di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

DI FRONTE A UN CAPOLAVORO

Recensione al libro di JULIEN GRACQ “La riva delle Sirti”

(L’orma)

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“Je n’ai pas prèté attention aux premiers echos –parus dans Le Figaro et Le Figaro littéraire et ailleurs- qui faisaient état des mes “chances” pour le prix de fin d’année. La position que j’avais prise l’an dernier au sujet des compétitions littéraires dans un article La littérature à l’estomac (dont Le Figaro littérarire avait reproduit des extraits) tout autant qu’elle les rendait invraisemblables me parassait leur opposer d’avances un démenti suffisant… je ne suit pas, et je n’ai jamais été, candidat.. dison pour mieux me faire entendre que je suis, et aussi résolument que possible, non candidat… Je persiste à penser que qu’il n’y a plus aucun sens a se preter de loin ou de prés à quelque  competition que ce soit et qu’un écrivain n’a rien a gagner a se laisser rouler sout cette avalanche…”

[Non ho prestato attenzione alle prime eco –apparse sul Figaro e sul Figaro Littéraire e altrove- che prendevano atto delle mie “chances” per il premio di fine anno. La posizione che avevo preso l’anno scorso riguardo alle competizioni letterarie in un articolo “La Letteratura senza vergogna” (di cui Le Figaro Littèraire aveva riprodotto degli estratti), che  le rendeva altrettanto inverosimili, mi pareva una smentita sufficiente da opporle… Io non sono, e non sono mai stato, candidato… diciamo, per farmi capire meglio -e lo dico in un modo che non ammette repliche- che io non sono candidato (al premio Goncourt)… Persisto a pensare che non vi sia alcun senso a prestarsi,  tanto o poco, a qualsiasi tipo di competizione e che uno scrittore non ha nulla da guadagnare a lasciarsi travolgere da questa valanga…].

(La lettera integrale di Julien Gracq, inviata il 28 novembre 1951, al redattore capo di Le Figaro Littèraire, Maurice Noel, è consultabile nella sua versione integrale sul sito http://terresdefemes.blogs.com. La si trova, poi, nelle edizioni complete delle opere di Julien Gracq pubblicate da Gallimard, nella Bibliothèque de la Pleiade nel 1989 a pag. 1360. La libera traduzione dal francese è mia. Ho tradotto “La Littérature à l’estomac con “La letteratura senza vergogna” che è il titolo con cui venne pubblicato in Italia, nel 1990, lo scritto di Gracq).

Malgrado questa lettera il Premio Goncourt venne assegnato lo stesso, tre giorni più tardi, a Julien Gracq per il suo capolavoro “Le rivage des Syrtes”, “La riva delle Sirti”. Come c’era da aspettarsi Gracq rifiutò il premio. Le ragioni erano contenute già in quella lettera, ma anche nel suo pamphlet “La Letteratura senza vergogna” (Theoria, 1990) uscito in Francia nel 1950. Era la prima volta che uno scrittore rifiutava il Goncourt. Sarebbe accaduto ancora perché nel 2016 il giovane scrittore Joseph Andras avrebbe rifiutato il Premio Goncourt Opera Prima per il suo romanzo “Dei nostri fratelli feriti” (Fazi.2017). Era un libro che parlava dell’Algeria e del militante comunista Fernand Iveton, unico europeo giustiziato durante la guerra d’Algeria. Le motivazioni addotte al rifiuto erano simili a quelle di Gracq: competizione e concorrenza dovrebbero essere estranee alla scrittura. Del resto un altro francese aveva rifiutato un premio letterario, quello più prestigioso, il Nobel. Il 22 ottobre 1964 il Nobel venne assegnato a  Jean Paul Sartre che il 23 ottobre lo rifiutò per motivazioni personali e oggettive. Le motivazioni personali, che spiegò in una lettera all’Accademia norvegese, erano queste: aveva rifiutato e avrebbe rifiutato qualsiasi tipo di riconoscimento perché accettare tali riconoscimenti avrebbe significato, per l’autore, trasformarsi in una “istituzione”. Le motivazioni oggettive, contenute anch’esse nella lettera, erano legate al fatto che Sartre era impegnato in una battaglia per la coesistenza pacifica tra est e ovest e che, per essere coerente con questa battaglia, avrebbe rifiutato premi e riconoscimenti sia che venissero dall’est, sia che venissero dall’ovest. Fece scalpore la sua richiesta del 1975, quando richiese di ritirare il Nobel, con il suo equivalente economico, che gli sarebbe servito per iniziative umanitarie. La richiesta venne rifiutata.  

Ma torniamo a Gracq (che, detto per inciso, non amava Sartre e gli esistenzialisti). Il suo pamphlet, “La letteratura senza vergogna” era un durissimo atto di accusa ai premi letterari, a gran parte della letteratura francese dell’epoca, all’industria culturale che si stava, poco alla volta, affermando:

“Il pubblico francese sa che la sua missione innata è quella di eleggere i presidenti della repubblica delle Lettere. Di qui, quella cucina parlamentare, quelle gelosie, quegli intrighi da serraglio, quelle manovre d corridoio, quei congedi della clientela, quelle maldicenze giornalistiche, quegli scrutini truccati, più machiavellici di quelli della Serenissima, quel cursus honorum disseminato di trappole e di deviazioni che rendono la vita letteraria francese così scarsamente eccitante. Infatti lo scrittore francese dà a se stesso l’impressione di esistere molto meno nella misura in cui lo si legge che nella misura in cui ‘se ne parla’ ” (pag.30).

E poco oltre:

“Chiunque sia stato pubblicato una volta in Francia, anche se il suo debutto è stato soltanto onorevole, ha tutte le possibilità di esserlo sempre: comunque ci conta e in un rifiuto non riuscirebbe che a vedere altro che un affronto o una tenebrosa manovra. Come l’editore sa che dopo un primo libro ne verrà più o meno inevitabilmente un secondo, così egli ritiene di aver concluso un contratto a vita col pubblico: è entrato in un giro legale con le conseguenze irreversibili dell’adozione e ne ricava una sensazione di grande sicurezza: sa che nella letteratura francese non si prende quasi mai in prova” (pag.33-34).

Pagine corrosive, pagine taglienti  a cui seguì un comportamento coerente tanto che Gracq, pur continuando a pubblicare, scelse, per le sue opere, una casa editrice piccola come Corti che aveva già pubblicato i surrealisti e si decise ad una vita molto ritirata tra Parigi e la casa di famiglia sulla Loira fino alla sua morte, nel 2007.

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Solitamente uso con una certa reticenza la parola “capolavoro” ma,  nel caso di “La riva delle Sirti”, non ho nessun dubbio ad utilizzare il termine. Si tratta di un capolavoro della letteratura francese del dopoguerra e non solo francese. Il libro venne pubblicato in Italia nel 1952 nella prestigiosa “Medusa”, appena un anno dopo la sua uscita in Francia. Venne, poi, rieditato da Guida nel 1990. Ed ora abbiamo questa curatissima edizione de “L’orma”. La traduzione, come già quelle di “Medusa” e “Guida” è di Mario Bonfantini, traduttore di Proust, Voltaire, Baudelaire, Rabelais. Gli eredi hanno concesso la licenza per l’utilizzazione della traduzione a “L’orma”. E di questo bisogna essere loro grati. Come bisogna essere grati alla casa editrice per aver riproposto un testo come quello di Gracq, praticamente introvabile. Inoltre la traduzione di Bonfantini è un capolavoro nel capolavoro. I termini apparentemente desueti, l’uso di una prosa alta, come è anche nell’originale, permettono di apprezzare la scrittura di Gracq e di collocare la vicenda in una dimensione atemporale (rimando per questi temi alla preziosa “Nota editoriale” che si trova alla fine del libro. Pag.331-333).

In poche parole la trama:  la signoria di Orsenna, in un tempo non definito, è in guerra da trecento anni con il Farghestan. In questi trecento anni la guerra si è sopita e i due stati non si sono mai affrontati. Malgrado questo, non è mai stato firmato un trattato di pace tra di loro. Orsenna vive uno stato di profonda decadenza politica e sociale. Il tedio è il sentimento dominante nelle classi alte. Aldo, il protagonista che narra in prima persona, giovane appartenente ad una famiglia aristocratica di Orsenna, chiede di avere un incarico per andarsene da questa atmosfera asfissiante. Gli viene dato l’incarico di andare al confine estremo, sulla riva delle Sirti, proprio di fronte al Farghestan, come osservatore. In realtà avrà il compito di “spiare” quanto succede là. In un clima di spasmodica attesa incontrerà, all’Ammiragliato, il capitano Marino, avrà una storia d’amore con la bellissima Vanessa Aldrovandi che si svilupperà tra l’Ammiragliato e Maremma, l’ultima città al confine, avrà un drammatico incontro con Danielo e vivrà  numerose altre vicende che lascio al lettore scoprire.

Il viaggio di Aldo da Orsenna all’Ammiragliato, descritto nel capitolo “Un’assunzione di comando”, è l’inizio di un rito di passaggio. Mano a mano che Aldo si avvicina all’Ammiragliato e alla frontiera i paesaggi cambiano, diventano sempre più desolati e aridi, tutto si fa malinconico, una inquietudine sempre più forte comincia ad insinuarsi nell’animo di Aldo: un’inquietudine senza nome, accompagnata da una forte curiosità e con la consapevolezza che la sua vita sta mutando. Su tutto aleggia un’atmosfera di sfacelo e rovina e il paesaggio assurge a protagonista quasi fosse esso stesso un personaggio. Va detto che il paesaggio è fondamentale  anche in altri libri di Julien Gracq. Ne “La penisola” (Einaudi. 1972) assurgono a protagonisti paesaggi immaginari e bretoni, ma anche interni di case che sembrano dialogare con il narratore e il lettore.

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L’arrivo di Aldo non è ancora il superamento della linea d’ombra di conradiana memoria. Il superamento della linea d’ombra è l’avvicinamento progressivo alla frontiere, ciò che ci sta di fronte, ciò che, malgrado ci stia di fronte, è sconosciuto e, per questo, ci attrae e spaventa allo stesso tempo. Passaggio fondamentale in questo avvicinamento è la gita con la bellissima Vanessa all’isola di Vezzano. Da lì è possibile vedere una montagna che si eleva dall’altra parte delle Sirti e che ci ricorda vagamente il monolite del film di Kubrick “2001. Odissea nello spazio”:

“Una montagna si elevava sul mare, ora distintamente visibile sul fondo scurito del cielo… Ed era là: la sua luce fredda splendeva come una sorgente di silenzio, come una verginità deserta e stellata.

‘E’ il Tangri’ disse Vanessa. Senza volgere il capo. Parlava come per sé sola, e di nuovo dubitai che avesse coscienza della mia presenza”

(pag.157).

La vista del Tangri è la vista di un oltre, di un Altrove che l’orizzonte non nasconde più, è all’avvicinarsi all’altra parte.

Nel cruciale capitolo “Una crociera”  l’attraversamento sarà definitivo. Dopo quella scelta di andare oltre non sarà più possibile tornare indietro. Quando la nave “Il Formidabile (Le Rédoutable nell’originale francese) toccherà l’Altra costa verrà presa a cannonate:

“Mi sembrava che avessimo spinto assieme una di quelle porte che si varcano in sogno” (pag.210).

Leggendo questa pagina si ha come l’impressione che l’orizzonte sia preso d’infilata da “Il Formidabile”, come un coltello che si conficca nell’orizzonte e lo trapassa. Qui si sbriciola l’Altrove immaginario e immaginato, qui si scioglie quell’attesa che era stata descritta come una vita di desolato incanto in cui si aspetta come il cacciatore la preda:

“Il suo desolato incanto era quello stesso che spinge il cacciatore  all’agguato a sopportare tante vane ore di attesa” (pag,36).

Se un’attesa si scioglie, altre ve ne saranno e ci accompagneranno fino alla fine del libro. E, forse, in queste attese possiamo cogliere qualche similitudine con “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati. Anche se, poi, l’evolversi della vicenda avrà tutt’altro approdo.

Orsenna e Maremma. Maremma una città morta dove, però, circolano voci su una possibile ripresa della guerra . Su tutto un clima di disfacimento e rovina per cui il paragone, più che con “Il deserto dei Tartari”,  andrebbe fatto con “Il tramonto dell’Occidente” di Spengler (Guanda.1999) sul quale tornerò più avanti.

Il tempo in cui si svolge la vicenda è un tempo non specificato, lo spazio uno spazio immaginato e immaginario. Tuttavia lo scrittore Philippe Arnaud, in un articolo dal titolo “Le chef d’oeuvre de Julien Gracq à l’epreuve de la géographie” (https://visionscarto.net/rivage-des-syrtes) cerca di individuare i luoghi reali in cui si svolge l’azione. Sostiene:

“C’est par pure fantaisie que nous demanderons où ou pourrait bien se situer cette mystérieuse Seigneurie… ou bien a quelle sources l’auteur, historien et gèographe de formation e de métier, est allé puiser le cadres de son roman”

[È per pura fantasia che ci domandiamo dove si potrebbe collocare questa misteriosa Signoria… o meglio a  quali fonti l’autore, storico di formazione e di professione,  sia andato ad attingere le cornici del suo romanzo].

Arnaud sottolinea, in primo luogo, come i nomi dei personaggi siano tutti italiani. Poi, dopo una lunga disamina, giunge alla conclusione che Orsenna potrebbe ricordare la Repubblica di Venezia, m anche Lubiana, che Maremma potrebbe essere dalle parti di Ravenna, ma anche l’estremo limite dei Balcani. che il viaggio di Aldo è in direzione Sud, che la riva delle Sirti ricorda il Mediterraneo e il mare delle Sirti e che il Farghestan evoca l’Impero Ottomano. Si tratta di un’analisi di grande interesse, ma, come dice lo stesso Arnaud, un’analisi fatta per pura fantasia. Piace pensare che è bello lasciare all’immaginazione del lettore il tempo e i luoghi.

A proposito di tempo: i mezzi con cui Aldo si muove non sono mai descritti in modo analitico. A volte sono macchine, altre vetture, altre cavalli o carrozze. Ciò contribuisce a creare un tempo impreciso che dà spazio, come si diceva più sopra, al nostro immaginario.

La frontiera, l’Altrove, l’Oltre, le spie. L’identità e la differenza, per usare due termini che vanno dalla filosofia di Deleuze a quella di Derrida e che, paradossalmente, Julien Gracq non ha mai apprezzato. L’identità e la differenza sembrano assottigliarsi proprio dopo che Aldo è arrivato all’altra riva. Lo dice chiaramente Vanessa, parlando delle spie:

“… Forse si tratta invece soltanto di conoscitori più esperti e più sagaci di ciò che si chiama l’azione: di persone cui piace andare, magari a loro rischio e pericolo, a guardare dall’altra parte delle cose… sentirsi anche dall’altra parte, provare al tempo stesso il sentimento dell’urto e quello della resistenza”. (pag.256)

Ed allora si potrebbe dire che il diverso, l’Altro, l’Alterità non è il mostro sconosciuto, ma qualcosa che non è ne peggio, né meglio di noi, ma ci assomiglia intimamente. Lo dimostra il Piero Aldrovandi che tradì Orsenna per schierarsi con il Farghestan. Quell’Aldrovandi dietro cui potrebbe celarsi, secondo il parere di Arnaud, Luigi II di Borbone- Condé che, ad un certo punto della sua vita, si mise al servizio degli Spagnoli combattendo contro i Francesi; quell’Aldrovandi che, dipinto in un quadro, pare osservare minaccioso Aldo e Vanessa nella stanza di quest’ultima, in un’atmosfera che ricorda Poe:

“Compresi allora che la ragione dell’imbarazzo che avevo sentito pesare su di me fin dalla mia entrata in quella stanza e, durante tutto il tempo del mio colloquio con Vanessa; c’era una terza persona tra noi… tutta la camera era attirata da quei due grandi occhi aperti che mi erano apparsi sul muro, che ne rovesciavano la prospettiva e la prendevano in carico, come il capitano di una nave.

Conoscevo quel quadro celebre…” (pag. 108).

Vorrei, ora, ritornare sul significato più ampiamente politico e esistenziale del libro. Orsenna è in decadenza, forze politiche si muovono affinché la sua decadenza si compia nella sua interezza, fosse anche il mezzo per arrivarci la ripresa della guerra con il Farghestan. È nel suo destino questo tramonto, che potrebbe essere preludio alla nascita di altre Signorie, altre Repubbliche, altre potenze. Per questo motivo si citava più sopra il libro di Spengler “Il tramonto dell’Occidente” che coglieva gli aspetti epocali di un tramonto e cercava di scrutare quali e cosa avrebbe potuto rappresentare un  nuova aurora. Certo, un libro da prendere con le molle perché le aurore furono il fascismo il nazismo e, per certi versi, lo stalinismo

In questa temperie quale sarà il destino e la destinazione di Aldo? Potrà scegliere il suo destino o saranno altri a scegliere per lui che lo useranno per i loro fini? Quanto ci sarà di propriamente suo nelle scelte che farà, compresa la decisione di attraversare la frontiera? Il suo destino sarà il compiersi necessario di una vita? Lasci al lettore scoprirlo.

Julien_GracqCiò che colpisce, nella cifra stilistica di Gracq è che, ad un periodare sontuoso, con frasi lunghe e complesse che ricordano Proust corrisponda, invece, un incalzare degli eventi; quasi una struttura ossimorica dove il fraseggio non è mai nervoso, ma disteso, mentre gli eventi incalzano lentamente, ma irreversibilmente lasciandoci in uno stato di suspense. Il dialogo finale con Danielo è, poi, di una grandissima intensità: qui si sciolgono nodi politici, etici, metafisici. Non definitivamente. Perché il loro scioglimento pone altri e radicali interrogativi. Per certi versi questo dialogo, pur nella sua assoluta originalità, ricorda quello del narratore con Kurz nel finale di “Cuore di tenebra”. Ed è un capitolo da leggere, rileggere e meditare.

Il linguaggio di “La riva delle Sirti” è ricercato, con un l’ uso voluto , in certi passi, di vocaboli desueti e ben resi dalla splendida traduzione di Mario Bonfantini. Troviamo ad abbellire il testo, e mai ad appesantirlo, una pletora di figure retoriche: la sinestesia, la similitudine reiterata dall’uso del “come”, ossimori sparsi qua e là. Le figure poetiche producono immagini che avrebbero fatto la gioia del critico letterario e psicoanalista Gaston Bachelard. Qualche esempio:

“Il vuoto tedio del tardo pomeriggio affluì nella camera come un odore” (pag.118. Il corsivo, come quelli seguenti, è mio).

O ancora:

“Ricordavo una curiosa battuta che mi aveva detto Orlando in una di quelle sere prostate dalla canicola in cui andavamo in cerca di un po’ d’aria sul cammino di ronda delle mura” (pag. 204).

O ancora parlando di Vanessa:

“… quel pallore scendeva piuttosto su di lei come la grazia di un’ora più solenne, e si sarebbe detto che lo avesse indossato come un abito di circostanza”(pag. 246).

Chi ne avesse la possibilità, chi ne avesse il tempo, chi conoscesse un po’ di francese dovrebbe consultare le edizioni della Pléiade delle opere edite di Julien Gracq (tante altre pagine non sono ancora edite in quanto lo scrittore, prima della morte, espresse la volontà che fossero pubblicate vent’anni dopo la sua morte). Si prova come una sensazione di vertigine, si accarezzano le parole e l’ampio fraseggiare, come se quelle parole ci giungessero al palato. Si prova la sensazione di addentrarsi in un mondo che lascia tra parentesi tutto il resto.

Sullo stile di Gracq ci furono anche polemiche. Ad esempio con il filosofo e critico letterario Maurice Blanchot. In un libro recentemente uscito dal titolo “Gli antimoderni” (Neri Pozza. 2017), l’autore Antoine Compagnon, docente universitario alla Sorbona e alla Columbia University di New York, analizza gli scrittori francesi definiti antimoderni, scrittori che hanno attraversato la modernità per diventare antimoderni e per questo ancora più moderni di coloro che si definiscono moderni tout court. Tra di essi Julien Gracq a cui Compagnon dedica pagine profonde e illuminanti. Nelle pagine di Compagnon si può trovare l’oggetto del contendere Gracq-Blanchot:

“Tra Blanchot e Gracq, la controversia verte da tempo sull’aggettivo, sulla sua presenza o sulla sua assenza, sulla sua legittimità o sulla sua inammissibilità nella poesia moderna. L’aggettivo, che tende ineluttabilmente a fissarsi in clichés, è stato il terreno privilegiato della lotta per l’originalità e le novità moderne” (pag.362).

In realtà la critica di Blanchot all’eccessiva aggettivazione in Gracq non si riferiva tanto a “La riva delle Sirti”, perché era precedente alla sua pubblicazione, quanto al romanzo “Un bel tenebroso” uscito in Francia nel 1945 (Serra e Riva. 1984). Ma la polemica andava oltre l’aggettivazione. Si trattava di una visione della letteratura completamente diversa. Se Blanchot analizzava e sosteneva la letteratura dell’assenza, il Nouveau Roman e analizzava con acume l’evaporazione del soggetto, se Blanchot, con altri critici, analizzavano e sostenevano la grande importanza del silenzio di Rimbaud, Julien Gracq li criticava duramente sostenendo una letteratura tradizionale, “antimoderna”, auspicando una dimensione della pienezza e sostenendo che era inutile interpretare il silenzio di Rimbaud, ma che era importante interpretare la sua poesia, quello che egli ci aveva lasciato scritto. Tutto in coerenza con quanto aveva affermato in “La letteratura senza vergogna”.   

Se usiamo l’immagine della costellazione letteraria e prendiamo come stella principale “La riva delle Sirti”, poi tracciamo dei segmenti vedremo che essi raggiungeranno altre stelle: Musil per una Kakania che assomiglia a Orsenna e a Maremma; Kafka per le atmosfere rarefatte; Buzzati per il clima di spasmodica attesa; lo Junger de “Le scogliere di marmo” da Gracq molto amato; il Puskin de “La figlia del capitano”; Conrad; Proust per la ricerca linguistica e per certe atmosfere; Poe per le inquietanti descrizioni notturne; Carl Schmitt per i rapporti tra la terra e il mare. Si illumineranno a vicenda e dialogheranno tra di loro come solo i grandi libri sanno fare. Perché “La riva delle Sirti” è un capolavoro e, in quanto tale, opera inesauribile che non può essere semplicemente essere messa ad impolverarsi nello scaffale si una libreria dopo averla letta.

Lo Scaffale di Andrea: La riva delle Sirti
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