di Chiara Mezzalama

Chiara Mezzalama

 

 

 

 

 

Nel cuore del Marais, negli hôtels particuliers de Guénégaud e di Mongelas (XVII e XVIII secolo) si trova il Musée de la Chasse et de la Nature. Niente di così attraente all’apparenza se non fosse per lo strano titolo della mostra in corso Beau Doublé, Monsieur le marquis, che non saprei esattamente come tradurre ma che mi fa rallentare il passo e infilarmi nella corte di questo palazzo antico. Sophie Calle e la sua ospite Serena Carone, due artiste irregolari e irriverenti hanno avuto carta bianca in mezzo ai trofei di caccia, gli animali imbalsamati, le armi, le nature morte, i lampadari in corna di cervo e le poltrone in placo di alce.

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            Il museo è già di per sé un luogo incredibile e sorprendente: uno scrigno pieno di tesori inaspettati, un luogo notturno e antico, dove si desidera rimanere soli, dove si immagina di aver vissuto altre vite, dove lo scrittore Yannik Haenel ha ambientato una scena del suo ultimo romanzo Tiens ferme ta couronne, edizioni Gallimard, (non ancora tradotto in Italia) raccontando che viene spesso qui a scrivere. Ho la fortuna di ascoltarlo dialogare con Sophie Calle in una delle sale del museo, entrambi sono affascinati dalla caccia come metafora delle passioni umane; «si diventa tutt’uno con la preda» dice Haenel riferendosi alla missione dell’artista che cerca una verità che sempre gli sfugge e che è all’origine della creazione. «Ciò che racconto» dice Calle, «non è un’invenzione, ma non è nemmeno la verità, è ciò che succede a tutti. Se l’arte è una caccia della verità, l’amore non è forse una caccia all’uomo?».

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Uno degli spunti di partenza del lavoro di Calle per questa mostra è la morte recente del padre, grande collezionista d’arte, ma anche dei suoi gatti, tutti imbalsamati, come molti degli animali che l’artista ha posseduto negli anni e che ritroviamo nelle sale, nascosti tra i mobili, fotografati, mimetizzati e mischiati con gli animali appartenenti alle collezioni permanenti del museo, come il grande orso bianco, mascotte dei luoghi, che è stato nascosto da un grande drappo bianco. Percorrendo i salotti che sembrano appartenuti a antenati facoltosi e aristocratici, e hanno nomi suggestivi come Sala del cervo e del lupo, Cabinet dell’unicorno, Salone dei cani o Stanza delle armi, si cercano indizi, si leggono i piccoli testi di Sophie Calle, tratti da 38 Histoires vraies (Éditions Actes Sud)che lei definisce «scritti per il muro, nel senso che la gente deve leggerli in piedi» -, si scoprono rimandi tra l’opera delle due artiste, animali fantastici che fanno da specchio a quelli reali, armi finte, oggetti incongrui, rovesciamenti di senso; l’effetto è quello di un gioco sofisticato e ironico dove ad ogni momento si aspetta un’apparizione, una sorpresa, una sfida o una provocazione.

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Non è facile descrivere il piacere che suscita la scoperta di questa incredibile wunderkammer, il museo diventa il territorio di caccia delle artiste che sono a loro volta prede, mettendosi a nudo e nascondendosi, camuffandosi e svelandosi con una grande versatilità nell’uso dei mezzi espressivi. Il tema della morte è ovunque senza pertanto rendere l’atmosfera lugubre, come nella grande statua di ceramica Deuil pour Deuil di Serena Carone che rappresenta l’amica Sophie Calle sulla sua tomba immaginaria circondata dagli animali di compagnia imbalsamati della sua collezione personale. È presente il tema del fallimento: ciò che la società considera un fallimento non è già di per sé un successo artistico?

All’ultimo piano del museo leggiamo i testi esilaranti raccolti e mescolati da Sophie Calle in più di cento anni di pubblicazione della rivista Le chasseur français, una sorta di catalogo delle caratteristiche cercate nella donna da individui di sesso maschile, nonché cacciatori, del secolo scorso. Sicuri che le cose siano davvero così cambiate, sembra chiedersi Calle?

All’uscita un freddo glaciale spazza le strade, i giorni della merla sono arrivati. Lassù, in qualche teca del museo, alcuni di loro staranno facendo festa.

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