di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

 

I libri devono lasciare cicatrici profonde nel lettore.

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Emidio Clementi, detto Mimì, ha animato un incontro unico ai Diari, intorno al suo nuovo romanzo edito da Fandango-Playground Libri sabato 17 marzo. Uno scrittore raffinato e viscerale, diciamolo pure, un uomo pieno di fascino ha dialogato, per oltre un’ora e mezza, con il nostro Jacopo Masini, in una forma più smagliante e brillante del solito. Con un linguaggio estremamente moderno e diretto, chiamando le cose e i sentimenti con il loro nome e senza mezzi termini, ci hanno fatto conoscere il mondo e la scrittura che anima questo racconto lungo. 25550085_10155986379297733_2332461065178242919_nS’intitola “L’amante imperfetto”, sulla fragilità del maschio che racconta, nemmeno troppo sottotraccia. Settimo libro della voce e basso dei Massimo Volume, è la storia autobiografica di una cruda formazione erotica. Di Emidio Clementi io ho amato tante canzoni e i suoi primi romanzi, ma questo delicato inno alla fragilità maschile mi ha veramente colpito. Con una prosa asciutta e uno stile secco ci viene fatto il racconto di un maschio debole, che parte da alcune foto ritrovate e si snoda tra locali a luci rosse, appartamenti di prostitute e circoli scambisti, incontri al buio, appetiti sessuali repressi, fino ad una normalità adulta ancora più dolorosa e spietata. La splendida copertina del libro è di Maurizio Ceccato. Un lungo racconto, per niente rassicurante, in cui si guarda da vicino al crollo di uomo come in un quadro a tinte fosche, come una diga che viene giù al rallentatore.

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La scoperta in gioventù di alcune foto pornografiche amatoriali in cui il padre partecipa a un’orgia di provincia è il terreno sul quale germoglia l’educazione sentimentale del protagonista-narratore, da una parte tormentato dal terrore di essere una ‘femminuccia’ (biondo e delicato, con un fisico non virile) e dall’altra travolto da un desiderio erotico (e di conferma della propria virilità) insaziabile che si traduce in una promiscuità compulsiva praticata in club prive e locali per scambisti. Poi, di colpo, l’incontro con Lucia, la convivenza, le bambine, il matrimonio; una dimensione affettiva stabile che sembra definitivamente conquistata. Sposato con soddisfazione e con ancora più soddisfazione padre di due figlie, il protagonista, pur avendo alle spalle un passato di indomabile compulsione sessuale pare aver trovato la sua pace. Il ricordo di quella smania erotica, con il suo carico di mistero, si riproporrà con forza quando, non più giovane e ormai padre di famiglia, verrà a sapere di un insignificante tradimento sentimentale da parte della moglie con un collega di lavoro durante una trasferta. Prima il sospetto, poi la conferma, di un poco più che innocuo tradimento della moglie – un bacio in macchina, una sera a Milano – sgretoleranno le sue certezze gettandolo nel lastrico esistenziale. Infatti, a quel punto e inaspettatamente, crolla: la moglie e il suo tradimento diventano un’ossessione che lo fiacca e abbatte, rimettendo in discussione l’intera cornice della sua vita, così faticosamente costruita, e trasformandolo di nuovo nella femminuccia di quando era un adolescente insicuro. Il protagonista senza nome si trova di fronte nuovamente ai propri demoni interiori. Lui, che per tutta la sua vita aveva ricoperto il ruolo del traditore, adesso, di colpo, si ritrova, seppur in maniera insignificante, in quello della vittima. Il crollo è rapido, senza freni. Per lui e Lucia comincia un momento di travaglio e di messa in discussione delle antiche certezze, nel tentativo di scoprire se il loro rapporto saprà rinascere su nuove basi o se, all’opposto, sarà invece destinato a sgretolarsi sull’onda dei traumi e delle insicurezze che entrambi si trascinano irrisolti dal loro passato. La scrittura è appassionata, il percorso narrativo sempre credibile. Dal racconto di un padre che gli ha lasciato in eredità l’incubo di alcune foto ingiallite che lo vedono intento da giovane mentre partecipa a un’orgia di periferia, ai dettagli di un tormento interiore che sfocia in ossessiva gelosia nel volgere di un amen. Lo scenario del racconto è Bologna, le sue strade, i suoi locali. Il libro è dedicato al padre.

10Clementi esordisce come scrittore nel 1997, con la raccolta di racconti “Gara di resistenza”. Il modello dichiarato è quello di “Motel Chronicles” di Sam Shepard, interventi brevi e taglienti, perlopiù autobiografici, spesso crudi. Alcuni dei testi sono ripresi, anche integralmente, nelle canzoni dei Massimo Volume. Nel 1998 segue il romanzo “Il tempo di prima” per DeriveApprodi.
Ma è ne “La notte del Pratello”, romanzo autobiografico pubblicato nel 2001 per Fazi, che Clementi trova la propria via al romanzo. Scandito in una sequenza di episodi ora drammatici, ora comici, ora vividamente realistici, il racconto della Bologna underground e marginale mostra il volto di un’Italia diversa e possibile. Il Pratello – la via delle occupazioni, del manicomio, degli ultimi bohémien – rivive in queste pagine con tutta la vitalità dei suoi protagonisti, nei quali si riconoscono i volti ricorrenti presenti nelle canzoni dei Massimo Volume. “L’ultimo dio”, uscito nel 2004 sempre per Fazi, è la prova più intensa di questo periodo. Un raro esempio di romanzo nel quale all’autobiografia si intreccia a una vicenda pseudostorica, quella del poeta Emanuel Carnevali. Il terzo romanzo “Matilde e i suoi tre padri” viene pubblicato nel 2009 per la collana 24sette di Rizzoli.
Segue “La ragione delle mani” nel 2012 per Playground, col quale Clementi torna alla forma racconto. Nel 2013 “L’ultimo dio” viene ripubblicato per Playground in un’edizione arricchita dalle illustrazioni di Andrea Bruno, mentre nel 2014 per i tipi di Giuda edizioni esce “Cattive Abitudini”, un volume di illustrazioni di Gianluca Costantini ispirate ai testi dell’omonimo album.

La notte del pratelloNel marzo 2016 è uscita la ristampa, sempre per Playground,
del fortunatissimo libro degli esordi di Clementi “La notte del Pratello”. Romanzo autobiografico, siamo a Bologna, primi anni Novanta: Via del Pratello è un microcosmo a sé, isolato e fuori dal tempo. Un vero e proprio regno del precariato, teatro all’aperto delle gesta di un piccolo drappello di personaggi indimenticabili che si muovono tra case occupate, bar ed edifici in rovina: Mimì, la voce narrante, che da San Benedetto del Tronto si ritrova in una nuova realtà affascinante e Leo, suo amico, guida e maestro di vita, in preda a una lucida follia. A bordo di un’Ape sgangherata, agli ordini di Pietro Zaccardi, taccagno sospettoso e diffidente, dal carattere infernale, Leo e Mimì passano il tempo a sgomberare le cantine e i solai di mezza Bologna. A loro si aggiungono amici e nemici, la variopinta umanità del Pratello.

“A vent’anni le città sembrano territori di conquista, spazi sterminati dove imporre la propria energia e le proprie speranze”.

Ma per Mimì, avido di vita e con le tasche vuote, la Bologna degli anni novanta si trasforma subito in un luogo misterioso,ricco di trappole,ma anche di opportunità. La sua spedizione esplorativa comincia dal sottosuolo. Insieme all’amico Leo, e sotto la guida tirannica del diabolico Zaccardi, Mimì ripulisce le cantine della città, scovando nel buio e tra lo sporco quel che le persone allontanano, nascondono, dimenticano. Cantine maleodoranti e polverose, che però finiscono per raccontare qualcosa di superiore e nitido sulla vita: dalla forza vertiginosa del desiderio alla morsa della solitudine.
Quando Mimì risale in superficie, ritrova una Bologna ricca e persino magica,attraversata da esistenze e personaggi bislacchi, folli o semplicemente giovani. I più bislacchi si danno appuntamento nella mitica via del Pratello,quasi una repubblica autonoma, in cui convivono prostitute, miserabili, svitati di ogni risma, artisti improbabili, sfaccendati. A loro tocca il compito di incarnare una libertà antica, anarchica, che presto sarà messa in discussione e contrastata dalla Bologna dei colletti bianchi e dell’ordine.

Marina Premoli

Altro libro che scava su cicatrici profonde e altrettante ne lascia nel lettore è quello arrivato nelle librerie dal 15 marzo, ma in anteprima ai Diari qualche mese prima grazie a Luca Giangrandi che lo aveva lasciato durante una sua visita. Il libro è quello di Marina Premoli e pubblicato per Quodlibet, “Questa è già la mia vita”.
Marina Premoli nasce a Genova negli anni Quaranta da una famiglia benestante. Con il ’68 parte per Milano dove fa lavori editoriali. Ben presto si avvicina ai gruppi extraparlamentari. Infine, spinta da vari impulsi, entra in clandestinità e nella lotta armata. Arrestata, incarcerata, evade dal carcere di Rovigo. Riarrestata, trascorrerà molti anni a Rebibbia. Qui incomincia a scrivere e a tradurre. Negli anni, per varie case editrici (Archinto, Sellerio, Garzanti, Bollati Boringhieri), tradurrà molti classici francesi, inglesi e americani.

Un pezzo importante della vita di Marina Premoli è storia recente. Che lo abbia voluto o meno, previsto o meno, la sua storia va a comporre insieme a molte altre la controversa e frammentaria narrazione degli anni di piombo.
Ma intorno, prima e dopo, si delinea una figura più complessa, reticente, tormentata, che tenta di riparare a una dolorosa storia familiare; che pare buttarsi a capofitto nella lotta armata per sfuggire alla depressione e all’alcolismo; che inaspettatamente accoglie poi la reclusione con sollievo, come l’ultimo estremo riparo dalla violenza e dall’incalzare ansiogeno degli eventi.
In un ordine che non è cronologico, ma scandito da una faticosa ricerca del tempo perduto, i ricordi di un’infanzia dorata si alternano ai momenti più drammatici della clandestinità, mentre ogni tanto si riaffaccia la donna di oggi, tornata con il suo difficile passato nei ranghi della buona società, a conferma del fatto che

«i borghesi cascano sempre in piedi».

Senza nessuna retorica, lontana dal tono eroico di molte memorie di quegli anni, Marina Premoli sembra cercare, più che una spiegazione, soprattutto la forza per riuscire a dire la sua storia, senza omettere né aggiungere nulla. La scrittura asciutta e schietta non si piega a nessuna tentazione assolutoria, a tratti limitandosi a uno scarno resoconto, altrove accendendosi nella commozione, nello sdegno, nel rimpianto.
Giovedì 15 marzo è arrivato sugli scaffali della libreria anche un grande scrittore che era stato ospite ai Diari lo scorso anno: Andrés Neuman con «Vite istantanee», sempre per Sur Edizioni e sempre nella traduzione di una cara amica come Silvia Sichel.
Vite istantaneeDopo il successo delle “Cose che non facciamo”, Neuman torna con questa nuova raccolta di racconti selezionata appositamente per i lettori italiani, in cui riunisce il meglio delle sue prose brevi, dimostrando ancora una volta di avere il talento dei grandi nomi.

Un’adolescente osserva le vite altrui chiedendosi perché sembrino sempre così interessanti mentre a lei non accade mai nulla; due innamorati si scrivono lettere inventandosi vite parallele fatte di successi ed episodi memorabili, senza mai confessarsi i reciproci sentimenti; il vecchio Arístides si trova a fare i conti con una vita in cui non ha mai avuto tempo per nessuno, nemmeno per i propri figli; Kenzaburo decide di tentare la sorte mangiando un pesce letale ma delizioso; una figlia sogna di correre per mano insieme alla madre morta senza però riuscire ad afferrarla.

Che raccontino addii, solitudini o semplicemente lo scorrere del tempo, in queste istantanee sulle vite degli altri Andrés Neuman ferma l’immagine su momenti decisivi nelle esistenze dei suoi personaggi. Con una prosa che dimostra una sensualità e un tatto fuori dal comune, in queste storie l’autore riflette sulla fugacità del tempo e su come, nel quotidiano, le cose più evidenti solo raramente saltano davvero agli occhi.

Il suono della vita

“Una minuscola rotazione della nostra amicizia ha fatto sì che mi innamorassi, una piccola, minuscola rotazione, o una ridistribuzione, o un rafforzamento dei nostri sentimenti ha decretato la nascita dell’amore. È successo da un secondo all’altro, in un momento raro, felice, in un momento nel quale ci tocchiamo e ci uniamo come forse avevamo sempre desiderato fare già da prima”.

Sono le bellissime parole tratte dal libro “Il suono della vita” di Hanns-Josef Ortheil, edito da Keller, nella traduzione dal tedesco Scilla Forti.
Un bambino senza parole, la grande passione per la musica, un padre che trova la chiave giusta per riportarlo a parlare. È solo l’inizio di un grande viaggio. Di una piccola meraviglia…
Ortheil è uno degli autori più riflessivi e amati della letteratura tedesca contemporanea, capace di toccare le corde più intime di ogni lettore.
Johannes è un bambino come tanti altri. Anzi no, come pochi altri. Non parla ma non è muto. Semplicemente è nato e cresciuto con una madre che per dolore – la morte dei figli durante e dopo la Seconda guerra mondiale – ha rifiutato le parole. Eppure la vita bussa prepotentemente al suo cuore: ha il suono dell’amato pianoforte e l’aspetto di un padre amorevole che comincerà con lui una paziente formazione a contatto con la natura per insegnargli a percepire immagini e impressioni, disegnarle e assegnare a ciascuna un nome. Piano piano il muro del silenzio si incrina fino a sgretolarsi e Johannes è finalmente libero di seguire i propri desideri.
Il grande amore per la musica lo porta a Roma per diventare un pianista, ma ben presto capisce che anche il fallimento appartiene alla vita. Una volta tornato in Germania, uno dei suoi vecchi insegnanti lo esorta a confrontarsi con la scrittura e sarà ancora Roma, dopo tre decenni, il luogo dove mettersi alla prova e dove scrivere e ripensare alla propria giovinezza, al primo amore, alle amicizie, ai primi successi e alle delusioni… così anche le immagini e le parole disegnate sui suoi quaderni durante l’infanzia diventeranno più nitide e comprensibili.
“Il suono della vita” è un romanzo travolgente sul proprio posto nel mondo, sui sentimenti, sulla forza della musica e della scrittura, sulla loro potenza inventiva e la capacità di stravolgere le barriere fisiche e sociali. Ortheil è uno degli autori più amati, letti e premiati della Germania. Uno scrittore in grado di raccontarci la vita come nessun altro.
Hanns-Josef Ortheil è nato a Colonia nel 1951. È scrittore, pianista e professore di scrittura creativa e giornalismo culturale presso l’Università di Hildesheim. Da molti anni è considerato uno dei maggiori esponenti della letteratura tedesca contemporanea. È stato insignito di numerosi premi per le sue opere, tra cui il Thomas-Mann-Preis, il Nicolas-Born-Preis, lo Stefan-Andres-Preis e l’Hannelore-Greve-Literaturpreis. I suoi romanzi sono stati tradotti in più di venti lingue.

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Sono usciti per la casa editrice Marcos y Marcos due libri molto belli, “Il grande giorno” del mitico Jack Ritchie e “Se Dio fosse una donna” di Leon De Winter.
Sono libri che spuntano, dal felice passato di questa casa editrice fondata ormai nel lontano 1981. Ma il gusto e la modernità appare intatta, se non accresciuta.

Il primo, scritto da Jack Ritchie, fu pubblicato venti anni fa ed è una raccolta di racconti, noir e polizieschi, di poche pagine l’uno, dove l’assoluta particolarità è il colpo di scena finale, che ti attende nelle ultime righe. Quattordici storie dal meccanismo perfetto e senza una parola di troppo. Han detto di Jack Ritchie che avrebbe potuto scrivere “I miserabili” in due paragrafi, perché l’arte della sintesi è una sua grande virtù. Hitchcock lo amava per questo, e per l’eleganza con cui avvince subito e spiazza sempre. Gli bastano pochi tratti per far vivere un personaggio; due frasi per catapultarti nella storia.
Assassini per caso, killer professionisti, studentesse, cuochi, scrittrici, alcolizzati, cassiere, detective, ereditiere, maggiordomi e gigolò ci attirano in case confortevoli, nella cella di un carcere, in una tenuta di campagna, al tavolo di un locale o in vicoli bui, dove c’è stata una vittima, ci sarà presto, o magari non ci sarà.
Ben non sa usare la pistola e chi gliela mette in mano se ne pentirà; fare jogging lungo la scogliera è salutare solo se tua moglie ti vuol bene. Mentire sul suo piatto preferito può salvare la vita a un condannato a morte, e il sesso con un altro non è la forma più pericolosa di infedeltà.
E se la cassiera uccisa durante una rapina tornasse al mondo con l’unico scopo di redimere il suo assassino? E se il cugino dato per morto, unico erede del castello, ti rubasse le sigarette dal cassetto per farti capire che tanto morto non è?
Nei racconti di Jack Ritchie non ci sono eroi, e il male è sempre relativo: prontezza di spirito, intuito, freddezza e una buona dose di cinismo sono armi vincenti nel gioco delle parti di una possibile realtà.

“Se dio fosse una donna” è un romanzo pubblicato ventidue anni fa con il titolo di “SuperTex”, ed è la storia di un ricco imprenditore ebreo che, sul lettino di una psicologa, racconta l’avvincente storia della sua vita.
Amsterdam, alba di un sabato. Max, trentasei anni, erede della florida SuperTex, sfreccia con la sua Porsche fiammante.
Grasso, borioso, decisamente incazzoso, ha appena litigato con la fidanzata, licenziato la segretaria, saputo che una partita di vestiti in lavorazione a Taiwan non arriverà in tempo per la consegna. Ciliegina sulla torta: a due passi dalla sinagoga, investe un ragazzino di famiglia chassidica. E la famiglia minaccia di estorcergli un bel po’ di quattrini.
Quanto basta per dichiarare lo stato di crisi, e affrontarla di petto. Max decide di trascorrere il sabato sul lettino di una psicanalista. In una giornata lunga trentasei anni – ma che vola in un lampo – ripercorre misfatti e conflitti di una vita; con il padre, il fratello, l’universo femminile e l’ortodossia ebraica. “Se Dio fosse una donna” è un romanzo ruggente: scardina le porte della percezione di un uomo arrivato al punto di rottura; da un’affascinante prospettiva ebraica, spalanca una finestra sulla nostra confusa realtà.

La Poesia viene considerata una iattura in libreria, la Cenerentola delle presentazioni. È possibile credere che la poesia italiana sia oggi viva e interessante, e che le si possa offrire uno sbocco editoriale serio e indipendente?
Marcos y Marcos nasce 35 anni fa con la poesia, e ancora oggi risponde sì. Ha lanciato da pochi anni una nuova collana poetica diretta da uno dei più importanti poeti contemporanei, Fabio Pusterla, e impreziosita nelle copertine dalle splendide acqueforti dell’artista Luca Mengoni.

“Le ali, perché la poesia conduce l’intelligenza a volo sopra la cronaca più cupa o mediocre, superando o provando a superare il peso della realtà, senza però dimenticarlo, recuperando o provando a recuperare la complessità del pensiero e la leggerezza del ritmo, la profondità della parola che porta con sé il tempo e che nel tempo, nella lingua e nella coscienza prosegue il proprio viaggio. E la parola della poesia, della poesia che sarà offerta da questa collana, vuole provare ad essere anche una parola leale, una parola che tenta ancora di nominare le cose, il mondo, di ricostruire e rifondare un rapporto con il lettore.Poesia come uccello migratore, in grado di percorrere distanze incalcolabili e di unire con l’arco del proprio volo le cose più lontane, allargando lo sguardo. Che va lontano, ma sa anche tornare alla propria casa. Che sa illuminare la propria casa con la luce della distanza percorsa”. Fabio Pusterla

Pusterla suggerisce non una linea precisa ma una scelta di campo:

“perché il nostro campo sarà quello della poesia onesta e coraggiosa. Cercheremo di proporre buoni libri di autori veri; e lo faremo pubblicando tre titoli ogni anno. Uno sarà un poeta di oggi; un altro sarà invece uno dei maestri rimasti per qualche ragione in ombra. Il terzo titolo oscillerà tra le due polarità”.

Tra i primi titoli un’ampia antologia dell’opera poetica di Anna Maria Carpi, “E io che intanto parlo”, a cui sono seguite le raccolte di Paolo Lanaro, “Rubrica degli inverni” e di Gianluca D’Andrea, “Transito all’ombra”, i racconti lirici “Un giorno della vita” di Giorgio Orelli, il «romanzo in versi» “Maiser” di Fabiano Alborghetti, la raccolta “Il cane di Giacometti” di Stefano Raimondi, e tanti altri ancora.

Valentino ZeichenA proposito di poesia, un libro che mi piacerebbe davvero far conoscere ai lettori e agli appassionati dello Zaino è quello di Valentino Zeichen, “Le poesie più belle”, edito da Fazi. Il libro è uscito nel luglio scorso in occasione dell’anniversario della scomparsa del poeta. Valentino Zeichen era un poeta e scrittore “irregolare”, che viveva in condizioni di estrema povertà:

“Delle volte se non ho da mangiare digiuno. Mi convinco che fa parte della mia dieta”.

Una vita a scrivere poesie, senza curarsi del denaro e per questo, per anni, Zeichen ha vissuto nell’indigenza più assoluta e in una casa fatiscente.
«Presso tutti gli uomini», dice Omero nell’Odissea, «i poeti godono della massima venerazione e di rispetto, perché la Musa ha insegnato loro il canto e ha cara la stirpe dei poeti».
Per quarant’anni Valentino Zeichen ha passeggiato per le vie romane consapevole che i poeti non erano più venerati come al tempo dei greci, ma che, se fosse stato vivo, Omero lo avrebbe celebrato come un grande. Moravia non a caso l’aveva riconosciuto come «un Marziale contemporaneo» e altri nel tempo hanno definito questa figura di poeta sui generis «un libertino minimale settecentesco» (Ferroni), «un Gozzano dopo la Scuola di Francoforte» (Pagliarani), un neoclassico beffardo, un dandy, un flâneur, un neo liberty, un hidalgo.
Oltre che grande poeta, Zeichen è stato un personaggio la cui vita e le cui opere sono già diventate leggenda insieme ai suoi sandali francescani e alla baracca dietro piazza del Popolo in cui, da austro-ungarico trasferitosi a Roma, ha vissuto nello «sdegnoso rifiuto di un qualsivoglia lavoro e con violenti attacchi alla civiltà dei consumi», come ha avuto modo di scrivere Valerio Magrelli. Non è vero quello che spesso hanno sostenuto i critici, e cioè che la “ragione” fosse unicamente al centro dei suoi componimenti. Al contrario, Valentino Zeichen ha messo subito a nudo il “cuore” in una delle sue prime poesie:

«Presumibilmente, / sembro un poeta di alta rappresentanza / sebbene la mia insufficienza cardiaca ha per virtù medica il libro Cuore».

E non è neanche vero che Zeichen fosse un antilirico. A riprova di ciò, basta leggere alcune sue poesie sulla madre Evelina, e sulla fanciullezza passata a Fiume, per rendersi conto che nel suo caso l’etichetta di antilirico non ha alcun senso.
Il problema di Valentino Zeichen è stato quello di essere un gigante in mezzo ai nani. Nel primo anniversario della morte, che il libro intende celebrare, si ricordi che questa notevole figura di poeta, che nei suoi versi importò anche temi difficili e raramente trattati come quelli riguardanti la geopolitica, la chimica e la scienza, sue grandi passioni, è sempre stata ignorata dai maggiori premi letterari. Fuor di polemica, con questo omaggio che intende raccogliere le sue poesie più belle, si vuole ricordare il poeta, l’amico e soprattutto un uomo che, con la sua coerenza intellettuale e il suo rigore, ha lasciato un segno indelebile nel mondo culturale italiano.

Nello Zaino di Antonello: I libri devono lasciare cicatrici profonde nel lettore.