandi temi legati alle discriminazioni, l’analisi di Margo Jefferson è una voce di rottura nel non volersi arrestare alle posizioni precostituite di vittima e carnefice, per raccontare senza indugi anche le ombre della propria realtà sociale. Identifica lo spaesamento vissuto quando svanisce l’incanto dell’infanzia e si percepisce per la prima volta di essere parte di una definizione razziale. Ed è in quel momento, quando ci si sente improvvisamente la nota stonata nel paesaggio, la stranezza, la parte di quel plurale indefinito del “Tu e la tua gente”, che si impara a impostare la propria vita nel costante confronto noi/loro.

Cresce subendo il peso delle distinzioni razziali anche nei momenti di gioia come le vacanze in famiglia da bambina negli hotel di villeggiatura. E coltiva, da adolescente, il sogno delle immagini del mito delle grandi dive afroamericane, dalle quali imparerà presto l’importanza della tonalità dell’incarnato, del profilo del naso e delle miracolose lozioni per capelli. E non si tratta di vezzi per conformarsi alle tendenze di moda, ma di aspetti  fondamentali già per le giovani donne nere borghesi della prima metà del Novecento. Sarà quella disciplina nell’allinearsi ai canoni dominanti a influire nel giudizio sociale e a permettere loro di avere la percezione di potersi difendere, attraverso il rigore estetico, dal senso di esclusione e di inferiorità, proprio come insegnava già nel 1941 Charlotte Hawkins Brown nel motto del suo galateo:

“Se mai ci sarà una gentildonna di colore quella devi essere tu”.

Proprio il racconto dalla prospettiva di chi vive in condizioni di benessere accentua la percezione del privilegio, quanto mai evidente come nel momento in cui viene minacciato. E sono quelle istantanee a raccontare gli strascichi del segregazionismo anche nelle generazioni successive, come quella dell’autrice nata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Lo raccontano i titoli stessi delle riviste patinate dell’epoca come Ebony, nel sensazionalismo di rendere eccezionale qualsiasi evento del quotidiano se il protagonista è un afroamericano noto.

“L’umiliazione e l’offesa sono pronte a saltarti addosso quando meno te lo aspetti”, annota Margo Jefferson quando sin da ragazza non pensa ad altro che a ricercare costantemente la perfezione per diventare un’intellettuale, abbandonando ogni frivolezza adolescenziale e coltivando così, per qualche tempo, anche l’idea del suicidio. Non restano che gli strascichi di quella violazione perpetua, portata avanti nei segni di odio e disgusto e di disperazione che cammuffati, scrive, passano da una generazione all’altra.

Scava nelle inquietudini di un popolo, di una classe sociale, di una élite, per rendere, con pensieri che sono affondi alla coscienza dei valori nazionali, il sentimento di chi, come sua madre, nel parlare della felicità era arrivata a scrivere:

“A volte mi dimentico di essere negra”.

Il suo non era un ripudio o una provocazione, ma il modo di rendere la sensazione che si ha quando si crede che non si debba più lottare per i propri diritti o discuterne e motivarli ogni giorno.

Leggere Negroland porta il lettore a fare i conti con la necessità di impostare su basi nuove il dibattito culturale sulla questione razziale, in cui prende forma e diventa parte attiva una nuova coscienza collettiva per analizzare da una prospettiva nuova il presente attraverso una realtà come gli Stati Uniti che cerca ancora faticosamente di gestire le proprie contraddizioni e disuguaglianze sociali.

 

Recensione di Alice Pisu uscita il 22/2/2018 su Repubblica Parma Libri – Parole e dintorni

I Libri di Alice: Negroland
Tag: