di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Breve Diario di frontiera, Gazmend Kapllani, Del Vecchio

"Arte relazionale per migranti. Un'opera di Fare Ala. Ph Mariangela Insana"
“Arte relazionale per migranti. Un’opera di Fare Ala. Ph Mariangela Insana”

Da Saranda, la sera, si vedevano le luci del mondo oltre i confini. Quelle che illuminavano gli occhi di un gruppo di ragazzini albanesi che sotto il regime totalitarista sognavano quell’altrove imprecisato e lontano. Si racconta bambino, Gazmend Kapllani, mentre cerca di essere anche uomo nel capire cosa non dover dire ai segretari di Partito che fanno continue domande a scuola per scovare i traditori della patria, e si racconta giovane uomo, mentre nel 1991 affronta la fuga a piedi dal Paese. Racconta storie di chi viene ucciso per l’ingenuità di cercare di oltrepassare la frontiera immaginando i militari meno vigili a Capodanno, o della prima ragazza che a 17 anni sceglie di fuggire alle violenze domestiche e, cullando il sogno di fare l’attrice, parte con un gruppo di soli uomini per capire troppo tardi che a cambiare sarebbe stato solo lo sfondo del proprio dolore.

Racconta il sentimento di una malattia per la quale non c’è cura, la sindrome delle frontiere, che è destinata a rimanere latente in ogni migrante. Racconta la migrazione dai paesi dell’ex socialismo alla fine degli anni Novanta travalicando i confini sociopolitici dell’Albania, perché quell’inattualità storica è solo apparente se si legge il diario minimo di Kapllani calandosi nella dimensione di chi affronta una scelta e le sue conseguenze, allora per lasciare l’Albania, oggi il Nord Africa e il Medioriente.

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Breve diario di frontiera” è anzitutto un documento politico fondamentale nel raccontare il significato dei confini, che si nutre della testimonianza del suo autore per raccontare la storia di un Paese. I confini sono quelli geografici, capaci di dividere due mondi, ma sono anche quelli invisibili che circondano un migrante in ogni sua pulsione emotiva, desiderio o ambizione.

Gazmend Kapllani racconta gli effetti interiori e collettivi di una partenza necessaria, scegliendo una struttura narrativa che alterna la forma diario alle definizioni della condizione del profugo. Rincorre i ricordi dell’infanzia sotto un regime totalitario con aneddoti emblematici che raccontano la voglia di fantasticare sul mondo oltre i confini, come la doppia antenna in casa, una ufficiale per i canali del Partito, l’altra clandestina per captare i canali italiani. Riflette su ciò che significa essere migrante nella frattura inevitabile con la propria terra, nell’impossibilità di vedere riconosciuto il privilegio di volere, per sottostare al dominio del dovere, vedendo nel giuramento di farcela l’unica vera patria. Nei tentativi di provare a perdere la propria identità per non sottostare al peso dell’umiliazione continua nel sentirsi uno straniero non invitato, che parla un greco stentato, che si illude all’inizio di essere più simile agli altri imparando la lingua per poi comprendere che le parole che finalmente capirà lo renderanno ancor più consapevole della propria diversità. Vorrebbe allora bruciare quell’identità, come i documenti dei migranti irregolari dal Marocco che diventano degli apolidi, sentendo che, nel cancellare il paese d’origine per costruirne uno proprio nello status del profugo, neanche la morte potrà più fare paura.

Morte che in un centro profughi può assumere le sembianze grottesche del riso, nel sottendere ai tentativi di esorcizzare le paure. Riso e morte ancora insieme, una costante nell’immagine letteraria che, anche ne “Lo straniero” di Albert Camus, trova nella risata una delle rappresentazioni più eclatanti della morte nell’indifferenza del protagonista e nell’assurdità del vivere. L’impressione di vivere nella realtà claustrofobica di un regime totalitario che mira solo a perpetuarsi, in un clima fatto di sospetti e di ipocrisia nella retorica, è ben descritta anche da Antonio Caiazza ne “La notte dei vinti“, Nutrimenti, che attraverso la storia di un uomo solo, alla deriva, racconta una parte significativa della storia dell’Albania dai tempi di Enver Hoxha agli effetti del post comunismo.

Gazmend Kapplani, ph: Linda Vukaj.
Gazmend Kapllani, ph: Linda Vukaj.

Kapllani porta il lettore a guardare al di là della questione albanese per soffermarsi sul peso del dovere, anche nell’essere felici, quello che a scuola i suoi maestri gli insegnavano dipingendo un mondo irreale, il paradiso rappresentato dalla patria, in contrasto con l’inferno di tutto il resto del mondo oltre i confini. Un peso che ora diventa quello di rinascere con una nuova pelle in un altro luogo, in quell’altrove che si rende dolorosamente reale.

Cosa rappresenta ciò che si cela al di là delle frontiere nell’immaginario di un bambino che subisce il peso di un regime totalitario? Spiagge meravigliose, piscine, tv a colori, ragazze disinibite, il male assoluto secondo quanto insegnato a scuola, da cui però c’è chi cerca di emanciparsi. Si può sviluppare, per reazione, una personale forma di esterofilia resa anche nel feticcio di esporre in casa i resti riportati dal mare di quel mondo oltre i confini, tra bottiglioni di vetro e lattine di Coca-cola. Perché quei resti raccontano un altrove che diventa fantastico, irreale, meta sconosciuta e per questo ambita. Allora le frontiere possono assumere dimensioni fantastiche nell’immaginario di un giovane uomo che vuole varcarle, diventano il peso costante di una frattura perenne con sé stesso, non tanto nell’unica via possibile, negli annosi tentativi di raggiungere la Grecia a piedi subendo violenze, ma nella presa di coscienza del fatto che il dolore che da ragazzi ci si illude di poter annullare compiendo il passo, si rivela un peso che accompagnerà il resto dei propri giorni.

Un peso che un figlio nato nel nuovo mondo non potrà mai comprendere, perché è altro da sé, non conosce il dolore del distacco e la necessità di mostrarsi appartenente a quella nuova realtà per sopravvivere. Chi si sente dalla nascita pienamente parte di quel tutto, non solo non potrà mai comprendere questa sindrome da frontiere, ma non sentirà nemmeno di voler andare altrove o di dover scappare da qualcuno, semplicemente perché il suo posto è quello, il suo posto è lui.

Un figlio non conosce il peso di ricordi che diventano colpe, quelle dei migranti che ricordano a chi li ospita come erano loro una volta, mentre “avevano appena cominciato a seppellire i ricordi nelle sentine dell’oblio: il dolore e l’umiliazione della partenza, l’afrore dei corpi e il lezzo di aglio, la paura della fame e della miseria, le offese, il Dreckiger Auslander in Germania, il Sale Race in Francia, il Dirty Greeks in America, il Svartskallar in Svezia”. L’unica grande differenza, in fondo, risiede solo nella lingua, perché i temi forti del pregiudizio di cui parla Kapplani sono gli stessi che ben racconta Ignazio Silone nei suoi romanzi e quelli che risuonano nel “Viaggio nel sud“, di Sergio Zavoli del 1982.

Forse per riuscire a sopravvivere occorre provare ad attuare un estraniamento da sé stessi, quello che si consuma nelle “Terre di andata” di Carmine Abate per raccontare il sentimento della migrazione nel duro confronto con ciò che è altro da sé, la percezione del sentirsi straniero agli occhi degli altri e nella convinzione di volerlo essere nel cercare di erigere difese contraddittorie. Kapplani, come Abate, attraverso percorsi di migrazione temporali e spaziali diversi, riflette sulla stessa radice comune, la consapevolezza della propria provvisorietà che si nutre del desiderio di un radicamento che diventa una ricerca inesausta davanti alla percezione di vivere ogni volta una nuova partenza, anche solo ideale.

In questo impeto di sopravvivenza occorre prendere posizione rispetto ai propri ricordi, quando l’atto di provare a trattenerli racconta la reazione allo sconvolgimento per la paura e quello di compiere una rilettura del presente è l’idealizzazione del passato. E se quel processo di rimozione fallisce, la memoria incombe feroce e quei ricordi riappaiono vividi “riempiendo l’anima di grida che sovrastano le parole, di parole che fanno balbettare, di fantasmi e di ombre che popolano gli incubi di notte e le nevrosi di giorno”.

Attraverso una narrazione potente, dolorosa e tenera al tempo stesso, Kapplani racconta la potenza dirompente della realtà nel mostrarsi all’improvviso nella sua ferocia per mezzo del piccolo schermo che, spogliandosi da quel fascino ammaliatore che rivestiva nell’immaginario dei bambini che sognavano il mondo oltre i confini, appare ora come un’immagine spettrale. Quella che sembrava una finestra sul mondo per sognare la libertà, la propria evasione, immaginando benessere nell’uguaglianza, proietta improvvisamente il ritratto grottesco del reale. In quello scontro con la realtà, fatto di arresti immotivati in una libreria, di corpi ammassati gli uni sugli altri, di richieste disperate di pane, di lettere idealmente scritte alle Nazioni Unite e mai spedite perché non si conosceva l’indirizzo e non c’era un foglio di carta nel centro, anche una canzone d’amore può diventare una marcia militare se a intonarla è gente affamata, che leva così al cielo il proprio grido di dolore, perdendosi nelle strofe di “Rondine di primavera”.

Il senso profondo di una lettura necessaria come “Breve diario di frontiera” risiede nel portare chi legge a confrontarsi con il peso della memoria, con le responsabilità del dramma umanitario in atto, reso anche nella profonda attualità di pagine dove la questione albanese diventa quasi un pretesto per riflettere su quanto accade oggi rinnovando la stessa indifferenza di ventisei anni fa. Per poter parlare di migranti occorre conoscerne la storia e capire che, come sosteneva Leonardo Sciascia sull’emigrazione italiana, “Questa gente va capita soprattutto in ciò che non dice“.

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Occorre andare da questa parte del mare e calarsi nei versi di Gianmaria Testa per capire il peso del passo “di chi è partito per non tornare/ e si guarda i piedi e la strada bianca/ la strada e i piedi che tanto il resto manca/ e dietro neanche un saluto da dimenticare/ dietro soltanto il cielo agli occhi e basta”. Occorre provare ad avvicinarsi all’elaborazione di un dolore tale da diventare il mezzo per provare ad attuare cambiamenti inevitabili già nell’atto della partenza. Quel dolore, sperimentato, aiuta a definire la propria condizione esistenziale: il modo di raccontare quell’incontro sarà in grado di formare, come scrive Kapplani, la trama stessa dei ricordi.

Solo allora si riuscirà a comprendere ciò che già George Perec ci ricordava in “Specie di spazi”, vedendo che i tentativi di riappropriarsi della propria visione del mondo possono realizzarsi cercando di mettere in atto una visione geografica del tutto personale, che si tratti di una mappa reale o mentale, in un’idea di geografia di cui l’uomo ha dimenticato di essere uno degli attori. “Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti: il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti”. La scrittura può avere un valore salvifico, insegna Perec, nel cercare di trattenere il tempo, nel provare a tenere in vita quanto di più caro, che si tratti di un ricordo, di un ideale o di una testimonianza, nell’intento di “strappare qualche briciola precisa al vuoto che si scava”.

“Prima di partire, prigioniero della camicia di forza del totalitarismo, immaginavo una vita nuova oltre i confini, libero ma al tempo stesso orfano, libero e smarrito”, scrive Kapplani. Ha conosciuto il dramma della fuga, ha visto la morte, la violenza, gli stenti, la disperazione, affrontandoli con la volontà di fare qualsiasi lavoro per guadagnarsi un gruzzolo che non era altro che il simbolo del miraggio della terra promessa, arrivando a laurearsi e diventare docente di Storia e cultura dell’Albania ottenendo riconoscimenti prestigiosi tra l’Europa e gli Stati Uniti, dove oggi insegna Letteratura e Storia europea. Ora è libero Gazmend Kapllani, ma ciò che forse porterà sempre negli occhi sono quelle rive lontane di cui parlava René Char nei suoi versi, quelle due rive necessarie per la nostra andata e per il nostro ritorno, “strade che bevano le loro nebbie. Che serbino intatte le nostre risate felici. Che, interrotte, ancora salvaguardino i nostri minori a nuoto in acque gelide”.

(Letture di Alice Pisu. Recensione uscita su Repubblica Parma. Libri. Parole e dintorni, il 10 ottobre 2017)

I Libri di Alice:Breve Diario di frontiera