Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho sposato mia nonna, Tito Pioli

Letture di Alice Pisu (Libreria Diari di bordo). Dopo i racconti usciti per Guanda e Giulio Perrone e il successo di “Alfabeto mondo”, Diabasis, segnalato al Premio Italo Calvino, l’atteso nuovo romanzo del parmigiano Tito Pioli, presentato in libreria

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In una delle prime scene di Attraverso lo specchio di Lewis Carroll, Alice si ritrova in un mondo alla rovescia dove sarebbe incapace di sopravvivere. Le descrizioni di una realtà al di fuori dal mondo reale, come in quel paese delle meraviglie dominato dalle carte da gioco visitato prima di iniziare il nuovo viaggio, richiama una logica che risiede anzitutto nel lessico, nella scelta di parole che solo all’apparenza possono sembrare prive di senso. Solo osservando Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio su piani diversi di lettura sarà evidente che proprio in quel gioco tra reale e fantastico che porta a riscrivere una nuova idea di logica, risiedono i messaggi nascosti lasciati dal suo autore. Ed è ciò che occorre fare per calarsi nella scrittura di Tito Pioli, in quel nonsenso che ricorda Carroll nel gioco tra realtà ma da cui è capace di elevarsi per creare uno stile del tutto personale anzitutto attraverso il linguaggio, in una sperimentazione stilistica che dà forma a un romanzo dove i capitoli potrebbero essere letti anche come singoli racconti, dominati dagli interrogativi sulla società del presente.

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Pioli costruisce sapientemente meccanismi narrativi che si nutrono del paradosso per raccontare pagine dolorose e ridicole del presente, lo ha fatto intessendo storie tra le mura di una camera scrivendo un nuovo alfabeto con il suo romanzo abbecedario uscito per Diabasis, e lo fa oggi con Ho sposato mia nonna, Del Vecchio editore. Usa composizioni che guardano alla poesia attingendo al fantastico e all’umoristico per mettere in scena l’assurdo attraverso figure bizzarre e grottesche in mezzo alle quali, come bucaneve, appaiono all’improvviso i suoi due personaggi: una nonna esodata che parla al contrario sempre pronta a prendere le misure del mondo con una squadretta in tasca e un nipote giornalista fallito che vuole sposarla, eroi e sognatori, puri e disperati. Una scrittura che nasconde continue provocazioni, capace di attingere al grottesco nel raccontare una società dove la continua ossessiva spettacolarizzazione del dolore e del dramma è resa televisione, anche attraverso figure grottesche come Vania Vacuo o chi cerca di inseguire quel modello, come Germano il salumiere dal volto picassiano. Fa pensare a Kafka in questo, e non certo solo per l’omaggio ne La Lettera, che richiama l’atto dello scrittore praghese di inventare una corrispondenza per alleviare i dispiaceri di una bambina che aveva perso la sua bambola. Ma, in senso più ampio, nella scrittura di Pioli si avverte un’affinità ideale e morale con Kafka nel raccontare la solitudine dell’uomo davanti alla ferocia di ciò che lo circonda, c’è molto di lui anche ne La gabbia, che non può che far pensare al racconto, del 1922, Il digiunatore, un non allineato che vede nel cibo i valori di una società di cui non si sente parte, e per questo non potrà mai trovare il cibo che lo sazi. Non fa parte di quel mondo che lo osserva dall’esterno di una gabbia, nessuno in fondo può davvero comprenderlo. L’uomo de La gabbia di Pioli si fa bruciare vivo davanti a centinaia di persone che accorrono in massa per lo spettacolo. Quel senzatetto che vive alla stazione di Formia ormai dentro è già morto, non fa troppa differenza esserlo anche nel corpo, allora ride, mentre concede lo spettacolo della propria fine davanti a spettatori che riprendono con i telefoni ogni istante di quel corpo che si fa cumulo. Un’affinità che risiede anzitutto nel senso di irrealtà reso attraverso la tecnica del sogno, che in Kafka approda alla descrizione dei pensieri di un uomo che si sveglia trasformato in scarafaggio ne La Metamorfosi, e di chi, ne Il Processo, vive la realtà come intollerabile nell’essere arrestato e giustiziato senza conoscerne il motivo. In Pioli è il gioco di equilibri perenne tra il confine del reale e dell’immaginifico a costruire il “sogno di realtà” nello sguardo allucinato dei suoi due protagonisti.

Tato e la nonna Norma sono due non allineati che in un certo senso hanno un ruolo preciso nell’ordine della società: due sognatori con la testa tra le nuvole. “Eravamo sempre in un altro mondo.” Due visionari che Pioli rende capaci di partire da una posizione di apparente normalità nella precarietà esistenziale e lavorativa del presente, per permettere loro di librarsi altrove, ben al di là della visione generale delle cose. Due alienati capaci di arrivare in luoghi che, come Rebibbia, possono diventare sogno del reale, posti dove può accadere di vedere gabbiani invadere una nave e sentire l’urgenza di imitarne il volo, altri dove può accadere, come al concerto dei Rolling Stones, di vedere comparire all’improvviso il Trionfo di Vulcano di Ettore de’ Roberti e vivere con la folla l’idea di essere due corpi nudi sotto un lenzuolo bianco per divenire parte di un’immensa orgia tra centinaia di aquile che planano sulle loro teste.

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Un viaggio nell’inferno terreno quello di Pioli, fatto di esodati che si denudano per protesta, di cassintegrati suicidi, di città che sembrano destinate a restare cantiere, e dove la morte sembra il solo filo conduttore, “l’unica vera droga che eccita il mondo”. In fondo il passo dal tragico al ridicolo, come insegna Samuel Beckett, è breve. Proprio attraverso il comico e l’assurdo, gli eroi dell’inutilità che attendono inutilmente Godot non raccontano altro che l’esaurimento nella perenne ricerca di qualcosa, nell’attesa: esistenze poetiche, come le definisce Andrea Köhler, che incarnano il nonsenso della condizione umana. Sono esistenze poetiche anche i due protagonisti di Pioli, visionari allucinati, gli unici in grado di vedere davvero: una nonna e un nipote che si sposano perché la vita non basta. Non cercano altro che un’idea di felicità, Tato e Norma, che si realizza con tentativi che paiono immagini cinematografiche, certamente felliniane, che non possono ridursi a riferimenti come l’Operazione Amarcord per difendere l’Italia immaginata in A difesa di Volpina, ma che, in senso più ampio, si ritrovano nella dimensione onirica e visionaria e nei tratti fulminei che guardano a una sorta di realismo magico e che rendono alcuni capitoli molto vicini a capolavori cinematografici del Novecento. Una dimensione in grado di raccontare, come insegnano a loro volta anche Zavattini e i neorealisti, pagine dolorose e ridicole della società, immaginando di piegare l’arte al rinnovamento civile. Ciò che cerca forse di realizzare anche Tito Pioli con la letteratura, tra le note de La città vecchia di De André, interrogandosi sul ruolo dell’artista nella società, richiamando lo sguardo di Gian Maria Volonté, i pensieri di Pier Paolo Pasolini sulla direzione che cerca di prendere l’uomo nella deriva del presente, la tensione di Silvio D’Arzo tra strutture e ritmi in ogni singolo capitolo-microcosmo. Sono tanti padri di Tito Pioli che però, in fondo, è figlio di sé stesso nel plasmare, attraverso una sperimentazione anzitutto stilistica, un nuovo modo di concepire il romanzo, che si basa anzitutto su un modo nuovo di concepire il mondo e raccontarlo, in modo visionario e allucinato, attraverso la storia di un Paese, passando per la lente dell’arte, nei messaggi racchiusi in opere come La visitazione di Pontorno dove in fondo si nascondono anche i suoi due protagonisti, un soldato e una ragazza che non vivono il presente ma che sono arte solo nell’istante in cui si salutano per l’ultima volta.

Il costante atto politico nella scrittura di Tito Pioli è reso nell’irrealtà, nell’assurdo, nel gioco di equilibri tra follia e finzione, per denunciare la vacuità di valori di una società capace di indire le Olimpiadi del migrante e di eleggere il Gabibbo come Presidente della Repubblica. Pioli usa l’assurdo per raccontare le guerre, irridere le ideologie, definire gli effetti del terrorismo arrivando a immaginare la costituzione del Califfato dei Disabili per raccontare la deriva di una società che ha più paura di mostrare solidarietà e dare aiuto agli altri che subire violenze.  

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È una danza macabra quella in cui Tito Pioli fa ballare i suoi personaggi, un gioco dove tutto, anche la morte, o le violenze o un’idea di giustizia, sembrano regolati da una ruota della fortuna sin dall’inizio della vita, il destino che pesa sulle teste. Pioli racconta le miserie umane della società rappresentata dal singolo, incapace di emanciparsi dal resto, di provare compassione, di agire regolato da istinti primari. In quella Rebibbia di Ho sposato mia nonna, però, è ancora possibile trovare poeti dalla testa squadrata e dallo sguardo infantile capaci di indagare senza colpevole, senza vittime, senza carnefici, “solo testimoni, e i testimoni erano i fiori appassiti, i tronchi fracassati da braccia nude”. Poeti che escono nel mondo, ma che attendono di tornare a casa per indossare l’unica cravatta dell’armadio, e puliti e eleganti mettersi a scrivere, davanti allo specchio sentendosi finalmente sfiorati, annusati, guardati.

Sembra posarsi sui versi di Blake la prosa di Pioli, nel trovare il proprio modo di vedere la vita come un irregolare, comprendendo che quella capacità visionaria che dovrebbe essere parte integrante dell’individuo, si perde nell’impossibilità di custodirla a causa della vita che si conduce, facendosi abbagliare da quanto di artificiale può essere mercificato come bisogno. I protagonisti del romanzo di Pioli sembrano essere gli ultimi depositari di questa capacità visionaria, sopravvissuti a quella perdita di cui ormai l’uomo non è neanche più consapevole, passando il tempo nella superficialità, nell’apparenza, nella finzione, nella spettacolarizzazione della miseria e nell’incapacità di provare commiserazione. Ma in questa critica della società contemporanea, vuota e frivola, Pioli disegna la bellezza nelle sembianze di ciò che di squallido e desolato può avere solo nella sua apparenza. La disegna nell’amore di un nipote nel cercare con i suoi occhi puri un’idea di felicità con una nonna che è madre e moglie, sorella e amante, vecchia e bambina. La disegna in un paio di occhiali appannati capaci realmente di vedere il mondo, la disegna tra i muri di Oncologia, se si impara a guardare oltre, anche solo provando a scrostare l’intonaco per vedere graffiti fatti con lo sguardo e il pianto di chi non può andarsene. Allora compariranno cavalli, bisonti, donne nude, teste di bambole, fiori viola, armi, come in una caverna del Neolitico. Gli eroi di Pioli sono i semplici, gli emarginati, gli esodati, le bambine che perdono le loro bambole, le donne che cuciono tappeti prima di saltare in aria, i malati che sanno disegnare con le lacrime. Eroi per i quali non ci sarà mai spazio in quel mondo già descritto da T. H. Eliot, quello degli uomini vuoti, ai quali non resta altro che appoggiare “l’un l’altro la testa piena di paglia”.

(Recensione pubblicata su Repubblica Parma. Letture di Alice Pisu, Libri. Parole e dintorni, 19 settembre 2017)

I Libri di Alice: Ho sposato mia nonna