di Chiara Mezzalama

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Women house

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Attraverso la Senna all’altezza del Pont Neuf. Il fiume è in piena e la punta dell’Isola della Cité, lo square du Vert-Galant è quasi sommerso dalle acque limacciose. Sono diretta al Palais de la Monnaie de Paris dove un tempo si batteva la moneta; alcune sale sono diventate uno spazio museale, con tanto di ristorante e un caffè accogliente. Passando davanti a un’edicola, il mio sguardo cade sulla copertina di una rivista di filosofia il cui titolo è: «Peut-on désirer sans dominer?», si può desiderare senza dominare? È di alcuni giorni fa il manifesto di alcune donne apparso su Le Monde a difesa del diritto dell’uomo di «provarci» anche con insistenza e tutto il vortice di polemiche che ha comportato. Rifletto da mesi sull’argomento la cui complessità non si esaurisce in manifesti e slogan, sebbene #MeToo rappresenti efficacemente la rivoluzione in corso.

IMG_7499La mostra Women house che sto andando a visitare indaga per l’appunto il rapporto tra il genere femminile e lo spazio domestico. L’architettura e lo spazio pubblico sono stati sempre dominati dal maschile mentre lo spazio domestico era appannaggio delle donne. La casa è un rifugio, una prigione, un luogo di dominazione del corpo femminile attraverso la sua segregazione o può diventare uno spazio creativo? Molte artiste si sono interrogate negli anni sugli stereotipi della «casalinghitudine» (il prezioso libro di Clara Sereni, uscito nel 1987 rimane, per me, un riferimento fondamentale sul tema). La mostra indaga, attraverso otto capitoli, questo rapporto controverso tra la donna e la casa, partendo da un omaggio all’esposizione Womanhouse organizzata da Miriam Schapiro e Judy Chicago a Los Angeles nel 1972 in una vecchia casa di Hollywood. Gli anni settanta sono un punto di svolta nella storia dell’emancipazione femminile attraverso la conquista di alcuni diritti fondamentali e le artiste dell’epoca furono portavoce di un movimento di attacco violento al sistema patriarcale.

Fotografie, oggetti trasformati, quadri, video-installazioni mischiano umorismo e tragedia come le foto di Cindy Sherman o di Helena Almeida, i quadri di Birgit Jürgenssen e la sua fotografia manifesto «Ich möchte hier raus!» – voglio uscire da qui! – denunciano con forza i limiti dello spazio concesso alle donne nella società. È un grido di rivolta; resta da trovare il coraggio e la forza di abbattere i muri della diseguaglianza come nel video del 1990 di Monica Bonvicini: un grosso martello picchia contro un muro, mettendo a nudo la sottostante struttura di mattoni. Il crollo è ancora lontano.

Non poteva mancare naturalmente il riferimento a Virginia Woolf, perché se le mura domestiche sono spesso sinonimo di violenza e repressione, Una stanza tutta per sé (1929) è la condizione necessaria per esprimere la propria creatività, diventando fonte di ispirazione e di reinvenzione di sé. Lo spazio diventa allora una continuità del corpo dell’artista come nelle foto commoventi di Francesca Woodman, fino ad arrivare allo spazio esterno: quello dell’architettura.

IMG_7479Al secondo piano del palazzo della Monnaie le finestre affacciano sul fiume, ed è già uno spettacolo in sé. Luoghi dimenticati, come i muri delle vecchie case di Teheran dell’artista contemporanea Nazgol Ansarinia, luoghi sognati come La triplice tenda di Carla Accardi – stupenda – o Ambiente/ Sala de Jantar della portoghese Ana Vieira, o ancora case mobili per viaggiare lungo le strade del mondo, tende nomadi, Iurte, per finire con il concetto della donna-casa: le Nana-maisons di Niki de Saint Phalle e il celeberrimo Ragno di Louise Bourgeois sotto le cui zampe fa sempre una certa impressione passare.

La prima donna a diplomarsi in architettura è stata Signe Hornborg all’Università di Helsinki nel 1890, la prima donna a vincere il prestigioso premio Pritzker in architettura  è stata Zaha Hadid, nel 2004, più di cento anno dopo… all’uscita compro un segnalibro con su scritto: «Il femminismo sarà superato quando il maschilismo sarà trapassato».

Paris, 12 gennaio ’18

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