di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

LA SEMANTICA DEI MONDI POSSIBILI, LA RIVOLUZIONE

Recensione al libro di DAVIDE ORECCHIOMio padre la Rivoluzione

(Minimum fax)

0x300

Mio padre: la rivoluzione. Mio padre, la rivoluzione. Di primo acchito un lettore può leggere il titolo dell’originale e bel libro di Davide Orecchio sulla Rivoluzione d’ Ottobre -ma sarebbe più corretto dire sulla Rivoluzione Russa e le sue conseguenze- come se ci fosse la virgola, come se ci fossero i due punti. Se ci fossero la virgola o i due punti quel titolo alluderebbe a qual è stato il rapporto del padre con la rivoluzione, quale senso gli ha dato, come si è confrontato con essa. Ma, se quel lettore legge il titolo con più attenzione, non può non notare che è “Mio padre la Rivoluzione” (Minimum Fax. 2017). Non ci sono virgole, non ci sono due punti. Non si tratta solo di una questione di punteggiatura, si tratta di uno slittamento semantico che dà un senso almeno triplice al libro. Il primo è quello descritto più sopra. Il secondo e, forse, il più importante è la rivoluzione vista come padre dal narratore. Il terzo è la rivoluzione come è stata vissuta da coloro che quella rivoluzione l’hanno fatta.

220px-Демонстрация_работниц_Путиловского_завода_в_первый_день_Февральской_революции_1917

Un titolo, dunque, volutamente ambiguo e spiazzante dove la rivoluzione, che è termine femminile, dovrebbe essere madre. Invece è padre. Un titolo che denota una voluta con/fusione e sovrapposizione di codici maschili e femminili (con/fusione e sovrapposizione che compariranno anche in tante altre parti del testo). Quei codici affettivi maschili e femminili che furono l’ambito di ricerca del grande psicoanalista Franco Fornari, piacentino di nascita e milanese d’adozione, ricerca i cui esiti sono confluiti nei suoi “Scritti scelti” (Raffaello Cortina. 2011). Codici che egli applicò anche nell’interpretazione dei fatti della politica sostenendo che l’allora DC aveva un codice affettivo femminile, che l’allora PCI aveva un codice affettivo maschile e che gli italiani erano presi in mezzo da entrambi, con/fusi tra i due.

Ritornando al titolo del libro si potrebbe riassumere: mio padre è la rivoluzione anche se dovrebbe essere mia madre, mio padre è la rivoluzione perché mio padre, quello vero, quello biografico, con quella rivoluzione ci ha fatto i conti per tutta la vita, per tutta la vita si è dovuto confrontare con essa e noi figli ci siamo dovuti confrontare, anche noi, con quella rivoluzione e, attraverso essa, con i nostri padri o loro con noi. Mio padre la rivoluzione è anche  lo sfilare, sotto il giudizio della  Storia, di padri e  patrigni della rivoluzione, quelli veri, quelli che l’hanno fatta, quelli che l’hanno tradita.

Se è vero che “Mio padre la Rivoluzione” ci riporta ai codici affettivi fornariani, è ancor più vero che ci mette a confronto con la trasmissione intergenerazionale: il rapporto tra padri e figli, quello che i padri hanno trasmesso ai figli e trasmettono ancora, anche se non ci sono più. Perché la dimensione memoriale è fondamentale nel libro.

“Mio padre la Rivoluzione” si apre in modo visionario: Trockij è ancora vivo e commenta il XX congresso del PCUS, quello in cui vengono pubblicamente alla luce i crimini di Stalin. Non a  caso il capitolo si intitola “Una possibilità di Lev Trockij”.

Due appunti prima di continuare. Ho detto capitolo e non racconto perché, anche se il libro di Orecchio potrebbe sembrare un libro di racconti, in realtà assume la forma-romanzo poiché i personaggi ritornano da un racconto/capitolo all’altro, tematiche lasciate in sospeso vengono riprese, i fili si riannodano e, con grande perizia, Davide Orecchio li dipana portandoci, costantemente, al centro dei problemi.

L’altro appunto è su quel possibile. L’autore dà una possibilità che Trockij non ebbe perché fu ucciso molto prima. Gli dà la possibilità di vedere gli esiti di quel congresso, gli dà la possibilità di riflettere sul fatto che quei crimini, di cui anch’egli sarà vittima, li aveva denunciati molto prima del XX congresso del PCUS.

La domanda è: cosa sarebbe accaduto se le idee di Trockij avessero prevalso? Questa domanda ci conduce direttamente al campo della semantica dei mondi possibili e della Storia controfattuale, quella Storia che fa storcere il naso agli storici più rigidi e dogmatici.  

Mi sia permesso un piccolo excursus filosofico: chi introdusse per primo il concetto di mondi possibili fu Leibnitz nei suoi “Scritti filosofici” (Utet.1967). Secondo Leibnitz i mondi possibili sono tutti nella mente di Dio. Il mondo attuale è uno dei di molteplici mondi possibili e dal punto di vista di Dio, il migliore. Furono Rudolf Carnap prima, e Saul Kripke poi, a riprendere le riflessioni di Leibnitz e a svilupparle ulteriormente utilizzando la logica modale. Fino ad arrivare al concetto di “semantica dei mondi possibili”. E’ come se ci domandassimo: come sarebbero andate le cose se avessimo fatto una  scelta altra e non quella che abbiamo fatto realmente? Come sarebbero andate le cose se un determinato personaggio storico avesse vinto le sue battaglie, se avesse fatto una scelta invece che un’altra? ( Su questi temi suggerisco di leggere quanto scrive lo psicoanalista Giampaolo Lai in un articolo che si intitola “L’etica dei mondo possibili” reperibile in “Quaderni di psicologia di analisi transizionale e scienze umane. N.7. 2002). Illuminante quanto scrive il filosofo neozelandese M. J. Cresswell nel suo saggio “Mondi Possibili”: “ Non c’è solo un momento di tempo, ora. Ma, naturalmente, anche se il presente è solo il momento che è con noi, vi sono altri momenti che erano e saranno con noi. Dunque, sebbene il mondo reale sia l’unico mondo che è attuale, ci sono però molti altri mondi che avrebbero potuto essere attuali (pag. 117 in “Mondi possibili e supposizioni controfattuali”. Dipartimento di Filosofia. Università di Milano. s.d.).

170px-Lenin_1921In questo romanzo, anche se si parla tantissimo di Lenin, il vero protagonista è Trockij. Il suo fantasma aleggia anche nelle pagine in cui non è citato. Perché Trockij rappresenta l’utopia e la distopia. Rappresenta una diversa possibilità della rivoluzione. Un cammino che avrebbe potuto biforcarsi in un altro sentiero. Chissà, forse le cose non sarebbero cambiate molto, ma non lo sappiamo, non abbiamo la controprova. E’ a questa utopia, a questa distopia che dobbiamo aggrapparci  se vogliamo salvare gli ideali per i quali era scoppiata la rivoluzione: un tentativo radicale di riscatto da condizioni economiche terribili che erano ulteriormente peggiorate con la prima guerra mondiale. Un tentativo di portare l’eguaglianza in un mondo che la disconosceva, non la riconosceva. Trockij incarna l’alternativa possibile e mai realizzata. Incarna il sogno. Ma, se Trockij incarna quest’alternativa, questo sogno, allora l’altro protagonista, il deuteragonista non è Lenin, ma Stalin, colui che ha incarnato il terribile reale. Nel libro il confronto tra i due è avvincente, drammatico, tragico. In mezzo a loro Hitler, i cui discorsi si con/fondono con quelli di Stalin. Senza mai che l’autore cada nel luogo comune dell’equiparazione. Orecchio complessifica e rende oltremodo dolorosi gli accostamenti in una continua tensione etica, sempre sottotraccia, velata da una sottile e malinconica ironia. Per questo ancora più intensa.

Luxemburg__Rosa-e615aadb62b8685612ce1e94ef30316cNon ci sono solo Trockij, Lenin, Stalin e Hitler nel libro. C’è anche Rosa Luxemburg, c’è la sua voce che sembra giungere a noi flebile e forte allo stesso tempo. E allora come non ricordare un dato autobiografico? Nelle manifestazioni che si tenevano nella prima metà degli anni settanta, alcuni di noi avevano sostituito ai nomi di Mao e Stalin, negli slogan che si gridavano, quello di Rosa. Si gridava: “Rosa, Rosa, Rosa Luxemburg”. E scandire il suo nome era aggrapparsi ad un possibile che non si era avverato, era un possibile che conteneva una speranza per il futuro: che le rivoluzioni a venire avrebbero dovuto essere libertarie e mai autoritarie. Mai più dittatori. Tanto meno la dittatura del proletariato.

Nel libro non ci sono solo Trockij con il suo organizzatissimo treno, Lenin, Stalin, Hitler, Rosa Luxemburg, Ci sono le voci dei dissidenti e dei Kulaki mandati a morire nei Gulag ; c’è il Kim  protagonista de “I sentieri dei nidi di ragno” di Calvino; c’è un Rodari assolutamente inedito alla ricerca della ricostruzione dell’infanzia di Lenin, c’è Bob Dylan  che, di origini ucraine come Trockij, lo avrebbe potuto incontrare in un contesto abitato dalla semantica dei mondi possibili. Sapiente, poi, il montaggio del capitolo Cast”, in cui viene data voce esclusivamente ai protagonisti di quella rivoluzione, agli storici e giornalisti del passato e contemporanei che l’’hanno studiata e di cui hanno scritto. E’ come se Davide Orecchio avesse voluto attuare l’utopia di Walter Benjamin quando sosteneva che sarebbe stato necessario scrivere un libro fatto solo di citazioni.

Poi c’è il padre vero, quello che, per usare una felice espressione di Ruggero Zangrandi, attraversa il fascismo e, nell’attraversarlo, giunge all’opposto approdo: quello comunista. Diventando partigiano, poi attivista del PCI e restandolo fino alla scomparsa del partito. E leggendo queste righe ci sono sovrapposizioni altre, quelle di un lettore come il sottoscritto che vede riflesso nel padre dell’autore/narratore, il proprio, con i suoi ideali, le sue delusioni, le sue speranze, le sue utopie che si è portato fino alla morte, utopie sorrette più che dalla storia reale, che spesso veniva condannata, dal mito, il mito della rivoluzione, il mito che travolge il reale, ma che dà una speranza per il futuro, che dà la speranza in un mondo migliore. Pagine davvero toccanti quelle del capitolo “Il mondo è un’ arancia con i vermi dentro”.  

Splendido il capitolo finale, “Il Viaggio”, che prende spunto da un altrettanto splendido libro. “El viaje” (purtroppo non ancora tradotto in italiano) dello scrittore messicano Sergio Pitol che parla del viaggio di Pitol in Unione Sovietica nel 1986. Volendo scrivere una lettere a suo padre la rivoluzione e seguendo le tracce del viaggio di Pitol, Orecchio ci parla del tragico destino dell’anarchico Francesco Ghezzi, vittima dello stalinismo, e della ricostruzione che ha fatto delle sue vicende il pronipote Carlo, ci parla dell’amore che legava Bucharin, altra vittima dello stalinismo, alla sua adorata moglie Anna, sovrappone il viaggio di Pitol nell’Unione Sovietica della perestroika e di Gorbaciov al Messico rivoluzionario e, ancora una volta, ai luoghi di Trockij. Ci parla con/fondendo la voce del narratore con quella di Sergio Pitol che pare narrare, in alcuni brani, in prima persona  Soprattutto ci parla di lettere spedite e mai arrivate, ci parla di lettere mai scritte e che si sarebbero volute spedire, di lettere che arrivano quando è troppo tardi e non vi è più nessuno ad attenderle, lettere che dovrebbero giungere a una medesima stazione. La condanna da scontare è che i tempi non sono mai sincroni e quelle lettere non si incontrano, forse non si incontreranno mai.

Se la semantica dei mondi possibili ci ricorda i “Piccoli equivoci senza importanza” di Tabucchi (Feltrinelli. 1990), dove l’accumularsi di scelte assolutamente casuali porta i personaggi a trovarsi in situazioni che non avrebbero mai immaginato, questo ultimo capitolo ci fa venire alla mente quello che, forse, è il miglior libro di Antonio Tabucchi: “Si sta facendo sempre più tardi” (Feltrinelli. 2003). Qui le lettere sono sempre in anticipo o in ritardo, i tempi si capovolgono e le sincronie sono sempre mancate, magari anche per un soffio, ma comunque mancate.  

220px-19170704_Riot_on_Nevsky_prosp_Petrograd

In effetti una temporalità particolare permea il romanzo (continuo a chiamarlo romanzo) di Davide Orecchio: i tempi si alternano, il 1917 è parente stretto del 1956, quando i carrarmati sovietici invasero l’Ungheria, è parente stretto del 1968, quando i carrarmati sovietici invasero la Cecoslovacchia, ma è parente anche della Resistenza; i tempi si intrecciano, marciano paralleli o si intersecano e, come si diceva più sopra, la voce del narratore si confonde con quella dei personaggi, anche quelli reali come Stalin, Lenin, Trockij, che paiono parlare in prima persona scippando, in qualche modo, la voce al narratore o sfumandola. Ci si trova di fronte a digressioni che si leggono senza mai perdere il punto, l’essenziale. Lo stile ha echi gaddiani, il fraseggiare elegante e mai banale. Il registro scivola dal tragico al drammatico, all’ironico, all’evocativo e ci inchioda alla pagina.   

Alla fine del libro vengono spontanee due domande cruciali: la prima, come si è visto più sopra, è cosa sarebbe successo se avesse “vinto” Trockij. La seconda è la più radicale di tutte. Cosa resta  oggi della Rivoluzione di Ottobre? Ci sono valori di essa che possono essere recuperati, come lo è stato per la Rivoluzione Francese dopo che se ne è sedimentata la memoria? Il tragico approdo staliniano può farci dimenticare i motivi per cui quella rivoluzione ebbe luogo? I valori dell’eguaglianza sono valori per i quali è ancora lecito, giusto, necessario battersi?  Cosa significa Rivoluzione oggi?

La Rivoluzione Francese segnò un passaggio fondamentale: il passaggio da un concetto spaziale/astronomico di rivoluzione, dove la rivoluzione era associata al moto degli astri, a un concetto temporale, una temporalità che è frattura nel tempo omogeneo e vuoto, per dirla con Walter Benjamin. Questo passaggio vale anche, o forse ancor di più,  per la Rivoluzione d’Ottobre. Ma vale la pena segnalare un fatto: in mezzo alle due rivoluzioni uscì un libro strano, suggestivo.  Si intitolava “L’eternità attraverso gli astri” (SE.2005). Lo aveva scritto Louis August Blanqui rivoluzionario di professione. Lo aveva scritto dal penitenziario di Fort du Taureau, situato nella baia di Morlaix, Finistère, in Bretagna, dove era detenuto alla viglia della Comune.

Sosteneva Blanqui che tutto viene travolto dalla eterna ripetizione del moto degli astri, anche il nuovo, e gli umani non sono in grado di fronteggiarla perché l’uomo è davvero piccola cosa nei confronti del cosmo. Recuperando la metafora spaziale sosteneva Blanqui che le fratture, anche quelle più profonde, alla fine saranno riassorbite e inghiottite dall’eterno ritorno dell’uguale. Sosteneva Blanqui che il nuovo è destinato ad essere fagocitato.

Ma, allora, qual è il destino delle fratture provocate dalle rivoluzioni? Quello di venire suturate dall’eguale, dal ritorno delle dittature, delle ineguaglianze, della soppressione delle libertà, tutto ciò contro cui le rivoluzioni erano nate? Del resto dopo la caduta della Zar, ne è venuto un altro, Stalin. E dopo alterne vicende la Russia ne ha un altro ancora, Putin.

Viene da domandarsi: come saranno le rivoluzioni di oggi, in un mondo globalizzato, se ci saranno? Saranno spaziali o temporali? O spaziotemporali? Saranno pacifiche, culturali, di costume, economiche? Cosa ci attende per il futuro? Cosa ne sarà della nostra memoria storica? Le pagine del bel libro di Davide Orecchio dedicate al passato aprono a queste inquietanti domande sul futuro.

Nostro dovere interrogarci.  

Lo Scaffale di Andrea: Mio padre la Rivoluzione