Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

Storie dal Novecento

«Il Novecento è il secolo in cui poggiano i miei piedi, a cui appartiene la metà dei miei sogni (l’altra metà si affaccia nel Duemila). Ci sono tanti modi per raccontarlo: vivere nel ricordo o recuperare le pagine che gli hanno dato significazione e riportarle in libreria».
Giuseppe Lupo

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Il racconto di una famiglia nell’Italia spensierata del miracolo economico del Novecento è stato il protagonista ai Diari Sabato 28 ottobre durante la presentazione de “Gli anni del nostro incanto”, il nuovo libro dello scrittore e saggista lucano Giuseppe Lupo, edito da Marsilio. A chiacchierare con l’autore è stato un fine intellettuale, Giuseppe Marchetti, critico letterario della Gazzetta di Parma. La serata organizzata in collaborazione con l’appassionata presenza del Circolo dei Lucani di Parma, ha visto tante persone in libreria, tanti lettori forti e tante giovani presenze, che fanno ben sperare per il futuro e che personalmente mi hanno messo addosso lo stesso entusiamo che ha Louis l’atomico nel libro. Non sono mancati i riferimenti a grandi del Novecento come Silone o Fortini in questa magnifica e frizzante chiacchierata tra due esperti del secolo scorso. Si è partiti da quella Vespa in fotografia, dall’incanto di una vecchia fotografia in bianco e in nero, per raccontare una intera generazione, anche la nostra. Nelle aspettative di una domenica mattina in Vespa, tutti col vestitito della festa, c’eravamo anche Noi con il mito della modernità in testa e tanti sogni da realizzare.
0Già Premio Campiello nel 2011 con “L’ultima sposa di Palmira”, Giuseppe Lupo è tornato ai lettori con questo romanzo commovente e dalla scrittura poetica, che coinvolge emotivamente il lettore in un percorso intimo, attraverso i ricordi di una ragazza al capezzale della madre che ha improvvisamente perso la memoria. Tutto parte, appunto, da quella vecchia fotografia in bianco e nero, quella bellissima e evocativa della copertina del libro: una domenica di aprile, una famiglia in gita sulla Vespa, a Milano, il ritratto della sospirata felicità raggiunta. L’immagine del benessere semplice negli anni Sessanta: un padre operaio, una madre parrucchiera, un figlio di sei anni, Indiano, e una bimba che non ne ha ancora compiuto uno. Vengono dalla periferia, sembrano presi dall’euforia del benessere che ha trasformato la loro cronaca quotidiana in una vita sbarluscenta. Qualcuno scatta una foto a loro insaputa. Vent’anni dopo, nei giorni in cui la Nazionale di calcio italiana vince i Mondiali di Spagna, una ragazza si trova al capezzale della madre che improvvisamente ha perso la memoria. Il suo compito è di ricordare e narrare il passato, facendosi aiutare da quella foto.

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Prende così avvio il racconto di una famiglia nell’Italia spensierata del miracolo economico, una nazione che si lascia cullare dalle canzoni di Sanremo, sogna viaggi in autostrada, si entusiasma con i lanci nello spazio dei satelliti americani e sovietici, e crede nel futuro, almeno fino a quando non soffia il vento della contestazione giovanile e all’orizzonte si addensano le prime ombre del terrorismo. Dopo la strage di piazza Fontana finisce un’epoca favolosa e ne comincia un’altra. La città simbolo dello sviluppo industriale si spegne nel buio dell’austerity, si sporca di sangue e di violenza, mostra il male che si annida e lascia un segno sul destino di tutti. Con un romanzo dalla scrittura poetica e struggente, forte nei sentimenti ed evocativo nello stile, Giuseppe Lupo ci racconta il periodo più esaltante e contraddittorio del secolo scorso – gli anni del boom e quelli di piombo – entrando nei sogni, nelle illusioni, nelle inquietudini, nei conflitti di due generazioni a confronto: quella dei padri venuti dalla povertà e quella dei figli nutriti con i biscotti Plasmon.

Giuseppe Lupo insegna letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano e Brescia. Ha esordito nella narrativa con il romanzo “L’americano di Celenne” (Marsilio 2000), con cui nel 2001 ha vinto il Premio Giuseppe Berto e il Premio Mondello opera prima, e nel 2002, in Francia, il Prix du premier roman. Successivamente ha pubblicato i romanzi “Ballo ad Agropinto” (Marsilio, 2004), “La carovana Zanardelli” (Marsilio 2008; Premio Grinzane Cavour-Fondazione Carical e Premio Carlo Levi), “L’ultima sposa di Palmira” (Marsilio 2011; Premio Selezione Campiello e Premio Vittorini), “Viaggiatori di nuvole” (Marsilio 2013; Premio Giuseppe Dessì), “L’albero di stanze” (Marsilio 2015; Premio Alassio Centolibri-Un autore per l’Europa; Premio Frontino-Montefeltro; Premio Palmi). Collabora alle pagine culturali dei quotidiani “Il Sole 24 Ore” e “Avvenire” ed è consulente presso alcuni editori, dirige la collana Novecento.0 presso Hacca Editore dell’amica Francesca Chiappa.

Con la collana, Novecento.0, si è voluto accogliere quelle opere che hanno difficoltà a essere ripubblicate dai grandi marchi. Vengono riportati in libreria autori che possono essere presi in mano come delle novità. Il Novecento, del resto, non ha ancora esaurito la sua carica dirompente e ci sono autori e autrici che meritano ancora dell’altro tempo per essere letti, e dei nuovi lettori. In questa magnifica collana, Giuseppe Lupo ha riportato alla luce opere del secolo scorso altrimenti perdute, ha fatto stampare e ristampare quello che del novecentesco è ancora stampabile, per poter guardare con prudenza e con attenzione al nuovo, a questo problematico primo decennio della letteratura italiana. L’editoria di qualità, del resto, deve saper aspettare e guardare sia al Novecento che all’oggi.

Tra i libri di questa magnifica collana c’è quello di un altro grande lucano di Montemurro, il poeta-ingegnere Leonardo Sinignalli, dal titolo “Pagine Milanesi”.

r“In questi testi del periodo milanese si coglie la sensazione che Leonardo Sinisgalli sia passato dalle soleggiate latitudini romane a un luogo freddo e inospitale.
«Sono giunto in questa città una sera d’inverno» – annota il 3 dicembre 1933 – «faticosamente il sangue ha fatto abitudine agli agguati della nebbia» (Introduzione a Milano). Ma è solo un’istantanea fotografica, un’impressione dettata dalla solitudine del paesaggio di Lambrate, il «quartiere dell’estrema periferia» come scrive nell’omonimo corsivo del 2 giugno 1934, dove prende dimora inizialmente. Ben presto, infatti, trapela il volto di una civitas in movimento, dedita freneticamente al lavoro nelle fabbriche e ai commerci, disposta non soltanto a concedere accoglienza al nuovo arrivato senza troppi indugi, ma anche a mostrarsi nel suo aspetto luminescente, quale crocevia dove convergono le nuove generazioni di talenti e trovano asilo le tendenze europee d’avanguardia. È il momento in cui Sinisgalli si trasferisce da Lambrate a Corso Monforte e poi in Via Rugabella, passeggia sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele, ascolta il grido delle fioraie in Piazza San Babila, si ferma ai tavolini del Caffè Craja e del Ristorante Savini, segue le mostre di Kandinsky al Milione, accompagna Le Corbusier all’Esposizione Aeronautica presso il Palazzo dell’Arte, visita gli studi di Cantatore, Fontana e Soldati, ne ammira i dipinti, ne esamina le forme e i colori. Si è spostato allegoricamente e fisicamente dalla periferia al centro, si è inserito nel pieno del frastuono urbano, vive la città obbedendo ai precetti dello spleen baudeleriano. Alla luce di tali considerazioni non è un azzardo affermare che gli scritti milanesi di Sinisgalli dell’«Italia Letteraria» presentano i caratteri della promenade e del diario, vantano cioè un’origine pubblica e privata, sono contemporaneamente cronache di una topografia culturale e frammenti di un viaggio interiore”.
(dall’introduzione di Giuseppe Lupo)

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Sempre nella collana “Novecento.0″ di Hacca edizioni è uscito un altro importante libro da riscoprire: ”La masseria” di Giuseppe Bufalari. Un libro «ch’è a mezza via tra il romanzo e il documentario», scrisse Montale, «un libro vivo». È lo stesso Giuseppe Lupo, che dirige come abbiamo detto la collana, a raccontarci perché ha deciso di pubblicarlo oggi.
“Se Marco Forti non avesse parlato della “Masseria” di Giuseppe Bufalari sul quarto numero del «menabò», nel 1961, dubito che un giorno avrei intercettato questo romanzo. Forti gli dedica ben quattro pagine, ma lo inserisce in un orizzonte in apparenza anomalo: come può un libro, che odora di terra e di campagna, entrare in un articolo che si intitola Temi industriali della narrativa italiana? Bufalari non è uno scrittore industriale e il suo testo parla di contadini, mucche, stalle… Immediatamente uno pensa: Forti ha preso un abbaglio, non c’entra niente. Invece c’entra. Non ci sono le ciminiere e nemmeno si sentono le sirene operaie, però il mondo che ci viene raccontato cammina con due gambe. Una è quella ancora inzaccherata dal fango delle strade autunnali ed è quella che più trasmette l’immagine di un Mezzogiorno atavico e paziente, lento e primordiale. L’altra poggia dentro la modernità: sulle pagine si muovono le ruspe che devono sterrare il terreno confiscato ai latifondi e diviso in lotti da destinare ai contadini. Le ruspe sono animali meccanici che si affiancano alle mucche, producono movimento, sconvolgono le colline e i boschi, insidiano i vecchi sentieri dove ancora passano asini e carretti. E la gente non sa da che parte voltarsi: l’occhio ai carretti o alle ruspe? Un po’ di qua e un po’ di là. Uno e l’altro. Ci sono i vecchi che non vogliono abbandonare le case di campagna e recitano lamentele che sembrano prediche di un mondo arrivato al capolinea: qua nessuno si muove… piuttosto morire che andar via… I giovani invece vogliono capire cosa sarà mai questa Riforma agraria, quali vantaggi porterà, se modificherà qualcosa o se tutto resterà uguale. E nei loro discorsi si fa strada l’idea di cambiare vita: le ruspe scaveranno così tanta terra da far somigliare la loro regione a quei luoghi di cui si sente parlare dai dipendenti dell’Ente riforma, che sono tutti forestieri e vengono da quelle grandi città dove si attraversano quartieri che non finiscono mai, strade asfaltate alla fine delle quali si aprono altre strade asfaltate e queste a loro volta conducono a una ragnatela di lampioni e luci al neon che a momenti gli occhi si stancano di seguire. Una vita on the road. Questo sognano i giovani mentre vedono le ruspe in azione e qualcuno riferisce pure di aver sentito una canzone che esce dal giradischi portato da qualcuno che parla con un accento diverso dal loro, non si capisce tanto ma pare un dialetto del Nord. Ruspe, giradischi, lampioni, ciminiere… Soltanto quindici anni prima Carlo Levi aveva dichiarato che il mondo dei contadini è sempre uguale nei millenni, ora invece Bufalari se ne viene fresco fresco con i fantasmi della modernità. A chi credere? Levi è un ebreo sapiente che non sbaglia un colpo (così ce l’hanno fatto vedere a scuola), un profeta con le mani fatte di colori e gli occhi guizzanti di una lucertola, viene da Torino e indovina le parole esatte per dire com’è fatto il Mezzogiorno e gli si prospetta una fortunata carriera di scrittore. Bufalari invece parla con l’accento di Dante, eppure pubblicherà poche altre cose dopo questo libro. Il tempo di allora gli ha dato torto: la Riforma agraria ha tagliuzzato i latifondi, ma non ha fatto nascere nel Mezzogiorno quella ragnatela di lampioni e i giovani, presi dalla disperazione, sono dovuti andarsi a cercare le ciminiere nelle grandi pianure del Nord. Il tempo di allora ha dato torto pure a Carlo Levi che chiedeva ai contadini di non partire.”
vSempre per la collana di Hacca edizioni è uscito anche “Diario minimo dei giorni”, il romanzo inedito del poeta Franco Loi. Doveva pubblicarlo Vittorini. E invece… sempre Lupo a raccontare “L’idea di pubblicare il romanzo di Franco Loi è venuta due anni fa, mentre lui e io risalivamo in aereo la dorsale appenninica. Eravamo seduti uno di fianco all’altro e parlavamo di Vittorini. «Lo sai» mi dice Loi come fa lui di solito, a voce squillante, «mi stava pubblicando un libro!» Mi voltai verso di lui, che in quel momento fissava il finestrino: un libro? Avevo conosciuto Loi diversi anni prima, in uno degli incontri organizzati nella libreria dell’Università Cattolica, e mi aveva subito colpito che fosse nato il 1930, lo stesso anno di mio padre. Da quel momento avevo cominciato a trattarlo come se fosse stato un padre, con quel misto di rispetto e complicità che scatta tra gli individui senza un perché.«Ripetimi bene bene questa storia» mi sono deciso a dire. Loi ha cominciato a parlarmi di Marcello Venturi e dello scherzo che gli aveva fatto mentre lui si trovava in Inghilterra e della telefonata con Vittorini: un dialogo fra sordi (almeno inizialmente), una gag di equivoci e contro equivoci finita poi in un nulla. Però non era questo a sedurmi, piuttosto quel che ci stava dietro.«Il libro» l’ho interrotto io, «dimmi del libro: perché non è uscito?» «Perché non l’ho mai restituito a Vittorini».Ho sgranato gli occhi non certamente perché stavamo attraversando un’enorme nuvola e l’aereo era completamente circondato da ovatta bianca. Vittorini aveva letto il testo, gli aveva mosso qualche osservazione stilistica, cosa ampiamente normale per gli autori destinati nella celebre collana dei “Gettoni”, e glielo aveva restituito. Invece Loi, anziché obbedire al lavoro di editing, aveva riscritto da cima a fondo il suo testo, purtroppo in una forma che a Vittorini non piacque.«E ora di questo libro che ne è?» ho incalzato.«In fondo a un cassetto» ha risposto Loi.
«Mai pubblicato?»
«Mai pubblicato…» «Ti va di farlo ora?»
Alla fine dell’ultima domanda Loi mi ha guardato come per dirmi: sono passati sessant’anni! Sono andato a prendere il dattiloscritto lo scorso autunno, un pomeriggio caldo e accompagnato da qualche goccia di pioggia. Loi aveva una faccia di chi aveva perso fiducia in quel suo antico lavoro. I fogli erano ingialliti e secchi, rovinati dal trascorrere degli anni, ma portavano ancora le correzioni a penna, che io sono rimasto a fissare senza parole, mentre il gatto passeggiava indisturbato sulla tavola e si avvicinava ad annusare: Vittorini ci aveva messo le mani e una specie di febbre mi attraversava gli occhi.«Sei sicuro di non voler fare correzioni?» ho chiesto per un’ultima volta. Loi mi sorrideva, ha alzato le spalle e mi ha congedato con un saluto che era una promessa, trasmettendo anche a me il suo stato di eccitazione. Non credeva che un libro potesse suscitare interesse nei lettori di sessant’anni dopo. Letto e riletto, però, il racconto acquistava forza: interessava eccome, sarebbe stato il miglior regalo per i suoi ottantacinque anni. Solo il titolo andava cambiato: da Diario di una medaglia d’oro a Diario minimo dei giorni, più immediato, meno esposto al rischio di essere scambiato per un soggetto post-resistenziale. Ora il testo è sotto gli occhi e le mani di tutti, cioè in libreria. Il frutto tardo di una giovinezza.”

tÈ sempre Giuseppe Lupo a raccontarci un altro romanzo, pubblicato sempre nella collana Novecento.0, quello di Carlo Bernari, dal titolo suggestivo “era l’anno del sole quieto”:
“Una storia che porta nella cittadina di Afragopoli. «Afragopoli? Controllo sulla cartina geografica: non esiste. Continuo a cercare, poi capisco che c’è un imbroglio».
Non ho conosciuto di persona Carlo Bernari, però ricordo una sua intervista in tv, quando racconta di come ha voluto diventare scrittore. Il padre cercava di fargli passare questa idea malsana, ma poi, vista la caparbietà del figlio, ha tentennato il capo e si è lasciato sfuggire: «Ho capito, vuoi inseguire colombi». Mi pare che avesse detto proprio così. Scrivere, per il padre di Bernari, voleva dire inseguire colombi, fare qualcosa di inutile e forse impossibile. Non so se Carlo Bernari ha inseguito davvero i colombi e non so se è riuscito ad acchiapparli. Però se uno chiede in giro di Carlo Bernari, il primo titolo a venire in mente è Tre operai: un romanzo pubblicato a Milano nel 1934 sotto l’ombrello protettivo di Zavattini (che a quell’epoca lavorava alla Rizzoli) e salutato con grande calore, nonostante sia arrivato in libreria in uno di quei tipici inverni lombardi, in cui il freddo non fa sconti. Sinisgalli ci parla di una serata memorabile, tra il gioco della pelota e le corse in automobile, in una delle cronache entrate nelle Pagine milanesi. E ci dice anche di un giovane arrivato da Napoli con una faccia troppo impacciato di fronte a queste feste, troppo disorientato dal clima e dal sentirsi fuori luogo. Ma la fortuna di Tre operai non si lega soltanto al felice esordio: in pochi avrebbero immaginato che sarebbe diventato un libro-cult, un libro-archetipo, da cui addirittura far cominciare la narrativa industriale. Che Tre operai sia l’opera di punta di Bernari e dunque la prima a venire alla mente, non significa però che sia l’unico romanzo da ricordare. Soprattutto non è l’unico che ha a che fare con il lavoro in fabbrica. Trent’anni dopo, nel 1964, proprio quando pareva che il Mezzogiorno potesse farcela a colmare il divario con le regioni progredite del Nord d’Italia, Bernari proponeva ai suoi lettori Era l’anno del sole quieto. M’incuriosiva il titolo: cosa succede nell’anno del sole quieto? All’inizio pensavo a una storia astronomica. Il che è anche vero, per una certa parte, anche se poi ti accorgi che è la storia di un intellettuale con la fissa di industrializzare una zona della Campania grazie a un’azienda chimica che egli stesso, sceso da Reggio Emilia, voleva impiantare nella cittadina di Afragopoli. Afragopoli? Controllo sulla cartina geografica: non esiste. Continuo a cercare, poi capisco che c’è un imbroglio: è uno di quei tanti toponimi che la fantasia meridionale inventa per dire le cose come stanno senza scomodare nessuno. Afragopoli è il luogo delle idee che non si realizzano, del municipio perennemente affollato da gente che chiede, chiede, chiede, ma non ottiene nulla. Soprattutto è il luogo dove il chimico reggiano incontrerà chi apparentemente si propone di aiutarlo, in realtà gli mette il bastone tra le ruote: Ci vogliono i timbri! Ci vogliono le firme sui certificati! Ci vogliono le autorizzazioni! Sembra don Abbondo che prende in giro Renzo. Solo che stavolta non c’è un Renzo di fronte a don Abbondio: c’è un intellettuale che si fida di Puntillo (questo è il nome del finto aiutante), lo ringrazia per i favori di cui egli si sente beneficiato (perfino una donna nel suo letto d’albergo!) e alla fine? Che può fare uno che non capisce l’indolenza meridionale? Che comprende a fatica il linguaggio della burocrazia? Era l’anno del sole quieto è un libro che non sarebbe sfigurato nel Pensiero meridiano di Franco Cassano, scritto una trentina d’anni dopo: ci sono diverse assonanze, pur nelle differenze, uguale è la visione di un Meridione in cui il tempo rallenta, la modernità si ferma e il concetto di civiltà va accettato per quello che è: qualcosa di adolescenziale e legnoso, indolente e vittimista. Oppure è una terra che va lasciata alla sua inerzia, va salutata dal finestrino di un treno e non guardata più. Il sole è troppo quieto oltre una certa latitudine. Stare sotto i suoi raggi può fare brutti scherzi”.
sLa casa editrice Hacca grazie sempre alla cura di Giuseppe Lupo ha ripubblicato anche il bel libro di Giovanni Russo dal titolo “L’Italia dei poveri”, uscito nel 1958 da Longanesi e poi nel 1982 da Marsilio. Enormi le differenze fra l’Italia (dei poveri) di allora e quella di oggi, ma anche, e lo diciamo con una certa inquietudine, tante le similarità
“Operai, contadini, emigranti, sacerdoti, prostitute, turisti sono i personaggi di questa Italia dei poveri. Giovanni Russo ci parla di un’Italia umile, costretta a muoversi in un orizzonte precario, ma non privo di speranza, e lo fa per dare luce ai volti anonimi di una nazione sommersa. Leggendo queste pagine, è come se una nazione che fino agli anni Cinquanta era stata prigioniera di un antico e pesante letargo, adesso si fosse destata per entrare in un destino di modernità. Ne viene fuori un quadro che non soltanto contempla la condizione del “mondo chiuso” di Carlo Levi, ma annovera anche luoghi e abitudini del sottoproletariato tanto cari all’immaginario di Pier Paolo Pasolini e da un Mezzogiorno, dove il tempo continua a scorrere con la sacralità dei patriarchi biblici, ci si proietta a grandi falcate negli scenari industriali che, volendo riferirci a personaggi letterari, riempiono di tristezza i ricordi di un Albino Saluggia, caricano di speranza le notti di Antonio Donnarumma o di fantasie i gesti di Marcovaldo. Mantenendo fede a un’idea di scrittura testimoniale, Giovanni Russo continua a fornirci un ritratto di un Paese ingenuo e stralunato, candido e smaliziato, incantato e perverso, com’era in quegli anni e come ha continuato a esserlo fino a oggi.”

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Nella collana Novecento.0 Giuseppe Lupo ha fatto pubblicare la favola visionaria di Raffaele Nigro “Dio di levante”, una bella invenzione, da “mille e una notte” di una Puglia magica.
Dalla bandella dello scrittore lucano riportiamo :
“È sempre difficile – lo era diciassette anni fa, quando Dio di Levante è venuto per la prima volta alla luce, lo è ancora di più oggi – concepire la narrativa quale estremo rimedio alla gran macchina del tempo che stritola e riduce tutto in polvere. Una letteratura da cliché impone regole spietate: la frantumazione dell’epica, l’apologia della cronaca, il destino degli individui quale discesa (senza ritorno) negli inferi. Eppure, per fortuna, non mancano esempi di scritture che anziché riprodurre la realtà, trasferendola pari pari nelle pagine dei libri, preferiscono reinventarla o riscriverla secondo le regole dell’epopea orale, secondo gli archetipi della tradizione omerica. Su questa traiettoria si dispone tutta l’opera di Raffaele Nigro, di cui Dio di Levante rappresenta un suggestivo tassello, a partire dal suo protagonista, Pomponio Cantatore, marinaio e cantastorie vissuto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, uomo avido di esplorazioni geografiche, perennemente a caccia di favole e di leggende attraverso cui colmare la solitudine della propria fame creativa. Durante la sua vita Pomponio visita luoghi lontani e sconosciuti (la Norvegia), incontra persone dal destino curioso ed eccentrico (come Cerasada, creatura nata dal tronco di un albero), si fa cantore e interprete dell’immenso bagaglio di memorie che proliferano sulle coste del Mediterraneo. Fino a quando, però, con il cambio di secolo, la civiltà dei miti segna il passo di fronte alla civiltà della tecnica che si fa strada con l’invenzione della macchina da presa. Sarà il figlio di Pomponio, Eolo Cantatore, a raccogliere il testimone del padre, a ereditarne il gusto per il racconto, fatto non più con le parole ma con i suoni e le immagini della nuova arte cinematografica. Intorno a questi due personaggi, in cui paiono fondersi l’etica della convivenza e le ambizioni della modernità, Raffaele Nigro realizza un polittico di straordinaria felicità inventiva e ci regala un romanzo che se da una parte coltiva l’idea della letteratura come utopia della storia, dall’altro restituisce il piacere di una scrittura poematica e coinvolgente, simile a una scorribanda nella fantasia.”

9208aa62-4922-4456-bef4-858ede6250cfA proposito della collana di Hacca Novecento.0 leggete questo bellissimo articolo/recensione dell’amico dei Diari, Lorenzo Mazzoni dal titolo “I terroni arrivano in città”.
La casa editrice Hacca ha appena ristampato un libro importantissimo, che ha fatto scuola negli anni ’50: “I terroni in città”, originariamente pubblicato da Laterza nel 1959, di Francesco Compagna. Il testo è uscito nella collana Novecento.0, che intende stampare e ristampare quel che di novecentesco è ancora stampabile, e guardare con prudenza e con attenzione al nuovo, a questo problematico primo decennio della letteratura italiana.I terroni in città racconta il Mezzogiorno d’Italia e la questione meridionale, racconta dell’emigrazione dalle campagne alle città, analizza dati e reazioni politiche all’esodo dei contadini del sud nelle città industriali del nord, un eldorado ancora vagheggiato ma già in declino, almeno psicologicamente, in pieno Miracolo Economico. Racconta di un Paese che non riesce a fare i conti con la propria industrializzazione, con la parcellizzazione dello sviluppo economico, racconta di differenze e similarità a livello popolare, racconta di letterati e intellettuali che inseriscono la questione meridionale come uno dei problemi e delle cose più importanti da sviluppare e da approfondire. Come scritto da Goffredo Fofi nella postfazione alla nuova edizione: “Leggere oggi I terroni in città riesce perfino a renderci nostalgici di una serietà che era di tanti, anche se operanti su fronti opposti, riguardo a fenomeni economici e sociali decisivi per il destino della nazione. Con la sua limpida scrittura, la sua arte della citazione, la coerenza delle sue posizioni, la sua capacità di documentare argomentare convincere, il saggio di Francesco Compagna ci restituisce l’immagine di un tempo migliore, che era per il nostro sciocco paese, un tempo migliore perché di lotta e di speranza”. E anche Ermanno Paccagnini nell’introduzione è della stessa opinione: “C’è davvero qualcosa di curioso in questo I terroni in città di Francesco Compagna, dal titolo al tempo stesso secco e accattivante. Ed è che poi, in tutto quanto il volume, quel termine ‘terroni’ non compare proprio mai. Non so se il titolo sia stato scelto dallo stesso autore o dettato da ragioni editoriali. Di certo è che si tratta comunque di un titolo che, ove non letto nella sua pienezza, può suonare tanto efficace e catturante, quanto restrittivo e depistante, quando invece davvero può ben darsi come pienamente esaustivo delle problematiche di fondo affrontate”.

Francesco_CompagnaFrancesco Compagna, meridionalista e geografo italiano, è nato a Napoli il 31 luglio del 1921 da una famiglia di baroni proprietari di terre in Calabria. Dopo la laurea in Giurisprudenza, prosegue la sua formazione culturale, civile e politica presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici fondato da Bendetto Croce e diretto da Federico Chabod. Collaboratore del Mondo di Pannunzio, nel 1954 fonderà e dirigerà per tutta la vita la rivista mensile Nord e Sud. Fin dall’inizio al centro dei suoi interessi storici, politici e culturali c’è il Sud d’Italia con la sua storia, la sua tradizione e il suo territorio. Sulla scia di Salvemini, Compagna critica la piccola e media borghesia meridionale per il suo atteggiamento oscillante tra qualunquismo, giacobinismo verbale e nazionalfascismo. Mentre la lezione di Croce gli consente di collocare la sua lotta meridionalistica nella tradizione risorgimentale, la lezione di Salvemini lo induce all’analisi dei problemi concreti, e quella di Saraceno e Rossi-Doria lo inducano a tradurle in indirizzi di governo e in interventi politici concreti. Nel 1959 con la pubblicazione di I terroni in città, Compagna delinea chiaramente le sue prospettive di analisi relative ai problemi del territorio e delle città, indicando nella funzione terziaria di queste ultime la possibilità di favorire le allocazioni industriali nei pressi dei centri medi e minori, in modo tale da evitare la formazione di megalopoli ingestibili. Deputato dal 1968 per il Pri, è stato ministro dei Lavori Pubblici e della Marina Mercantile, nel corso della settima e dell’ottava legislatura, e sottosegretario alla presidenza del Consiglio del gabinetto Spadolini (dal 1981). Tra i suoi scritti, oltre a “I terroni in città”, “L’Europa delle regioni” (1963), “La politica della città” (1967), Mezzogiorno in salita (1980).

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A proposito di Lorenzo Mazzoni. Lunedì 20 novembre sarò alla Mondadori di via D’Azeglio a Bologna a presentare il suo ultimo libro. Dopo il romanzo “Quando le chitarre facevano l’amore”, presentato ai Diari il 16 gennaio del 2015, Lorenzo Mazzoni regala ai suoi lettori sempre per la casa editrice di Santa Maria Capua Vetere, Edizioni Spartaco, “Il muggito di Sarajevo”, sempre per la collana Dissensi.
Anche qui un’altra carrellata di personaggi unici, protagonisti di una storia cruda, toccante, avventurosa, grottesca, dall’ipnotico ritmo grunge e che racconta proprio la fine del Novecento.

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Nata per essere assediata. È così che si sente Amira, diciotto anni e un grande sogno da realizzare nella città di Sarajevo del ’93, lacerata dalle rappresaglie tra serbi e bosniaci. Il cuore della suonatrice di cigar box guitar batte all’unisono con i colpi di mortaio e le raffiche di mitra, ma Amira canta la sopravvivenza, la speranza. Della band Senza Strumenti fanno parte anche il colonnello Mustafa Setka, mago del basso, e il gigantesco ballerino di kolo, Masne, alle percussioni. I due, per tutto il giorno, seguono Jack, meglio conosciuto come Mozambik l’irlandese, fidanzato di Amira, spacciatore. All’occorrenza, Jack si offre come guida agli inviati di guerra che affollano l’Holiday Inn semidistrutto. Così conosce Carlo e Oscar, due fotoreporter italiani che inseguono uno scoop davvero straordinario: tra macerie e bombe, intendono trovare una vacca indiana che si dice abbia poteri da chiromante. Sarà per caso la Zebù gir che il vecchio Ivan nasconde nella corte interna del suo negozio di tabacchi, adattato a fumeria d’oppio dopo l’inizio del conflitto? Del resto, non è la sola ospite che il commerciante cela a sguardi e orecchie indiscrete. In uno sgabuzzino è segregato, infatti, un serbo fuori di testa che, dopo una scorpacciata di funghi allucinogeni, si è ritrovato al di là delle linee nemiche. Lo scopo di Ivan è rispedirlo al mittente in cambio di un riscatto, da chiedere a un oscuro cecchino dei servizi segreti serbi, che trova la concentrazione solo canticchiando le hit di Barbra Streisand. Niente a che vedere con i Nirvana di Kurt Cobain, che Amira ha scoperto grazie a un lontano cugino olandese, di origine bosniaca, diviso tra rock e fede religiosa da quando ha abbracciato l’Islam in prigione.

Nello Zaino di Antonello: Storie dal Novecento