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A Santa Croce, davanti alla “finestra” di Nennolina…

Questo è l’invito di Giovanni Ricciardi per chiacchierare di “L’undicesima ora”, la nuova avventura del commissario Ponzetti, edita come sempre da Fazi. Altre indicazioni non chiedete, perché non posso darne e dopo aver letto il romanzo, capirete bene il perché.

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Gli ho scritto, appena terminata la lettura, di notte, non potendo trattenere l’euforia per quello che a me sembra in assoluto il suo romanzo più bello e perfetto.

Mi piacerebbe sapere da dove nasce questo tuo giudizio, che mi sorprende e mi rende contento… – mi scrive in risposta. E allora, vediamo se a lui e a voi nel Chiacchierando sono riuscita a spiegarlo.

– Ma loro nun sanno che le pozzanghere de Ponzetti so’ i laghi der core.

– Mario, stai invecchiando, mi diventi poetico.

– Mai quanto lei. Lei è poetico ne le cose che fa, no in quelle che dice. Lo sa che lo studio de Rossi è ‘na scatola vòta? E che otto mesi fa ha venduto la macchina e nun ha ricomprato gnente?

Tutto ha una sua logica… ma la verità è che non ci capiamo ancora un tubo.

‘Sto Rossi era incasinato, dotto’. Questo è sicuro. Però, a vorte, come se dice, nun è tutto oro quello che brilluccica. Semo noi che cercamo sempre ‘na spiegazione. E invece tante cose nun se spiegano. Succedono e basta. A chi je tocca, je tocca. E nun ce tocca sempre quello che ce meritiamo. La vita è più grande e complicata de la giustizia.”

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Più che vecchio, Mario Iannotta è diventato saggio, equilibrato, indispensabile e sì poetico. La coppia Ponzetti/Iannotta sin dagli albori mi sembrava ricalcata sulla mitologia di Don Chisciotte e Sancio Panza, con la mia grande simpatia anche in quel caso per il fido, rozzo e incolto scudiero. Ma in “L’undicesima ora” mi sembra che la rappresentazione sia ancora più veritiera: come nella seconda parte del Don Chisciotte, così anche Iannotta dimostra in questa ottava avventura di non seguire sempre, ma a tratti di procedere innanzi al suo cavaliere. Tanto che non solo Ponzetti gli chiederà consiglio prima di perdersi in questa inchiesta fatta di vento e di simboli, fin quasi a commuoverlo:

“Dotto’, me sta quasi a scenne’ la lacrimuccia. Da quanno ‘n qua lei chiede consijo all’ispettore Iannotta?”

ma soprattutto a sancire la crescita e la maturazione piena del personaggio, gli affida il consueto, rivelatore, illuminante colloquio con l’avvocato Galloni, l’uomo più colto e astruso di Roma in compagnia dell’immancabile Socrate.

Tutto questo preambolo, oltre che per citare una delle tante pagine felici del tuo romanzo in cui compare la definizione più vera dei due poliziotti, e per confermare la mia dedizione a Ponzetti ma il mio amore incondizionato per Iannotta, è volto ad evidenziare la nota più riuscita del tuo percorso nel giallo seriale. Questi personaggi, secondo la teoria eraclitea, “scorrono” da un romanzo all’altro, conservando la loro identità ma mai uguali e sempre in trasformazione. Nella trasformazione la cifra più vera del mio pieno, convinto entusiasmo a leggerti, di romanzo in romanzo (mentre ti confesso che mi sono stancata già da un po’ di alcuni colleghi del tuo: questo a sottolineare che non è la serialità ad appassionarmi, ma il modo in cui tu la sai condurre).

Si può affermare che Mario Iannotta sia ormai diventato protagonista alla stregua di Ponzetti? Lo incoroni in questo nuovo romanzo, o invece a tuo avviso lo è sempre stato? e soprattutto: è diventato poetico?

Poi forse ci tocca spiegare chi è questo Rossi, di cui parlano nel passo citato, e che cosa gli sia capitato e se ti riesce, senza svelare troppo, confidarci se si sia meritano quello che gli è toccato.

ricciardiLe trasformazioni di Ponzetti e di Iannotta seguono – o precedono, come fa a volte lo scudiero col suo padrone – lo spirito di ogni libro. In Mario Iannotta c’è sempre un germe di poesia, che nasce dalla vis comica, dal portato di realismo che il suo personaggio incarna. Ma in questo romanzo Iannotta è come preoccupato di proteggere il suo commissario dalla deriva fantasticheggiante che sempre lo assedia. Iannotta è un co-potagonista, da sempre, ma  quel che è certo è che in ogni libro si prende uno spazio tutto suo, un segno riconoscibile della sua identità. Un co-protagonista, ovvio, non un comprimario qualunque.

Rossi è un uomo qualunque, il suo nome lo dice. Che abbia fatto carriera come architetto poco importa. In fondo è la sua inquietudine a fargli scegliere strade irregolari e amori voraci. Ed è – come tutti – solo davanti alla morte, e non vorrebbe. Per questo incarna la nostra voce, la voce dell’umanità che nonostante le sue lacrime spera fino alla fine.

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In quel noi possiamo includere anche Ponzetti che in un punto cruciale dell’indagine, che nei tuoi romanzi non è mai al centro, ma sempre subordinata al guazzabuglio (e so di usare un termine che non ti è indifferente) che gira intorno agli eventi, fatto di variegata umanità sempre colta dal tuo sguardo con generosità e senza pregiudizio, si lascia prendere dal mistero che tutti ci riguarda, quello appunto di ritrovarci nudi sinceri e autentici in hora mortis nostrae:

Avevo così deciso di espormi alla sconfitta, impotente di fronte alla casualità e al mistero dell’amore, della vita imperfetta degli altri, della mia vita imperfetta. Avevo deciso di dipendere dall’incerto istante in cui un uomo è sincero, perché è di fronte al suo destino, all’istante in cui l’ultima goccia cade dal rubinetto e poi si secca.. In hora mortis nostrae.

Ponzetti ha sempre avuto la caratterista di entrare in sintonia con vittime e colpevoli, di carpire ragioni profonde del loro agire, senza operare nessun giudizio, e preservandosi integro. Ma in questo romanzo tra i tanti elementi narrativi che tu, a mio avviso, porti a compimento e perfezione, c’è anche la piena maturazione di questo stato d’animo. Ponzetti avverte l’autenticità di un momento supremo, che non riguarda solo Rossi, ma anche altri personaggi secondari e fondamentali come Josè o Gaudì: in hora mortis nostrae. L’avvertimento passa, come tu sai e riesci a fare benissimo, attraverso l’omaggio letterario: Zweig, Roth, il commissario Ricciardi di Maurizio De Giovanni, e Gaudì, che ha un ruolo dirimente nella narrazione e si prefigura come l’elemento più raffinato e colto tra i tanti che da sempre tu dissemini tra le pagine.

Chi ho dimenticato di citare, Giovanni, e invece è imprescindibile in “L’undicesima ora”? 

defaultHai dimenticato Erodoto. Il grande narratore ionico rievocato dall’avvocato Galloni nella storia di Solone e Creso, il dialogo sulla felicità – che stavolta ha come uditore attento e un po’ confuso il povero Iannotta – e sull’anonimo Tello d’Atene, che è il contraltare e il modello di una pietà degli umili, della ricerca di una vita fondata sulla roccia.

Ci sono anche, Giovanni, modelli di scrittura e romanzi o saggi, o libri di vario genere imprescindibili ma invisibili, oppure volutamente nascosti, nella trama di “L’undecisima ora”, o persino di tutta la tua produzione? oppure i tuoi riferimenti sono intessuti, senza mistero, nella narrazione? Aldilà del gioco, a mio avviso sublime e molto classico, delle citazioni che impreziosiscono il dettato della tua scrittura.

Modelli diretti no. Piuttosto punti di riferimento alti: i grandi narratori russi, Manzoni, Gadda, i classici greci e latini. I giganti che fanno ombra a noi, nani della narrazione contemporanea, e che di tanto in tanto ci sollevano sulle spalle per mostrarci un orizzonte più grande .

 

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Con “La canzone del sangue” hai portato i tuoi lettori in vacanza in Sicilia, una delle poche di Ponzetti, poi in Argentina con “Gli occhi di Borges” mentre Ponzetti inseguiva una pista di un vecchio caso. Con questo nuovo partiamo per Barcellona. Ci allontaniamo di meno rispetto agli altri romanzi, perché quella barcellonese è solo una breve vacanza per accontentare il genero Jorge e conoscere finalmente i futuri suoceri (se mai diventeranno ufficialmente tali), mentre l’indagine nel suo complesso si svolge a Roma, la Roma vera, quotidiana, malinconica che solo tu sai descrive con simili note, così avulse dalla cartolina.

Cosa ti ha spinto a portare Ponzetti fuori dai suoi confini naturali? Anche questa mi sembra una piccola, importante innovazione del tuo modo di trattare un personaggio seriale. Pochi gli antecendenti che mi vengono in mente. Uno solo per la verità, che, guarda caso, è l’ispettrice della polizia di Barcellona, Petra Delicado: in “Gli onori di casa” è in trasferta a Roma. Ha qualcosa a che vedere con la tua scelta della città? o invece la presenza di Barcellona è strettamente connessa con la personalità di Gaudì? Viene prima, cioè, la scelta della città o la decisione di rendere un omaggio all’opera di Gaudì in “L’undecima ora”? 

Mi sembra che ormai hai preso gusto ad ampliare gli orizzonti in cui far muovere Ottavio Ponzetti: continuerai così o invece è una scelta casualmente continuata nei tre ultimi romanzi, ma che non è detto che manterrai?

28634Devo dire che sei bravissima. Questo libro nasce da un’antica passione per Gaudì, nata improvvisamente con un viaggio a Barcellona fatto nel 2002. Di portare Ponzetti laggiù non avevo mai avuto l’occasione, ma dato che Jorge bazzica casa Ponzetti da sei romanzi, prima o poi il commissario una puntata dai consuoceri doveva pur farla. Ma tra l’uovo e la gallina, in questo caso viene prima l’uovo, cioè Gaudì, e poi la gallina, cioè il trasferimento temporaneo di Ponzetti a Barcellona.

La scelta è casuale, o meglio, dettata dai percorsi delle diverse trame. Mi sono accorto in realtà, anche qui a  posteriori, che gli ultimi tre romanzi, in cui Ponzetti si sposta da Roma, finiscono per rappresentare una sorta di trilogia delle arti: musica (o canzone popolare), poesia, architettura.

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Giovanni, bravissimo sei tu, lo sei sempre stato, sin dalla prima indagine, ma con questa devo dire che ti sei superato.

Per usare una similitudine che appartiene a un terreno comune ad entrambi, l’insegnamento, è come quando leggi il compito dell’allievo più bravo, che si è sempre dimostrato all’altezza delle tue aspettative, ma con quell’ultimo scritto ti spiazza e ti esalta, perché le supera con qualcosa di perfetto, in cui porta a compimento tutte le potenzialità ampiamente espresse in quelli precedenti. 

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Non so quanto sia iniziato, certamente era presente in maniera riconoscibile in “La canzone del sangue”. Ponzetti è deciso a godersi la vacanza siciliana, e nelle prime pagine ingiunge alla figlia Maria di rispondere per lui al telefono e di negare la sua presenza.

– E se ti cercano per lavoro?

– Appunto, sono in Sicilia, chiamassero Montalbano, se vogliono.

– Ma Montalbano sta a Vigata, non qui.

– Siamo tutti commissari di carta, quindi possono trovare anche lui, se serve.

– Tutti tranne te. Tu sei vero.

La natura di carta di Ottavio Ponzetti traspare anche in “L’undicesima ora”, in modo ancora più fine e ingegnoso:

– E lei chi è? – gli chiede il barista, al quale Ponzetti ha chiesto informazioni su Paolo Rossi.

“Commissario Ponzetti”. Erano secoli che non tiravo fuori il tesserino, ma in un giallo come si deve ci può stare, anche perchè il padrone del bar stava per redarguire il ragazzo invitandolo a occuparsi degli altri clienti.

Non solo. La natura di carta è palesata anche per Iannotta, mi sembra per la prima volta, anzi con la maggiore consapevolezza che il personaggio dimostra su di sé, la confessa apertamente lui stesso:

“A dotto’… ma lei davvero se pensa che io, dentro ‘ste storie de Ponzetti, ce sto come ‘na bambola sur divano? Pe’ coreografia? E che nun ho pensato a fa’ la copia de tutte le chiavi de nascosto da donna Flora? Annamo a guarda’ dentro ‘sta buca si ce sta quarcosa. E nun me faccia ‘sta faccia”.

La faccia di Ponzetti sarà stata simile alla mia: di ammirazione e sorpresa per Iannotta la sua; di ammirazione e sorpresa per Giovanni Ricciardi la mia.

C’è una fitta rete di rimandi che solo superficialmente potrei definire “metaletterari”, perché in realtà nell’ordito narrativo sono di più e creano una suggestione più profonda del mero gioco che si ottiene con il ricorso al metaletterario. Affinano l’introspezione dei personaggi, valorizzano la narrazione in prima persona, infittiscono la traslazione tra narratore e personaggio, impreziosiscono l’ironia che è una caratteristica fondante della tua scrittura, non quella mordace e aggressiva, ma quella pirandelliana, che svela gli aspetti più umani e sentimentali. 

Che valore ha per te dare ai tuoi personaggi la consapevolezza della loro “natura di carta”? La consideri anche tu, come me, uno dei tanti aspetti fondanti di Ponzetti che hai portato a compimento? Ti confesso apertamente che è uno degli elementi che mi fanno dire che “L’undicesima ora” è un gioiello di eccezionale fattura. 

giovanniricciardiGrazie, Giuditta. La natura di carta ha una funzione autoironica, siamo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, ci basta d’avere una storia da raccontare, è un po’ il pirandelliano gioco dei personaggi in cerca d’autore, o un dare voce a ciò che ha la nostra stessa voce, un dire a noi stessi: non prendiamoci troppo sul serio – siamo anche noi “solo canzonette” – un po’ spezzare certa prosopopea del gallismo nostrano che si autocelebra negli innumerevoli festival del giallo, del noir, del thriller, che pontifica su un genere letterario che ha sempre cercato spazio nella grande letteratura senza mai riuscirci del tutto, a parte i grandi che hanno scritto gialli senza dire che lo erano, come Dostoevskij, Gadda o Sciascia. 

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Ultima domanda, Giovanni, e che ti devo dire? Mi dispiace assai assai, perché continuerei a chiacchierare all’infinito con te, che sei il mio Galloni.

Però baro, e te ne faccio due.

– E lo ha mai visto scrivere?

– Come?

– Come? Con carta e penna, o col computer. Uno, magari per concentrarsi, viene qui, si prende una cosa da bere e scrive.

Come scrive Giovanni Ricciardi? Con carta e penna o col computer? E dove? E quando? Chi lo vede scrivere?

La scrittura, in modo precipuo la scrittura epistolare, è un elemento fondamentale in “L’undicesima ora”. Si comincia con una mail mai spedita trovata nel pc di Paolo Rossi, che rappresenta le ultime parole di una vita bruciata in una fiamma rapidissima, e che è alla base della sensazione del commissario che tutto sia confuso e storto nella morte naturale con cui il collega Celiboni sta per archiviare il caso:

in quei mille metri compresi tra piazza Tuscolo, dov’era il loft, e via Statilia, dove era bruciata la villetta, si era consumato qualcosa di strano e apparentemente indecifrabile. e il commissario Celiboni, che stava per archiviare il caso come morte naturale, era rimasto di sasso al ricevere il verbale dei vigili del fuoco – in perfetto ritardo – che dava per certa la natura dolosa dell’incendio. l’architetto se l’aspettava? era venuto via per paura? e se era morto la stessa notte in cui qualcuno aveva appiccato il fuoco alla sua casa, si trattava di pura coincidenza? Ce n’era abbastanza per aprire un caso. Ma ci voleva fegato e senso del dovere, oltre che del pudore.

E a Ponzetti non mancherà nessuno dei tre e il caso sarà aperto, e dirimente sarà proprio la mail diventata epistola e la risposta epistolare che ne seguirà, che ti dà il destro per una riflessione che, a mio avviso, segna il passo filosofico e meditativo della storia:

C’è gente a cui piace ancora spedire cartoline, meditare su ciò che scrive e farlo a mano, in bella grafia, far sapere al destinatario che è stato pensato, che ci si è seduti a un tavolo, si è speso tempo per lui. E fargli assaporare l’arrivo di un messaggio che non è frutto di un nevrotico ticchettare su una tastiera, ma di un pomeriggio o di una sera dedicati a lui. Nell’era del computer questo è già un atto d’amore, non crede?

“L’undicesima ora” è il racconto di un atto d’amore, in fin dei conti, che trova il suo simbolo proprio nella lettera che apre il romanzo. Ma Giovanni Ricciardi scrive cartoline o lettere come atto d’amore?

presentazione_11a_ora-kqh--656x369corriere-web-roma_640x360Mi è capitato di scrivere a mano alcune pagine dei miei romanzi, e mi sono accorto che, tornando a questo “arcaico” uso della mano, il ritmo del pensiero s’adegua alla lentezza della penna. Che cioè la forma della scrittura influenza la scrittura stessa. Conservo vecchie lettere che spedivo e mi spedivano quando ero lontano da casa, e mi sembra che parlino di un tempo ormai perduto, di una capacità di riflessione che aveva a che fare con la lentezza dello strumento.

Ogni lettera, in questo senso, è una lettera d’amore.

E in questo senso, Giovanni, questa chiacchierata è la mia lettera d’amore per te, per Ponzetti e Iannotta, Galloni e Socrate, Maria Gisella e Jorge, e tutta la diversa umanità che sempre si incontra nelle tue pagine, scritte a mano o a computer che siano!

 

La prima chiacchierata con Giovanni Ricciardi:

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La seconda chiacchierata con Giovanni Ricciardi: 

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La terza chiacchierata con Giovanni Ricciardi:

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Chiacchierando (per la quarta volta) con… Giovanni Ricciardi
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