di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 
L’ARTE DI VIAGGIARE ED ESPLORARE SUI LIBRI.

03Nel tempo della dipendenza dalla Rete e dei mille viaggi virtuali alla portata di un click noi cerchiamo una mediazione con i nostri incontri in libreria, dando molto spazio al viaggio sulla pagina scritta. La lettura di certi libri belli resta, per noi, una tappa imprescindibile per chiunque fosse in cerca di conoscenza e di emozioni d’autore.
Facciamo tante presentazioni alternative in una settimana, anche al fine di stimolare la curiosità di viaggiare attraverso un libro, e, nel farle, non ci avvaliamo del trombone di turno come relatore. Abbiamo fatto un patto coi nostri lettori, e non vogliamo, e neanche sappiamo, prendere in giro nessuno. Ecco perchè venerdì scorso abbiamo ospitato uno scrittore e un traduttore di razza, un titano della letteratura contemporanea come Marino Magliani che ha scritto, per la casa editrice Exòrma, un libro di sostanza e belle suggestioni come “L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi”; e sabato 25 abbiamo avuto Clemente Bicocchi, autore per Nottetempo de “Il bianco del re”, un gran bel libro spassoso e avventuroso ambientato in un Congo di Re, foreste, tribù e magie.

Io e Alice abbiamo conosciuto lo scrittore ligure, Marino Magliani, la scorsa estate in Sardegna, ospiti del Festival internazionale della letteratura di viaggio. Una persona affettuosa e di una gentilezza disarmante e una disponibilità estrema; eppure, tra quella confidenza e quella convivialità da gita scolastica, ho sempre percepito la sua grandezza e quindi una forma di soggezione. Soggezione che, ho letto in giro in queste settimane, essere non solo mia: in molti hanno la consapevolezza di avere a che fare con un grande della Letteratura italiana contemporanea, uno che tra qualche decennio troveremo sui libri di scuola. Marino Magliani ha vissuto a lungo in Spagna e Sudamerica e risiede in Olanda.

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Ha tradotto molta narrativa latinoamerica e scritto tantissimi libri, ma in questo ultimo piccolo gioiello, pubblicato da Exòrma, che ha il passo di un particolare e frammentario memoir autobiografico, si percepisce davvero tutta la sua grandezza. Ci sarebbe tanto da dire su questo libro, sul modo di intendere l’esilio, sulla descrizione dei luoghi, sul modo raro di raccontare l’infanzia attraverso la prospettiva del protagonista. Una lettura che cattura proprio perché lontana anche nella struttura dai romanzi tradizionali a cui siamo abituati. È ben altro: “L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi”. Un uomo, di professione traduttore, ha lasciato la sua terra d’origine, è andato lontano, in diversi lontani, e non è più tornato. Un esilio volontario, forse da sé stesso. Ritorni e ripartenze, dalle rive del mare di casa alle dune del Mare del Nord, nei luoghi anfibi dove la sera si radunano i gabbiani e i moscerini danzanti giapponesi. I luoghi e le circostanze del passato e del presente si allacciano come in una treccia: i collegi, la valle ulivata dell’infanzia, le caserme e i reparti neuro dove colui che racconta ha vissuto «nei dieci anni di residenza nella notte». Un’autobiografia, per frammenti e senza soggetto, che si presuppone vera proprio perché non c’è nessuna prova che lo sia. Il mare, le spiagge, l’orizzonte di sabbia, le acque ricorrono nel libro come un connettivo della nostalgia. Da un esilio all’altro, il luogo della presenza: «Dicono che gli esuli fanno bene due cose, una è camminare lungo le rive di un fiume, o di un mare, di un lago, di un canale. L’altra è non dormire la notte».
Vero protagonista del libro è la sua “voce”, che fa risuonare le parole nell’orecchio, ci trascina oltre l’affastellamento degli eventi di una vita. Magliani getta sassi nel pozzo, che febbrilmente ci troviamo, nostro malgrado, a benedire e rincorrere. Per poi ritrovarci anche noi, nel pozzo, senza sapere come ci siamo finiti. Come Dante che sviene sulle spiagge d’Acheronte, e si ritrova sulla porta dell’inferno.

0000003 Sabato 25 novembre, invece, con lo scrittore Clemente Bicocchi abbiamo presentato il libro edito da Nottetempo dal titolo “Il Bianco del Re”. Clemente Bicocchi di mestiere fa il documentarista. Ha girato tanti documentari riconosciuti e premiati e nella sua carriera gli è capitato di vivere l’esperienza che ha poi raccontato in questo libro.

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Incaricato da una discendente dell’espoloratore italo-francese Pietro Savorgnan di Brazzà decide di andare a Brazzaville, la capitale del Congo che prende il nome dal suo fondatore e filmare il mausoleo Brazzà. E mentre si trova in Congo, tra personaggi singolari e improbabili, ecco che inizia questo memoir particolare e affascinante. Il protagonista del libro di Bicocchi è infatti proprio un cineasta in crisi d’ispirazione che si ritrova catapultato in Africa, nel Congo Brazzaville, sulle tracce della mitica figura di Pietro Savorgnan di Brazzà, un esploratore italo-francese i cui metodi pacifici hanno rappresentato il versante perdente del colonialismo: oscurato dall’astro violento di Henry Morton Stanley, Brazzà lottò contro il sistema schiavistico, tanto da conquistarsi l’amicizia del popolo congolese e da dare il nome alla capitale del paese. Pietro Savorgnan di Brazzà, esploratore italiano di nascita(la sua famiglia viene esattamente dal Friuli, da Brazzacco, una frazione del Comune Moruzzo che si trova a Nord di Udine) è poco noto, ma la sua storia andrebbe conosciuta non fosse che per il fatto che il Congo Brazzaville mantiene il suo nome. Tra colonnelli decaduti, re esiliati, villaggi sperduti nella foresta, compagni di viaggio improbabili e il nume tutelare e allucinatorio del regista Werner Herzog a perseguitarlo in sogno, il protagonista viene spinto dal caso e dall’incoscienza verso situazioni e luoghi estremi, al centro di un intrigo politico e nel cuore segreto di una cultura millenaria, tra i richiami indecifrabili di quell’“eccesso di realtà” che è l’Africa equatoriale. Ma proprio quando il suo viaggio sembra rivelarsi definitivamente insensato, riesce per qualche ora a trasformarsi nel bianco del re, attraversando una sconnessa teoria di incontri ed esperienze indimenticabili. Ed è così che incontra il re Tekè che gli ordina di girare un filmato sul suo avo Matok, re ai tempi di Brazzà…e poi tutta una serie di incontri con ambasciatori, colonelli, funzionari, poliziotti, autorità congolesi che non gradiscono la sua presenza di bianco venuto a ficcare il naso nei loro affari. Una lettura spassosa e divertente, utile anche per conoscere un personaggio ingiustamente dimenticato. Clemente Bicocchi ha realizzato documentari e film sperimentali, presentati e premiati in vari festival internazionali. Tra questi: 60 anni (2006), Africa nera marmo bianco (2012), Educazione affettiva (2014) e Notturno (2016). Dal 2008 si è trasferito in Svizzera al seguito della famiglia, dove trascorre la metà del suo tempo. Per addolcire il suo esilio dorato in una terra ostile, scrive. E lo fa, dannatamente, bene.
003Per conoscere il colonialista gentile Pietro Savorgnan di Brazzà abbiamo trovato un relatore fighissimo come Octave Clément Deho, docente di letteratura francese alla Scuola per l’Europa ED esperto in letteratura africana contemporanea. In Italia da oltre vent’anni,Octave Clément Deho, con un testo tetrale, ha vinto il più importante premio letterario della Costa d’Avorio; è uno di quelli che non ha dimenticato le radici profonde che ancora oggi lo legano alle sue origini e lo spirito africano se l’è tenuto dentro sempre: dall’infanzia alla prima giovinezza vissute in Costa d’Avorio fino al giorno della «Licence ès Lettres Modernes» nella capitale Abidjan. In omaggio al suo professore Zadi Zaourou ha scritto un’opera teatrale che gli è valsa «Le Bissa d’Or du Grand Prix littéraire Bernard Zadi Zaourou 2014», il Premio nazionale più importante per il mondo accademico letterario ivoriano.
Ci sono luoghi che confinano tra loro eppure profondamente differenti. Come Brazzaville e Kinshasa, separate solo dal fiume Congo. Una è la capitale della Repubblica del Congo; l’altra, della Repubblica democratica del Congo. La seconda un tempo si chiamava Léopoldville o Leopoldstad perché era la capitale del Congo Belga e Leopoldo era il re del Belgio. Brazzaville invece non ha mai cambiato nome. È l’unica città africana ad aver conservato quello coloniale. Un’anomalia che richiede una spiegazione. Sono in pochi a sapere che il Congo è stato diviso in due: da una parte la Repubblica Democratica del Congo (ex Congo Belga) dall’altro la Repubblica del Congo ( o Congo Brazzaville). La seconda mantiene il riferimento all’esploratore di origini italiane che più di cento anni fa sulla costa occidentale del fiume Congo ebbe il merito di attuare una nobile forma di contro-colonialismo per opera della Francia. Puntando su dialogo e integrazione si guadagnò il rispetto delle popolazioni locali. Al contrario di quello che accadeva dall’altra parte del fiume dove un colonialismo violento e razzista si faceva strada ad opera del Belgio e dell’esploratore Henry Morton Stanley.
2Nato nel 1852 a Castelgandolfo, località di villeggiatura dei papi vicino a Roma, Pietro Savorgnan di Brazzà, era il settimo di tredici figli di una nobile famiglia friulana. Incuriosito dalle zone inesplorate della Terra già a otto anni, Pietro passa il tempo nella biblioteca di casa. Lo affascina una carta dell’Africa con al centro un grande spazio bianco su cui c’è scritto «Regno dei re Makoko, Paese sconosciuto agli europei». Studente al Collegio Romano, a 13 anni pensa di farsi prete, proposito presto abbandonato ma che gli conserverà una certa aria da missionario e una visione evangelica della vita. Uno dei suoi professori, il gesuita Angelo Secchi, direttore dell’Osservatorio astronomico, gli presenta l’ammiraglio Louis-Raymond, marchese di Montaignac. Grazie a lui andrà in Francia e sarà ammesso alla scuola navale di Brest. Naturalizzato francese, il giovane romano d’origine friulana diventerà Pierre Savorgnan de Brazza e verrà incaricato di esplorare l’interno del Gabon e di risalire il fiume Ogooué in una serie di spedizioni.

La figura dell’esploratore italo-francese Pietro Savorgnan di Brazzà è protagonista anche di una splendida graphic novel edita da Lavieri Edizioni e scritta da Erika De Pieri dal titolo “Pietro Savorgnan di Brazzà. Esploratore di pace”. Il libro ripercorre con piglio a tratti avventuroso, a tratti commovente e realistico la vita e i misteri che aleggiano intorno alla figura di questo grande esploratore di origini italiane.Misconosciuto in patria, Brazzà è l’unico uomo bianco a cui sia mai stata intitolata una capitale africana, Brazzaville, capitale del Congo francese.Visionario scalzo e aristocratico idealista, rappresenta la dimostrazione che un colonialismo pacifico sarebbe stato possibile.Naturalizzato francese, Brazzà passò la maggior parte della sua vita in Africa, realizzando tre grandi spedizioni, ognuna portata a compimento con uno scopo diverso, ma sempre col medesimo cuore e rispetto per l’Altro, in un’Europa che viveva la scoperta dell’Africa attraverso il colonialismo brutale e schiavista del guerrafondaio razzista e violento Henry Morton Stanley. Con lui nasce il mito dell’esploratore buono, il prototipo del bianco che esplora l’Africa in modo politicamente corretto, in nome di un colonialismo umanitario. Pierre Paul François Camille Savorgnan de Brazza, che già a suo tempo si distingueva dagli altri esploratori, è entrato nella storia come pioniere di umanità.

L’amico Lorenzo Mazzoni mi suggerisce un libro stupendo legato sempre alla figura di Pietro Savorgnan di Brazzà dal titolo “Equatoria”, di Patrick Deville (pubblicato in Italia da Galaad Edizioni e tradotto da Roberto Ferrucci). Vi riporto un suo pezzo apparso su Il Fatto quotidiano:

“Ed ecco come, dopo mesi di viaggi erratici, dopo aver navigato sul fiume Ogooué, bighellonato in Angola e São Tomé, attraversato gli altipiani Batéké, mi sono ritrovato, il 3 ottobre 2006, a Brazza sopra il feretro di Brazza, una bara tutta nuova Fabriqué par EGPFC-Wilaya d’Alger, in compagnia del presidente della Repubblica gabonese Omar Bongo Ondimba, del presidente della Repubblica congolese Denis Sassou Nguesso, del presidente della Repubblica Centrafricana François Bozizé, dei concittadini Douste-Blazy e Kouchner, del nunzio apostolico Monsignor Andres Carrascosa Coso, e del re dei téké Auguste Nguempio. Tra alberghi e alloggi di fortuna, ho ricostruito le biografie dei contemporanei di Brazza: David Livingstone ed Henry Morton Stanley, ma anche Albert Schweitzer e Jonas Savimbi. A Kigoma, sulle rive del lago Tanganica, ho seguito le tracce della guerra congolese di Che Guevara. Per raccontare le vite di Emin Pacha e Tippu Tip, mi sono spinto fino a Zanzibar.”
9788895227788_0_0_300_75“Equatoria” è un piccolo gioiello di narrativa itinerante, un capolavoro limitatamente pubblicizzato, uno strumento utile per addentrasi in eventi storici e realtà geografiche poco note. Ne pubblicassero di più in Italia di libri così. Un testo capace di ridare centralità a fatti ormai considerati marginali nella pochezza delle informazioni globalizzate, ghettizzati da un presente che sembra riuscire con bislacco stile a gettare nel dimenticatoio quasi tutto ciò che è intelligente, bello, ben scritto. Patrick Deville è un esploratore del terzo millennio, il suo è un vagabondaggio straordinario sulle tracce di Savorgnan di Brazza in un’Africa immaginaria e reale che continua a cambiare padroni e confini. La scrittura del bravo autore francese, che per questo lavoro ha rifiutato la forma della biografia rigorosa seduto ad un tavolo per divorare in prima persona fiumi, foreste, città montagne, laghi, è una scrittura sensuale, poetica, divertente.Un viaggio che lo ha portato attraverso le cicatrici della lunga e terribile guerra congolese, in Gabon, a São Tomé e Prìncipe, tra i mercenari che volevano destituire il presidente della Guinea Equatoriale, in Angola, in Algeria, in Tanganica… e ovunque a tracciato le storie di quelli che lì sono passati in altre epoche o di coloro che in altri luoghi, seguendo altre carte geografiche, li hanno ispirati o li hanno conosciuti. Un caleidoscopio di volti e avventure: Jules Verne, Pierre Loti, Jonas Savimbi, Henry Morton Stanley, Che Guevara, Patrice Lumumba, Joseph Conrad, Nubar Pascià, il generale Charles George Gordon, l’autoproclamato mahdi Mohammed Ahmed, Agostinho Neto, Pepetela, André Malraux, Laurent-Désiré Kabila. Patrick Deville è nato a Saint-Brévin nel 1957 e dirige la fondazione letteraria MEET (Maison des Écrivains Étrangers et des Traducteurs) di Saint-Nazaire. Equatoria (2009), è il secondo volume di una trilogia che comprende i romanzi Pura Vida (2004) e Kampuchéa (2011). Con Peste & Choléra (2012) si è aggiudicato il Prix du roman Fnac, il Prix Femina, ed è stato finalista del Prix Goncourt. I suoi libri, pubblicati in Francia dalle Edizioni de Minuit e Seuil, sono tradotti in dodici lingue. Mi chiedo come mai, in Italia, siano stati pubblicati pochissimi titoli. È vero che Deville non fa parte della sconfinata brigata dei pessimi scrittori che molti grossi editori amano avere nella propria scuderia per poi poter far ingoiare porcherie ai sempre meno lettori, però nessuno, tra quelli buoni, tra quelli che amano pubblicare cultura è intelligenza, è disposto a investire su questo geniale autore? Per ora un applauso immenso a Edizioni Galaad.

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A proposito di Repubblica del Congo o Congo Brazzaville non possiamo non citare uno scrittore congolese che io ho scoperto proprio grazie ai consigli di lettura su Il Fatto Quotidiano di Lorenzo Mazzoni. Sto parlando di Alain Mabanckou. Per raccontare di lui partirei dal suo ultimo romanzo, “Peperoncino” pubblicato come tutti gli altri precedenti in Italia dalla gloriosa casa editrice 66thand2nd. Protagonista del libro è un orfano dal nome chilometrico, chiamato prima Mosè e poi Peperoncino, che ad un certo punto perde la testa.

Originario di Pointe-Noire dove è nato nel 1966, Mabankou è stato nominato dalla rivista francese ‘Jeune Afrique’ una delle cinquanta personalità africane più influenti al mondo, è stato finalista al Man Booker International Prize 2015, lo stesso anno è entrato nella cinquina del Premio Strega Europeo con il suo libro ‘Pezzi di vetro’ e dal 2016 insegna al College de France.
Eclettico e irriverente, il poeta e romanziere è cresciuto nella caotica Pointe-Noire, capitale economica del paese, insieme all’amatissima madre, figura centrale della sua vita: non a caso tutti i suoi libri sono dedicati a questa donna forte e determinata che lo ha spinto nel 1989 a trasferirsi in Francia per completare gli studi. E a Parigi Mabanckou è rimasto per oltre dieci anni, assaporando il clima multietnico delle banlieue, dove culture diverse si incontrano e si scontrano, creando quel mix fertile che riaffiora nei suoi romanzi. Primo autore francofono dell’Africa subsahariana a essere pubblicato nella prestigiosa collana Blanche di Gallimard, Mabanckou ha ricevuto numerosi riconoscimenti per i suoi romanzi, tra cui il premio Renaudot per Memorie di un porcospino e il premio Georges Brassens per “Domani avrò vent’anni”. Attualmente Mabanckou insegna alla Ucla dove si è guadagnato il soprannome di «Mabancool» perché è considerato il professore più cool di tutta la California.

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Con il libro “Peperoncino” siamo negli anni Sessanta, quando la Repubblica popolare del Congo si sta trasformando in un avamposto africano dell’Unione Sovietica e all’improvviso arriva la rivoluzione, Peperoncino approfitta della confusione per scappare a Pointe-Noire lasciando il suo amico Bonaventure con il quale è cresciuto all’orfanatrofio di Loango. Peperoncino prima si unisce a una banda di ragazzi di strada e poi trova rifugio in casa di Mamma Fiat 500 e dei suoi dieci figli dove, un evento inaspettato, lo fa entrare in uno stato di lucida follia.
Nella dedica che apre il romanzo, Mabanckou rende “omaggio agli errabondi della Costa selvaggia, durante il mio soggiorno a Pointe-Noire” Cantore dell’Africa contemporanea come è stato definito, Mabanckou dice che per il suo Paese “il futuro è cercare la democrazia visto che un sacco di paesi come il Congo, il Camerun ecc. stanno ancora affrontando la dittatura”.

Sempre per la casa editrice 66thand2nd, uno dei libri di Alain Mabanckou da leggere assolutamente è “Le luci di Pointe-Noire” nella traduzione di Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco.
Dopo ventitré anni Alain Mabanckou torna nella sua Pointe-Noire. Invitato dall’Institut français per un ciclo di conferenze, alloggia in un appartamento per artisti e scrittori dove, appeso alla parete del salotto, c’è un quadro che ritrae una donna dallo sguardo triste. Durante il soggiorno, oltre agli impegni uffciali, si dedica alla scrittura del suo libro di ricordi, ma è bloccato, ha un nodo in gola. Sa di essere tornato nella città natale non solo per motivi di lavoro, ma soprattutto per riappropriarsi del passato, per riportare alla luce un’infanzia smarrita nel groviglio della memoria, per salutare i membri della sua numerosa famiglia, orfana di mamma Pauline e papà Roger, e per rivedere i luoghi cari – la casetta di legno «reggia» della madre, il cinema Rex «garanzia del sogno», il liceo archivio di episodi dell’adolescenza. Ma Pointe-Noire non è più la stessa: la casetta è cadente, rovinata dal tempo, il cinema è diventato una chiesa pentecostale, il liceo ha un altro nome e gli appare come un labirinto. Perdipiù tra i familiari ci sono dissapori, e sembrano interessati solo ai suoi soldi. Alain è scosso, disorientato, ma nel mostrare a un amico una foto che si è fatto scattare con i nipoti si rende conto che quei bambini sono liberi e felici, come in fondo lo era lui da piccolo, e non baratterebbero la loro infanzia con niente al mondo. E al momento di ripartire la donna del quadro lo saluterà con un sorriso e avrà i lineamenti della sua amata mamma.

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Vi riporto una bella recensione di Lorenzo Mazzoni al libro fatta sul Fatto Quotidiano:
Torna in libreria lo scrittore congolese Alain Mabanckou con una sorta di reportage che si legge come un ritorno alle proprie radici, un confronto emotivo e narrativo su quello che è stata e quello che è oggi Pointe-Noire, la città in cui lo scrittore è nato e cresciuto. Il libro in questione è “Le luci di Pointe-Noire”, tradotto da Federica Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco e pubblicato, come i suoi ultimi lavori, da 66thand2nd.
È il giugno del 2012 e Alain Mabanckou, dopo ventitré anni di assenza, torna a Pointe- Noire. La città non è più il luogo mitico e variopinto che l’autore ha descritto in “Domani avrò vent’anni”. È arrivato il momento di dire addio agli eroi dell’infanzia e ai tanti personaggi che hanno animato i suoi ricordi. Mamma Pauline e papà Roger non ci sono più, Yaya Gaston, il fratellastro-playboy, è diventato l’ombra di sé stesso, la sorellastra Georgette si sbianca la pelle e gli chiede un milione di franchi locali. Lo sguardo adulto di Mabanckou si posa sulla città, la scruta: ecco il vecchio cinema Rex, dove da bambino guardava i film western, oggi trasformato in una chiesa pentecostale, ecco il liceo Karl Marx, che ora si chiama Victor Augagneur. L’occhio indugia, esplora lo spazio circostante e a poco a poco affiora la nuova Pointe-Noire con le sue luci e le sue ombre, i suoi quartieri e le strade che Alain ripercorre dopo tanto tempo e che lo riporteranno finalmente a casa.
“Le luci di Pointe-Noire” è un libro emotivamente molto forte, che funziona grazie alla prosa sciolta e colorita dello scrittore. Il lettore si immerge in una realtà africana poco nota in Italia, nella quale scopre che i giovani congolesi degli anni Settanta ridevano e sognavano con “Lo chiamavano Trinità…”, “L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente”, “Due superpiedi quasi piatti”, “Fantomas minaccia il mondo”, dove la dialettica marxista-leninista insegnata a scuola era tale e quale a quella che poteva essere insegnata a Mosca o Sofia, e dove i bambini erano liberi e felici, come in qualsiasi parte del mondo, e non avrebbero mai barattato la loro infanzia spensierata.
Nel libro c’è anche una parte dedicata al rapporto con i “cugini” della Repubblica Democratica del Congo, ex Zaire (Kinshasa fu fondata da Henry Morton Stanley nel 1881 con il nome di Léopoldville, in onore del sovrano belga Leopoldo II, appena un anno dopo che il suo rivale nell’esplorazione del fiume Congo, Pietro Savorgnan di Brazzà, aveva fondato Brazzaville sulla riva opposta del fiume). Per scrivere di questo “scambio” Mabanckou si affida alla descrizione del quartiere Trois-Cents, il regno della prostituzione cittadina, popolato da professioniste del sesso autoctone e zairesi.
Alain Mabanckou dopo la pubblicazione del suo primo romanzo “Bleu-Blanc-Rouge” (1998), premiato con il Grand Prix Littéraire de l’Afrique norie, dedicherà sempre più tempo e risorse alla scrittura, iniziando a pubblicare con regolarità romanzi e poesie. I suoi libri sono tradotti in più di quindici lingue. Il romanzo “Black Bazar” (2009, tradotto in italiano dalla casa editrice 66thand2nd) si posiziona tra i primi venti più venduti in Francia secondo le classifiche delle riviste L’Express, Nouvel Observateur e Livres Hebdo. Nel 2010 debutta nella prestigiosa collezione Blanche della casa editrice Gallimard con il romanzo “Domani avrò vent’anni” (66thand2nd, 2011), ottenendo anche il premio Georges Brassens. Sempre 66thand2nd ha pubblicato l’originale e divertentissimo noir “Zitto e muori“ e poi “African Psyco” e “Domani avrò vent’anni” e ” Pezzi di vetro”.

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Con “Domani avrò vent’anni” sianmo sempre a Pointe-Noire, ma negli anni Settanta. Michel ha dieci anni ed è un bambino turbolento e sognatore. Il suo mondo è popolato di personaggi stravaganti che lo accompagneranno nel lungo cammino per diventare un uomo: Lounès, l’amico del cuore; Caroline, la spigliata sorella di Lounès e fidanzata di Michel; René, lo zio ricco, comunista per comodità e opportunista per vocazione; e poi papà Roger, che conosce i segreti della politica del Congo e si fa interprete del nuovo ordine mondiale; e infine Pauline, l’amatissima madre, con i suoi vestiti color arancio brillante. In casa, nel frattempo, la radio diffonde le notizie delle efferate vicende politiche che hanno segnato la storia africana e europea. «Quando imboccherò la strada della felicità allora saprò che finalmente sono cresciuto, che ormai ho vent’anni»: è l’illusione del piccolo Michel, l’ennesimo alter ego di Mabanckou, che qui ci racconta la sua infanzia in un’Africa che non c’è più, strampalata e commovente, piena di comicità e contraddizioni.
La cultura e la società congolese diventano una lente attraverso cui osservare il mondo con un’angolatura differente, ironica, paradossale, irriverente.

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Con il libro “Pezzi di vetro” troviamo un vero e proprio tributo alla letteratura, alla vita e all’Africa e al Congo. Pezzi di vetro è il quinto romanzo pubblicato in Italia da 66thand2nd e tradotto da Daniele Petruccioli. Si tratta di un libro denso di riferimenti culturali e storici, sia congolesi e africani, ma anche mondiali, che donano al testo un ritmo musicale, armonico e vivo. Un arzigogolato ed esplosivo viaggio nella quotidianità di Pointe-Noire, un pastiche globalizzato narrato dal bancone di un bar, intriso di ironia, dove fanno la propria comparsa tra le righe, come ricordato nella Nota al testo, Georges Brassens, Tahar Ben Jelloun, Ingmar Bergman, Dino Buzzati, Alfred Hitchcock, Yukio Mishima, Lenin, J.D. Salinger, Mario Vargas Llosa, Tristan Tzara, Boris Vian, solo per citarne alcuni. Al Credito a morte passa un’umanità composita, allegra e tragica, accomunata da una spiccata propensione alla bottiglia e dalla voglia di raccontare le proprie miserie e nobiltà. Una ricchezza che andrà perduta se nessuno fisserà su carta la storia di questo bar unico al mondo, aperto ogni giorno ventiquattro ore su ventiquattro grazie alla tenacia di Lumaca testarda, fondatore e padrone del leggendario ritrovo. Il compito viene affidato a Pezzi di vetro, cliente storico del locale, ex insegnante elementare amante del vino e delle belle lettere. Quaderno alla mano, sarà lui a raccogliere le confessioni di habitué e gente di passaggio. C’è quello dei Pampers, che prima di essere spedito dalla moglie nel terribile carcere di Makala amava consolarsi con le prostitute del quartiere Rex; il Tipografo, che ha avuto la malaugurata idea di sposare una francese, fonte di ogni sua disgrazia; Rubinetta e Casimir, che si misurano nella gara per la pisciata più lunga. Ma al centro di tutto rimane lui, Pezzi di vetro, capace con la sua prosa colta e popolare di cogliere le debolezze altrui e smascherare questi personaggi da tre soldi È così che la letteratura entra nella vita, anche nella più umile, e i libri si trasformano in parola viva, in un linguaggio universale alla portata di ogni uomo.

A proposito di Arte di viaggiare sui libri, concludo con il segnalare un libro appena arrivato in Libreria questo fine settimana: ” L’ eredità delle dee “. Una misteriosa storia dai Carpazi Bianchi, un libro di Katerina Tuckova pubblicato da Keller nella collana Passi.

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Sulle montagne dei Carpazi, nella comunità di Zítková, vive da sempre una stirpe di donne dotate di poteri eccezionali. Guaritrici, preveggenti, tramandano la loro arte di madre in figlia e vengono chiamate “dee”. Dora Idesová è l’ultima di questa discendenza, ma non ha ereditato nessuna arte. Rimasta orfana è passata alle cure di zia Surmena fino a quando anche quest’ultima scompare dietro le mura di una clinica psichiatrica. Dora finisce così in collegio, cresce, studia Etnografia e trova lavoro presso l’Accademia delle Scienze di Brno. Quando negli anni Novanta vengono resi pubblici gli archivi della polizia segreta, Dora – che nel frattempo sta scrivendo un saggio riguardante le “dee” – inizia le sue ricerche e si imbatte nel dossier sulla zia, la dea Surmena… Ben presto quella di Dora si trasforma in un vero e proprio viaggio nelle ombre e nei segreti del passato. Riesce a ricostruire il tragico destino di tutta la sua famiglia, legato a un’antica maledizione, ma anche intrecciato alle vicende che hanno segnato il Paese e hanno messo i poteri delle dee al centro degli interessi dei nazisti prima e dei comunisti poi. Un destino cui nemmeno Dora riuscirà a sfuggire.
Romanzo storico, thriller, esplorazione etnografica, indagine sulla magia, affresco epocale e ricerca delle radici, “L’eredità delle dee” è stato e continua a essere un caso editoriale unico nella letteratura ceca conquistando critici e lettori tanto da vendere solo nella Repubblica Ceca oltre 110mila copie. Il romanzo tradotto in 15 lingue arriva sugli scaffali italiani nella traduzione di Laura Angeloni.
Una miscela magistrale di realtà e finzione. Un capolavoro che ha vinto tanti Premi dei Lettori e il Premio Bestseller ceco.

Nello Zaino di Antonello: L’ARTE DI VIAGGIARE ED ESPLORARE SUI LIBRI