Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

L’importanza di non dimenticare…
Una libreria tra progetto e memoria e esordi.

Presentazione Hacca
Sabato 20 Gennaio abbiamo dedicato tutto il pomeriggio a partire dalle ore 17 ad una casa editrice giovane, tenace e di progetto come Hacca Edizioni. Sono state a trovarci in Libreria le marchigiane, infaticabili anime della casa editrice, Francesca Chiappa e Silvia Sorana e insieme a loro i due scrittori lucani Giuseppe Lupo e Mimmo Sammartino. Giuseppe Lupo era stato già nostro ospite l’autunno scorso, per la presentazione del suo ultimo libro, edito da Marsilio, “Gli anni del nostro incanto” (Qui la recensione a cura di Giuditta Casale).
Sammartino LupoPer la Narrativa italiana lo scrittore Mimmo Sammartino ha presentato i due libri pubblicati recentemente da Hacca “Il paese dei segreti addii” e la riedizione di “Vito ballava con le streghe”(di questi due libri abbiamo abbondandemente parlato in questo spazio a più riprese, perché sono libri di una bellezza straordinaria che ci sono piaciuti tanto). Con Mimmo Sammartino e Giuditta, tra le altre cose, avevamo fatto intorno a questi due libri una presentazione storica in quel di Teggiano, Salerno, la scorsa estate. Fili che si intrecciano e si interconnettono e che, intersecandosi, fanno la forza dell’editoria di progetto e di qualità.
Con freschezza e brio Francesca Chiappa ha ricordato come è nata Hacca Edizioni nel 2006, le difficoltà costanti ma pure il suo crescere e svilupparsi in diverse direzioni: nella narrativa italiana e straniera concentrando la sua attenzione sugli attuali e potenziali immaginari che rispondono alla complessità del nostro esistere contemporaneo.
Con grandi doti affabulatorie, è stata la volta, poi, dello scrittore Giuseppe Lupo, che con una narrazione magnetica ha raccontato in maniera avvincente una parte del nostro Novecento letterario. Da Sinisgalli a Vassalli, passando per Anna Banti e Gianna Manzini e Franco Loi fino ai “I terroni in città” di Francesco Compagna.
Giuseppe Lupo insegna letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Ha esordito nella narrativa con il romanzo “L’americano di Celenne” (Marsilio 2000), con cui nel 2001 ha vinto il Premio Giuseppe Berto e il Premio Mondello opera prima, e nel 2002, in Francia, il Prix du premier roman. Successivamente ha pubblicato i romanzi “Ballo ad Agropinto” (Marsilio, 2004), “La carovana Zanardelli” (Marsilio 2008; Premio Grinzane Cavour-Fondazione Carical e Premio Carlo Levi), “L’ultima sposa di Palmira” (Marsilio 2011; Premio Selezione Campiello e Premio Vittorini), “Viaggiatori di nuvole” (Marsilio 2013; Premio Giuseppe Dessì), “L’albero di stanze” (Marsilio 2015; Premio Alassio Centolibri-Un autore per l’Europa; Premio Frontino-Montefeltro; Premio Palmi). Collabora alle pagine culturali dei quotidiani “Il Sole 24 Ore” e “Avvenire”, è consulente presso alcuni editori, e dirige la collana Novecento.0 presso Hacca Editore.

Giuseppe Lupo ha spiegato con passione che Il Novecento è un secolo che è sconfinato nel nuovo millennio senza esaurire la sua forza propulsiva. Cose nuove accadono sempre, ma il Novecento non ha ancora esaurito la sua carica dirompente. Raccontare il Novecento ma anche la Contemporaneità, non per le cose che accadono, ma per quelle che vorremmo accadessero. Questa dovrebbe essere la forza della letteratura.
Con la collana, Novecento.0, si è voluto accogliere proprio quelle opere che hanno difficoltà a essere ripubblicate dai grandi marchi. La grande sfida per una piccola casa di progetto è riportare in libreria autori che possono essere presi in mano davvero come delle novità. Il Novecento, del resto, non ha ancora esaurito la sua carica dirompente e ci sono autori e autrici che meritano ancora dell’altro tempo per essere letti, e dei nuovi lettori tra i giovani. In questa magnifica collana, Giuseppe Lupo ha riportato alla luce opere del secolo scorso altrimenti perdute, ha fatto stampare e ristampare quello che del novecento è ancora stampabile, per poter guardare con prudenza e con attenzione al nuovo, a questo problematico primo decennio della letteratura italiana. L’editoria di qualità, del resto, deve saper aspettare e guardare sia al Novecento che all’oggi. Convinti che il “nuovo” sia raro, e che il romanzo “assolutamente moderno” non vada rincorso con i metodi febbrili dell’attuale sistema mediatico “usa e getta”. L’editoria di qualità e di progetto deve saper aspettare: proprio come fa Hacca Edizioni. La fretta è cattiva consigliera. Bisogna invece saper aspettare, pubblicare poche cose, ma con cura e attenzione, senza mettersi in competizione con le grandi case editrici. Fare del buon artigianato intorno ad un libro ed essere bifronti, cioè guardare sia al Novecento che all’oggi, scoprendo nuove voci di qualità. È stato piacevolissimo vedere in un colpo solo librai, editori, autori e lettori parlare con entusiasmo di libri e anche autori e progetti futuri. Fare una festa intorno ai libri ci pare un bel modo per non soccombere di fronte al trauma della moltiplicazione incontrollata delle pubblicazioni inutili. Perché se tutto è letteratura, va da sé che più nulla lo è.
Il curatore della Collana Novecento.0 ha presentato questa volta in anteprima, essendo uscito l’11 di Gennaio, il libro di Franco Fortini, “Capoversi su Kafka”. Ci ha raccontato dell’idea del Labirinto in copertina ad opera di Maurizio Ceccato e di come è partita l’idea di creare un libro su Kafka da queste intuizioni di Franco Fortini.
“Kafka è morto nel 1924. Potrebb’esser morto l’anno passato, a Auschwitz, a Belsen, questo ebreo di Praga. Egli ha saputo quello che noi abbiamo soltanto vissuto: delle città che crollano sotto i «colpi successivi di un pugno gigante», degli uomini degradati fino ad esser gettati via nelle spazzature, delle macchine per le torture, delle condanne senz’appello, eseguite di nottetempo. Ma questa sua visione, non aveva avuto bisogno di nessuna riprova esterna. Kafka ha descritto per sempre, viaggiando entro le proprie solitudini, una atroce provincia umana. Per questo la sua opera domina questi anni. Per questo vi sono dei critici che vedono in lui il più grande avvenimento spirituale dell’ultimo trentennio. Una definizione (superficiale) sarebbe facile; è facile avvicinarlo all’irrazionalismo europeo, che muove da Bergson fino alle ultime filosofie dell’angoscia e dell’esistenza. Ma c’è in Kafka sempre qualche cosa di più, di irriducibile, che consiste nella identità che egli ha saputo stabilire fra il proprio destino e quello delle sue creature, fra il fatto e il simbolo. Così il suo mondo, che apparentemente sembra filare nella logica delle sue assurde premesse, è in realtà un vertiginoso giuoco di specchi. In esso risuonano le sue parole-chiave: la Paura, l’Angoscia, il Rischio, l’Attesa, la Frustrazione, la Colpa; in esso si instaurano i suoi terribili miti: la costruzione del rifugio (nella novella omonima) e quella delle muraglie babiloniche; la degradazione corporea, la Legge, il Tribunale, la Condanna.
Conoscevamo Il processo, questo terribile libro di una condanna senz’appello, La colonia penale, la Tana, la Metamorfosi e i racconti della Muraglia cinese e, prima ancora del Castello, (che è forse la sua opera più potente), ci giunge questo luminoso mistero che è America, tradotto da Alberto Spaini, uscito da Einaudi.». […]
Posticipare di vent’anni la sua morte (nient’altro che un’ipotesi suggestiva, una chiave di lettura a posteriori) è dunque un espediente attraverso cui Fortini intende fissare una propria categoria interpretativa, l’unica a suo giudizio in grado di dare credibilità all’idea di un Kafka che travalica le porte del tempo per farsi “angelo della Storia”, secondo la definizione di Walter Benjamin, per avvalorare in altre parole l’immagine di un Kafka trattato alla maniera di un profeta o di un legislatore i cui passi provengono dal passato e si rivolgono all’infinito. «Egli ha saputo quello che noi abbiamo soltanto vissuto»: è sempre Fortini che scrive così. Sapere è qualcosa che precede l’azione del vivere, è la lucida epifania di chi ha già visto l’apocalisse e la vuole raccontare a un’umanità incredula.”

Tra i tanti libri riscoperti in questa magnifica collana che è Novecento.0 c’è quello di Pasquale Festa CampanileLa felicità è una cosa magnifica“.

festa-campanile-1Che Pasquale Festa Campanile fosse uno scrittore anomalo rispetto al proprio tempo ce lo suggeriscono i quattro racconti pubblicati sulla «Fiera Letteraria» tra il 1948 e il 1951 e mai più ripresi. Ha da poco compiuto vent’anni, si sta affacciando a una vocazione letteraria, però non risente delle discussioni che gravano sull’Italia degli anni Quaranta e Cinquanta e che obbligano gli autori a scelte ideologiche: l’impegno, la militanza, lo schierarsi politicamente. Festa Campanile dirà la sua con il romanzo d’esordio, “La nonna Sabella”, uscito nello stesso 1957 in cui vede la luce anche “Il Gattopardo”, parallelo nella scelta dell’argomento (la difficile transizione del Mezzogiorno dai Borboni allo Stato unitario), ma paradossalmente agli antipodi nella concezione della Storia: non la sfiducia che esprime il Principe di Salina, ma il conflitto tra una borghesia garibaldina-socialista e una borghesia più tradizionalmente agraria e cattolica, con le prime fiammate a favore dei briganti. Qualcosa delle atmosfere di quel libro è già presente in uno di questi racconti: “La nonna Giulia”, probabilmente il più autobiografico dei quattro, da considerarsi a motivo ispiratore del romanzo non soltanto in ragione del titolo. Il giovane che scrive questi racconti ha il cuore nella memoria dell’infanzia e la testa dentro la cronaca del secondo dopoguerra: soldati, reduci, caserme. Soprattutto ha capito che la vita va guardata di lato, mai di fronte. Uno sguardo obliquo, trasversale sul tempo e sugli uomini, che l’autore manterrà sempre.

lestate-muore-giovane-d536Tra gli esordi di questa settimana segnaliamo un’altra casa editrice di progetto, come Nottetempo, che inaugura il 2018 con il libro del foggiano Mirko Sabatino, classe 1978. S’intitola “L’estate muore giovane” e da Giovedì 18 gennaio ha portato in libreria la storia di un’estate, di un’amicizia, di un patto sanguinario.
Estate del 1963. I Beatles hanno da poco registrato il loro primo disco, Martin Luther King annuncia il suo sogno all’America e in un paesino del Gargano tre ragazzini, Primo, Damiano e Mimmo, trascorrono le lunghe e afose giornate tra la piazza, i vicoli e il loro rifugio segreto sulla scogliera. Amici per la pelle come si può essere solo a dodici anni, condividono tempo e segreti.
Un giorno, un gruppo di teppistelli si accanisce su Mimmo e i ragazzini decidono di suggellare un patto di alleanza: quando uno di loro o della loro famiglia sarà vittima di un sopruso, i tre risponderanno con una vendetta proporzionale all’affronto. Ma gli eventi di quell’estate sonnolenta sterzeranno verso traiettorie brutali e inaspettate, e il patto verrà rispettato in modo sempre piú drammatico e disperato.

In un crescendo febbrile, il romanzo ci conduce in un viaggio dentro alla provincia, con i suoi orrori annidati nelle pieghe di un’apparente stabilità, inarrestabili come la fine della giovinezza che attende i protagonisti.

SosciaAltro libro nuovo di questo Gennaio 2018, per Minimum Fax, è quello del pisano Danilo Soscia, classe 1979. Danilo Soscia ha pubblicato già la raccolta di racconti “Condomino” (Manni, 2008). Studioso di letteratura e di Asia Orientale ha curato il volume “In Cina” (Ets, 2010) e realizzato lo studio “Forma Sinarum. Personaggi cinesi nella letteratura italiana” (Mimesis, 2016). Il libro era stato presentato a Pistoia in anteprima con Luca Briasco alla Rassegna L’Anno che verrà, il titolo del libro è “Atlante delle meraviglie”, «Sessanta racconti che creano un catalogo fantastico delle passioni e delle avventure umane».

C’era una volta la Wunderkammer, la camera dei prodigi, collezione di oggetti rari e squisiti, meraviglie della tecnica, orrori sublimi della natura e della storia.
Nel solco di questa bizzarra tradizione Danilo Soscia ha raccolto sessanta parabole esemplari, memorie infedeli, miti e fantasmi, inventando una sulfurea e personalissima Spoon River e narrando con uno stile potente e originale le inquietudini e le ossessioni che da sempre attanagliano il cuore e la mente degli uomini. L’Atlante è dunque molti libri insieme: può essere letto dall’inizio alla fine come un catalogo fantastico delle passione e delle avventure umane, oppure può essere percorso seguendo a piacere la fitta trama di temi e luoghi che lo sottende.
Di racconto in racconto, incontriamo uomini non illustri accanto ad Arthur Rimbaud, Gesù, Mao, Antigone, San Francesco, Jurij Gagarin e Friedrich Nietzsche, e ogni personaggio, oscuro o eminente, ci chiede di partecipare al destino e ci trae con forza irresistibile dentro il suo mondo. La Berlino di Bertolt Brecht e quella del panda Bao Bao si collegano alla Parigi di Walter Benjamin, e il viaggio della nave di Odisseo all’isola di Circe prosegue nell’avventura di una cagnetta selvatica, in orbita intorno alla Terra a bordo di un’angusta navicella spaziale.

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Lunedì 22 Gennaio in Libreria, in occasione della Giornata della Memoria, abbiamo fortemente voluto presentare un importante e originale romanzo sulla postmemoria della Shoah, sulla memoria nel passaggio cruciale della scomparsa dei testimoni diretti, ambientato nel 2030 nella città di Roma: “Il museo delle penultime cose”, di Massimiliano Boni, edito da 66thand2nd. A dialogare con l’autore Andrea Cabassi.
L’importanza di non dimenticare. Diventa doveroso ricordare e far conoscere certe pagine di storia alle generazioni future affinché non si compiano mai orrori. Primo Levi scriveva “Quelli che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo…” e “Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Proprio queste due frasi sottolineano l’importanza di non dimenticare certi eventi in cui l’uomo è stato attaccato dalle mani di altri simili. Se per i più anziani il giorno della memoria è solo un modo per riportare alla mente fatti realmente accaduti di cui sono stati testimoni diretti o indiretti, per le generazioni successive è doveroso conoscere la storia per evitare di cadere in meccanismi simili. Studiare il passato significa imparare per evitare di commettere gli stessi errori soprattutto in una società come quella attuale, in cui disagio sociale e crisi economica stanno generando frustrazione e rabbia e si rischia di far ricadere l’odio su un capro espiatorio.
In occasione del 27 gennaio abbiamo pensato che dedicare una riflessione e un piccolo dibattito sul tema della Shoa e dell’Olocausto, attraverso il bellissimo libro di Massimiliano Boni, fosse qualcosa di doveroso e importante per una libreria che ha scelto di dare importanza alla Memoria nel tempo in cui l’odio razziale si sta diffondendo a macchia d’olio. Ed è quello che ha fatto Massimiliano Boni, parlandoci con autorevolezza di ebreo consapevole e con grande chiarezza della Shoa e della nostra Storia recente, senza troppa retorica e con una grande tensione etica. Si è parlato per un paio di ore della più terribile strage compiuta nella storia da uomini verso altri uomini, ma si è anche detto,concretamente, che affinché non venga perduto nelle nebbie della storia è necessario non solo ricordare e testimoniare questo genocidio, ma interrogarsi e operare nella vita di ognuno di noi scelte di impegno e prese di posizioni precise per costruire la memoria del futuro. Del futuro che ci attende. Si è partiti dalla recente nomina a senatore a vita di Liliana Segre e si è arrivati a su come conservare la memoria e perché farlo e cosa può realmente fare un libro.
Nel libro accade che in un futuro non troppo lontano, tutti i sopravvissuti alle deportazioni nazifasciste sono ormai scomparsi e l’Italia è scossa da un rigurgito antisemita. In un clima ostile, Pacifico Lattes, giovane studioso del museo della Shoah di Roma, prepara un’importante mostra sugli ultimi superstiti ai campi di concentramento. Il suo minuzioso lavoro di archiviazione e conservazione però, svolto per anni dietro a una scrivania, sembra improvvisamente crollare di fronte alla notizia della possibile esistenza di un sopravvissuto ancora in vita: tra le mura di una casa di riposo di Tor Sapienza, infatti, vive Attilio Amati, novantottenne aspro e taciturno custode di un segreto all’apparenza inconcepibile. Dall’incontro tra Attilio e Pacifico, dapprima scettico nei confronti di un vecchio il cui nome non compare sulle liste dei deportati, inizia una ricerca difficile e ostinata, un confronto serrato che porterà entrambi a riconoscersi nella dolorosa esperienza dell’altro. Un gioco inestricabile di scambi e silenzi che nasconde una drammatica «scelta di Sophie», un terribile segreto legato alla travagliata esperienza del lager.

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«Il museo delle penultime cose è un bellissimo romanzo che affronta in modo originale e convincente il tema della memoria e della Shoa».

Alessandro Zaccuri,su Avvenire così ha scritto del bel libro di Massimiliano Boni.

Massimiliano Boni per la casa editrice 66thand2nd aveva già pubblicato precedentemente il libro “Solo per un giorno”. Giurista con il pallino della scrittura oltre che brillante studente del Collegio Rabbinico italiano ha corso ben due maratone nella sua città, Roma. Qui si è cimentato in un romanzo che è anche un diario e un manuale attraverso cui l’autore racconta se stesso.
Massimiliano Boni non è un eroe, se non per un giorno in un anno. Questa è la storia degli altri trecentosessantaquattro. In quel tempo fa due cose: corre e scrive. Poi, certo: lavora, legge, si occupa della famiglia, ricorda, rimpiange, sogna. Ma queste altre cose accadono di lato: al centro, corre e scrive. Si prepara alla maratona e tiene un diario. Non è spavaldo, in nessuna delle due sfide. Sa di non essere più un principiante, ma non ancora un campione. Abbassa la testa, cerca di imparare dai grandi e da chi gli viaggia a fianco. Lo accompagnano, tra gli altri, un amico straniero, la nonna «Baccajella», Murakami Haruki, Cormac McCarthy, la memoria di uno sciatore chiamato Roberto Grigis e la fantasia di un nuovo figlio in arrivo. È uno di noi, uno di voi, una delle migliaia di figure smilze e colorate che vediamo ansimare mentre le superiamo motorizzati, domandandoci: «Chi glielo fa fare?». Porta questo interrogativo a un livello più profondo. Scava dentro le proprie tracce per trovare il solco di un impegno che comprende molto più dell’allenamento per una gara. Ne fa una questione di fede: nelle proprie possibilità, nella legge umana e, infine, in quella divina. Il suo linguaggio si scioglie avanzando verso il traguardo dove la vita è in agguato, come sempre comica e tragica, pronta a dare in modo inatteso e a togliere quel che ci si aspettava. In entrambe le sue sfide Boni è un outsider, ma arriva in fondo. La fatica avvera i desideri.

A PROPOSITO DI MEMORIA E DEL NOSTRO INCONTRO IN LIBRERIA… LO SCRITTORE Massimiliamo Boni ha scritto…

Ricordare il Giorno della Memoria?

«il rapporto fra gli italiani e il proprio passato fascista e razzista continua ad essere un cantiere in buona parte chiuso»
(V. Roghi)

Nel suo discorso di accettazione del premio Nobel, Kazuo Ishiguro ricorda un episodio accaduto nel 1999, quando venne invitato ad Auschwitz. Davanti le rovine delle camere a gas lasciate dai nazisti in fuga, «così vicino, almeno geograficamente, al cuore di quella forza oscura alla cui ombra la mia generazione era cresciuta», lo scrittore ascolta il dilemma dei suoi ospiti: conservare quelle rovine, per consentire alle generazioni future di continuare a osservarle; oppure lasciarle andare alla progressiva distruzione, sotto l’effetto della natura e del tempo?
Questa, riflette Ishiguro, è diventata la metafora di una questione più generale. Come e quali memorie dovremmo preservare per chi verrà dopo di noi? Cosa è meglio ricordare, e come? E cosa invece dimenticare?
Quando ho cominciato a scrivere la storia che sarebbe poi diventata «Il museo delle penultime cose», ero mosso da un desiderio: provare a immaginare il futuro prossimo, ormai sempre più vicino, in cui non ci saranno più testimoni della Shoah. Credo che sia un tema che riguarda tutti, e non solo con riferimento alla questione specifica di come continuare a descrivere i fatti relativi ai lager, alle deportazioni, ai milioni di morti (ebrei, soprattutto; ma anche rom, dissidenti politici, omosessuali, disabili e altri ancora).
Il punto, più in generale, è come conservare la memoria della storia del nostro paese affinché, come viene ripetuto ogni anno un po’ da tutti in occasione del 27 gennaio, il male sperimentato non si ripeta. Mi sembra, infatti, che il Giorno della memoria rischi di imbolsire, per la cronica ritrosia che abbiamo a ricordare, trasformandosi malgrado i tanti sforzi in una sorta di feticcio (auto)celebrativo, in cui l’aspetto burocratico, o comunque istituzionale, prende ogni anno sempre più piede, e la questione della Shoah italiana – delle sue cause, le responsabilità dei suoi autori, la tutela delle vittime e della loro memoria – viceversa, fa un passo indietro, diluendosi in una rappresentazione dei media che è stata efficacemente definita «pop-Shoah».
Molti episodi ormai testimoniano drammaticamente questa tendenza a negare o manipolare il passato e a sostituirlo con una nuova narrazione, con la conseguenza che sia il fascismo che il razzismo tornano oggi a essere ipotesi praticabili.
Naturalmente, non penso che la letteratura sia, da sola, l’antidoto a questo veleno. Eppure credo che, come ci ammonisce l’ultimo premio Nobel, chi scrive si assuma sempre la responsabilità di scegliere, cosa ricordare e cosa non far dimenticare. Molte delle prove degli ultimi anni (per un elenco incompleto: Falco, Wlodek Goldkorn, Helena Janeczek, Demetrio Paolin, Filippo Tuena; David Bidussa, Raffaella Di Castro, Donatella Di Cesare, Simon Levis Sullam, Gadi Luzzatto Voghera, Anna Momigliano, Ilaria Pavan, Liliana Picciotto, Michele Sarfatti, Claudio Vercelli) hanno favorito, con strumenti, linguaggi e prospettive diversi, la costruzione di una coscienza e il recupero dei fatti; alcune di esse per me sono state molto importanti, non solo come autore. Anche se la letteratura è per sua natura così apparentemente debole e sottile, credo anche che spesso possa servire, nelle sue varie forme, a formulare domande, a suscitare emozioni, e, forse, a osservare con occhi più attenti la realtà in cui siamo immersi.
Insomma, credo che la domanda di Ishiguro continui a interrogare ogni scrittore:
cosa e come dobbiamo ricordare della nostra memoria?

Nello Zaino di Antonello: L’importanza di non dimenticare