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Il 13 e il 14 febbraio, dopo il successo della programmazione-evento nelle sale cinematografiche di fine gennaio, “Principe libero”, film dedicato a Fabrizio De André, con Luca Marinelli nelle vesti del cantautore e Valentina Bellè in quelle di Dori Ghezzi, sceneggiato da Francesca Serafini e Giordano Meacci con la collaborazione del regista, Luca Facchini, andrà in onda su Rai Uno in prima serata, in due puntate.

Principe liberoDimmi un luogo in cui mi avresti dato appuntamento per chiacchierare dal vivo. – chiedo come al solito a Francesca Serafini, che ho invitato a confrontarsi con me che dalla visione del film ho tratto un’inconsueta emozione, e una grande ammirazione per il fine lavoro di scrittura che sostiene il film, e arriva immediato e diretto al pubblico.

In questo caso a Genova; oppure in mezzo a un bosco in Gallura, dove non avremmo avuto bisogno di altro. – mi risponde la scrittrice e sceneggiatrice romana. In realtà non si ha mai bisogno di altro, quando si chiacchiera con lei, di libri (come QUI, in cui ci siamo scambiate impressioni su “Di calcio non si parla”) o di film (come QUI, in cui insieme a Giordano Meacci, abbiamo chiacchierato di “Non essere cattivo”, l’ultimo film di Claudio Caligari).

Giordano Meacci oggi non c’è, ma è come se fosse stato ugualmente presente, tanto è forte il binomio con Francesca Serafini, che l’una vale anche per l’altro.

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De André è un genio.

Glielo riconosce più volte l’amico Paolo [Villaggio] (quanto somiglia al vero, l’attore che lo interpreta: Gianluca Gobbi), dando il destro per una delle battute fulminanti di Fabrizio: – Per riconoscere un genio ci vuole un altro genio! – che racchiude nel sottotesto un omaggio all’attore ligure, scomparso da un anno. L’amicizia tra i due, intesa come stimolo, sollecito e sostegno anche professionale e non solo sodale nei bagordi, è del resto un elemento costante nella sceneggiatura, e tesse in filigrana un tema fecondo per raccontare De André: gli incontri, i sodalizi e le amicizie che hanno segnato la sua vita.

Come l’amicizia con Luigi Tenco, che viene tracciata nel film attraverso bellissimi dialoghi, pieni di senso, esegetici della poetica di entrambi e condotti sul filo di una finissima ironia.

De André è un mito. Uno dei più grandi cantautori italiani. Però… questo basta per renderlo protagonista, assoluto, di un film? Cosa c’è nella figura di Fabrizio De André che l’ha resa “cantabile” cinematograficamente?

Comincio dallo scambio sul genio. Per me e Giordano, che come sai nasciamo linguisti, ridare senso alle parole è importante. Sui social (che non ci sogniamo certo di demonizzare e di cui invece apprezziamo molto il rilancio della scrittura) spesso le parole, rimbalzando da una bacheca all’altra, rischiano l’usura e “genio” è una di queste: usata spesso a sproposito nei commenti a post che di geniale non hanno proprio niente. De André col suo genio – il suo sguardo, la capacità che articola in tutti i suoi testi di mostrare qualcosa che non avevamo visto, o capito, o apprezzato nella maniera giusta – tra le altre cose ha ridato un significato pieno alla parola. Ma il genio, se non c’è qualcun altro in grado di riconoscerlo, può procurare in chi ne è dotato un vago senso di frustrazione. Per questo per Fabrizio sono stati importanti alcuni incontri fondamentali come quello con Paolo Villaggio (che nel nostro racconto sintetizza anche altri amici che per ragioni drammaturgiche non potevamo mettere in scena): sono state due persone speciali che hanno avuto la fortuna di spartire nello stesso tempo lo stesso ritaglio di pianeta, e che hanno saputo far diventare, proprio alimentando a vicenda il loro genio, una fortuna per tutti. È chiaro che in quella complicità (senza ovviamente fare paragoni inadeguati) Giordano e io abbiamo travasato la passione della nostra intesa, che dura ormai da più di venticinque anni e che è nata proprio sotto il segno di De André, visto che ci siamo conosciuti nell’àmbito di un seminario di storia della lingua italiana in cui si studiavano i suoi testi. Le storie di amicizia sono quelle che ci vengono più naturali (penso anche a quella tra Cesare e Vittorio in “Non essere cattivo”), perché sappiamo tutti che quando si scrive, anche quando si mente (magari inventando tutto) se si vuole colpire al cuore non si può fare a meno di dire la verità: di mettere al servizio del racconto, cioè, qualcosa di autentico che si è provato almeno una volta nella vita. Nella speranza che dal particolare, almeno nelle intenzioni, si possa passare all’universale. E questo è quello che abbiamo provato a fare anche nella sceneggiatura di De André. Abbiamo cercato di individuare nella straordinaria vicenda umana di questo artista immenso gli elementi che potessero parlare a tutti. E indipendentemente da quanto si conosca Fabrizio e da quanto si amino le sue canzoni, la nostra speranza è che nella sua continua lotta per una libertà negata (dal conflitto adolescenziale col padre, alle costrizioni dovute alla sua paternità precoce, fino ad arrivare alla negazione totale della libertà nei mesi del rapimento), gli spettatori possano trovare una catarsi per le loro tribolazioni (magari di altro tipo, ma non meno complicate da vivere) nel loro quotidiano commercio con il mondo.

De André

Da una parte “Principe libero” racconta la trasformazione di Fabrizio in De André, che mi sembra si evidenzi anche dagli abiti: dai vestiti ingessati delle prime scene fino alla giacca da cowboy, quasi una spoliazione rituale degli abiti borghesi che lo rafforza sempre più nella nuova, vera identità per cui ha combattuto fin da ragazzo. Dall’altra un punto di riferimento e un tema costante che attraversa la narrazione del film è il rapporto con il padre, Ennio Fantastichini nel ruolo, che sa dare al personaggio un tocco di teatralità che mira a universalizzare la figura, relegandola in secondo piano, com’è giusto che sia, senza togliere il pathos e lo spessore che le spetta. 

Il migliore investimento che ho fatto sono stati una chitarra e un libro – la musica e il diritto, le strade dei figli. Il Volpone, questo il soprannome con cui è designato affettuosamente, pronuncia questa frase in uno degli ultimi incontri con Fabrizio, nella tenuta sarda dopo il rapimento. Serve a chiudere un discorso (ma anche una vita e il senso di un rapporto) tra i due: Fabrizio che pensa gli stia rinfacciando, o quanto meno ricordando, i soldi spesi per il suo riscatto, e il padre che mostra il suo disinteresse per il guadagno meramente inteso, e che sublima la sua cura come padre, che non è solo dare, ma dare il giusto.

I dialoghi tra padre e figlio sono forse i più sentimentali del film, e il rapporto tra i due il più ricco, e anche il più scivoloso. A mio avviso, tu e Giordano l’avete trattato, nella ricerca delle parole giuste, con una certa disambiguazione, molto fascinosa. In molti dei loro incontri, a Fabrizio sembra che il padre voglia dire una cosa, o meglio rimproverare qualcosa, mentre il padre finisce sempre per smentirlo, e per mostrargli una comprensione e una benevolenza che il figlio non si aspetta, o che non crede di meritare. 

Quanto è stato difficile scrivere parole o metterle in bocca ai personaggi, in un rapporto così ricco, complesso, ambiguo di sfumature e sentimenti, com’è quello tra Fabrizio De André e suo padre? Forse la difficoltà di scrivere una sceneggiatura, rispetto per esempio a un romanzo, è proprio nel “mettere in bocca” le parole e non potersi concedere altro spazio? Oppure è un vantaggio?

Potendo scegliere, più che rispondere preferirei continuare ad ascoltare le tue analisi. Perché sono tante le cose della nostra ricerca che sento comprese nelle tue parole. Per esempio, da sempre abbiamo considerato il primo episodio come un romanzo di formazione in sé, usando per definirlo le tue stesse parole: un percorso in cui appunto “Fabrizio diventa De André” (o “Amico fragile”, che infatti chiude la puntata e che è forse il testo più autobiografico di Fabrizio). Prima di risponderti sulla figura paterna, però, in segno di gratitudine ti dirò una cosa che sanno in pochi, proprio a proposito degli abiti su cui si è soffermata la tua attenzione (che poi è anche l’occasione per segnalare il lavoro accuratissimo di Mariarita Barbera e Gaia Calderone; così come quello degli altri reparti che si sono occupati della messa in scena, organizzati da Maria Panicucci che è stata fondamentale nella realizzazione del film): quelli del secondo episodio in qualche caso non sono costumi di scena ma autentici del vero Fabrizio, compresa la giacca di pelle con le frange che citavi. Tutte cose che con grande generosità ha messo a disposizione Dori Ghezzi. Ricordo per esempio con commozione la volta in cui Marinelli, provando il giaccone blu che poi indosserà in alcune scene, trovò nelle tasche alcuni biglietti pieni di apprezzamenti regalati a Fabrizio alla fine di un concerto, e ancora lì, in un passaggio da un universo all’altro, a sottolineare a distanza di tempo il profondo amore che continua a legarci a lui e alle sue canzoni.

Tornando a noi, e al modo in cui abbiamo tratteggiato la figura di Giuseppe, mi colpisce il modo in cui le tue parole me lo restituiscono per come lo avevamo in mente. Si tratta in quel caso più di altri di un personaggio “inventato dal vero”, perché il Volpone è stato un padre autorevole ma mai autoritario (infatti Fabrizio, anche quando è entrato in contrasto con lui, non hai mai smesso di provare affetto e stima profonda); e però anche una straordinaria possibilità per Giordano e me per mettere in scena certe idee drammaturgiche che ci assillano: l’idea che ci possa essere un modo diverso e meno tranchant di delineare i personaggi (non solo buoni o non solo cattivi) e le dinamiche che si innescano tra di loro. Rifiutando un’idea più canonica e “urlata” dei conflitti così come si insegnano nei corsi di sceneggiatura. E il ritratto di Fabrizio in questo senso si prestava in modo particolare, perché a pensarci nella sua storia la figura dell’antagonista varia e si sfuma nella sua percezione. Non è mai quello che ti aspetti, anche quando l’antagonismo è esplicito (vedi i rapitori), perché il suo sguardo umano rende umana anche una funzione narrativa di questo tipo. 

Dori Ghezzi

Dori Ghezzi: una figura di grande rilievo nella vita di De André. Interpretata da Valentina Bellè con una grazia naturale e una forte immediatezza.

Di cosa siete debitori tu e Giordano a Dori Ghezzi nella sceneggiatura? Quali rapporti sono intercorsi tra lei e la vostra scrittura?

Conoscere Dori è stato un regalo. La sua generosità il rigore l’intelligenza fulminante e i lampi del suo sorriso sono sicuramente il patrimonio più grande che ci lascia in dote quest’esperienza. Il rapporto che abbiamo creato e che poi ha dato vita anche a un libro che uscirà prossimamente per Stile Libero Einaudi. Abbiamo con lei un debito nella vita più ancora che nella scrittura, anche se naturalmente ha contribuito in maniera decisiva al nostro lavoro in due diversi modi: mettendoci a parte di aspetti della loro vita che non avremmo potuto conoscere diversamente; e comprendendo sempre il modo in cui li abbiamo rielaborati tutti, trasformandoli in un’altra cosa, che desse il senso della loro realtà ma si trasformasse in un’altra cosa, Nell’universo altro che tutti insieme abbiamo, appunto, “inventato dal vero”, sempre per citare Bertolucci che cita Proust.

Luca Marinelli

E in che rapporti è con la vostra scrittura Luca Marinelli, che ha saputo rendere Fabrizio più ancora che De André, l’uomo più che il mito? Sembra che si cali perfettamente e magistralmente nei personaggi che scrivete, a partire da Cesare in “Non essere cattivo”. Bravissimo sempre lui, ma a me sembra che nei personaggi scritti da voi lo sia ancora di più.

Aver dato parola di nuovo a Luca Marinelli è stato anche quello un regalo e un privilegio. Luca è maniacale nello studio, entra dentro il testo, lo comprende in tutte le sue pieghe, coglie tutti i fuochi incrociati che cerchiamo di mettere in ogni scena. Rende viva la nostra scrittura caricandola della sua intensità: della dolcezza infinita e del guizzo spiazzante tra i mille registri in cui si dispiega il suo talento. Vorremmo averlo in ogni cosa che scriviamo. Non c’è differenza tra l’amore che proviamo per il nostro lavoro e quello che ci lega come persone: fratelli, mi verrebbe da dire, come ci ha resi l’esperienza di “Non essere cattivo”. E ho la sensazione che tutto questo amore, in qualche strano modo, filtra nelle cose che facciamo insieme e trova il modo di arrivare a quelli che ci entrano in contatto. Anche per questo, e per la lezione di cinema che ci ha dato, non smetteremo mai di essere grati a Claudio Caligari che è il primo artefice di questa intesa.

Chiacchierando con… Francesca Serafini di De André