di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Un romanzo inglese. Stéphanie Hochet (traduzione di Roberto Lana, Voland)

Virginia Woolf
Virginia Woolf

“Vi è un’epoca in cui ogni mattino risveglia promesse di felicità e ogni giorno è foriero di una miriade di possibilità. È tutto lì, a portata di mano, basta volerlo. Basta la vitalità dei corpi per essere felici”,

riflette Stéphanie Hocet. Quando si vive la felicità senza averne consapevolezza, e si ama nella libertà delle potenzialità di essere in due, a volte si può arrivare ad avere la percezione di essere superiori anche alla morte, quando quella “attesa misteriosa”, come Victor Hugo definiva la gioventù, è capace di mescolarsi alle aspirazioni, diventando un tutt’uno con quella brama.

Anna Wigh non sa definire il momento esatto in cui ha sentito di essere felice. Traduce Anathole France, il dramma in versi Le noces corinthiennes ispirato a una ballata di Goethe, dal suo cottage nel Sussex mentre imperversa la guerra. Si nutre di letture forse per cercare risposte alla sua vita, usa la lettteratura per riflettere sui grandi temi del suo tempo, come il diritto di voto alle donne, le battaglie delle suffragette, il valore della vita del singolo in funzione di un’idea di patria. Sente l’urgenza di un ordine interiore per contrastare la devastazione che la circonda, nonostante quella parvenza di normalità costruita nella fuga dalla capitale in quell’alterità borghese ovattata che perpetua la distinzione sociale tra noi e loro. Dieci anni di matrimonio con un orologiaio di fama vissuti con sprazzi di intesa poi dissolti inesorabilmente nella solitudine dell’essere in due. Un silenzio che si fa distanza, lontananza emotiva, dove nulla potrà neanche l’arrivo di un figlio, che non farà che sancire quel vuoto e rimarcare l’incapacità di reinventarsi per entrare in una dimensione a parte, quella dell’infanzia, l'”età della serietà”. Solo George sarà in grado di farlo, la persona che si occuperà della sua educazione, un giovane dallo sguardo puro, capace di  costruire il fantastico a misura di un bambino di tre anni e renderlo strumento per imparare a vedere con occhi nuovi anche i fiori artici e le cose gelate e effimere descritte da Emily Dickinson.

Hochet rivoluziona molte delle convenzioni sociali del tempo della narrazione, a partire dalla scelta di scardinare l’immagine dominante dell’incapacità maschile di prendersi cura di un bambino, mettendo in contrasto la figura del padre, che delega ogni incombenza pratica e attenzione emotiva ad altri, con l’esempio di un’altra forma di paternità al di fuori da ragioni biologiche. È il 1917, il racconto di uno spaccato di società che cerca una parvenza di normalità è tra le mura di quel cottage, nei pensieri che si perdono nelle Fiandre meno pittoresche di quelle di Van Eyck, e che seguono un cugino mai presente nella scena ma evocato costantemente nell’idea di un corpo giovane e perfetto offrerto in sacrificio. Si interroga su cosa significhi davvero onorare il Paese, come

“riparare il meccanismo di un orologio di famiglia o di un pendolo, mentre gli Zeppelin sganciano centinaia, migliaia di cilindri carichi di esplosivo sulla capitale, come si distrugge un formicaio. Oppure parlare del senso della punteggiatura nell’opera di Proust quando non si hanno più notizie di un cugino inviato al fronte. Leggere una tragedia greca, spolverare il servizio da tè, anche se nessuno verrà a farci visita”.

Attraverso una narrazione essenziale nelle descrizioni e scarna nei dialoghi,  Stephanie Hochet racconta la crescita interiore di una donna alla ricerca di una ridefinizione di sé, nell’interrogativo che sottotraccia sembra tormentare costantemente il suo presente. Quando il benessere si traduce in una stabilità solo illusoria perché incapace di colmare vuoti emotivi, quando essere genitori diventa solo un ruolo e l’infanzia poco più che un momento che si attende passi il più presto possibile delegando ad altri il compito dell’educazione, quando i silenzi sono parole superflue e distacco, allora l’altro assume improvvisamente fattezze spettrali, grottesche, come riflesso di queste consapevolezze. Quell’uomo colto che domina il mondo dell’infinitamente piccolo convinto che segua le stesse logiche dell’infinitamente grande, appare improvvisamente agli occhi di sua moglie come l’oggetto del disgusto. Cela a stento il ribrezzo per quel ventre arrotondato e per quella calvizie che finge di amare mentre lo osserva immerso nei fumi del bagno con il suo sigaro brasiliano assaporato lentamente. Troppo lontano ormai il tempo del benessere, dell’unione delle anime, del mescolarsi con l’altro. Non resta che lo spazio per quello in cui tutto inesorabilmente si trasforma, e il corpo ne diventa il testamento.

Stéphanie Hochet
Stéphanie Hochet

Al di là del rilievo storico, sociale e politico di un romanzo che indaga la condizione della donna nel Primo Novecento, gli effetti della guerra e il senso dell’esistenza in funzione dell’imposizione di un senso di appartenenza patriottica e di ideale morale, ciò che rende Un romanzo inglese degno di particolare attenzione è il modo di restituire la ricerca interiore della protagonista attraverso una forma narrativa in grado di plasmarsi a quelle inquietudini. Anna Wigh ha paura di vedere ciò che ha dentro, sente l’urgenza di uscire da sé per capire chi è nel presente: la narrazione ricalca questa ricerca tormentata entrando e uscendo costantemente dalla prospettiva della protagonista. Attraverso un abile artificio narrativo Hochet attua un’alternanza che ricalca lo spaesamento di una donna incapace ormai di definirsi se non mettendo in atto una serie di rotture da ciò che convenzionalmente è sempre stata agli occhi degli altri: fare pulizia, annullare ogni altra definizione per riscriverne una propria solo in funzione di sé stessa, al di fuori di ogni ruolo sociale o posizione. Gioca con la struttura con una scrittura solo all’apparenza lineare nel dipanarsi in una dimensione temporale ordinata, per raccontare il percorso tortuoso di ricostruzione di sé della protagonista che passa anche dalla consapevolezza del significato della maternità, di quei pensieri indicibili da cui sente di dover proteggere sé stessa e suo figlio da un senso di onnipotenza del diritto di vita e di morte su chi si dà alla luce. Attraverso le vicende dei suoi protagonisti, Stéphanie Hochet rimarca velatamente la necessità di ripensare in termini nuovi alle figure della maternità in letteratura, tema oggetto di attenzione del recente saggio uscito per Del Vecchio, Nel nome della madre. E lo fa scegliendo un periodo storico di grandi trasformazioni sociali in cui il peso intellettuale della donna preme per essere riconosciuto istituzionalmente attraverso rivendicazioni sociali riflesso di quelle battaglie che, come rimarca Teresa Forcades nel saggio La teologia femminista nella Storia, Nutrimenti, hanno caratterizzato l’inizio della modernità: la nascita dell’autonomia della donna, capace di agire in accordo a ciò che pensa.

Ogni tema del romanzo è affrontato con un gioco di opposti tra finzione, dramma, tragedia, piccole ironie dell’imperfezione umana, esaltando dicotomie che permettono al lettore di non adagiarsi mai su alcuna certezza. Hochet affonda nell’ambiguità per raccontare le contraddizioni dell’animo umano, come in fondo faceva anche Virginia Woolf usando la scrittura come mezzo per interrogarsi sulle ragioni dell’esistenza. C’è un legame tra l’inizio della tragedia e l’irregolarità del tempo, sosteneva Shakespeare. Hochet insegna al lettore che per seguire una propria ricerca interiore occorre riappacificarsi col tempo, accogliere le proprie trasfigurazioni e concepire la memoria nelle sue continue contrazioni, utili per rifuggire l’assenza e riempire il presente. E fare i conti con ciò che si perde, per trovare il modo di oggettivizzare il dolore dei ricordi magari attraverso la poesia, quell’arte “di dire ciò che opprime il petto, nella zona del cuore. Un modo di fuggire, certo, ma restando immobili con il corpo”. Allora forse, come proverà a fare la protagonista di Un romanzo inglese, si potrà imparare a respirare una libertà da afferrare senza esitazioni, complessi o lasciapassare, quella che, come scrive Hochet, è ancora più inebriante dopo un armistizio ed essere indulgenti con sé stessi, indossando le contraddizioni e le ambiguità che permettono di appropriarsi di quella parte sconosciuta e incontaminata di sé, e per questo vera.

Recensione uscita su Repubblica Parma. Letture di Alice Pisu, il 13/12/2017

I Libri di Alice: Un romanzo inglese