di Andrea Cabassi

Andrea Cabassi

 

 

 

 

 

IO ERO SEMPRE UNO DI PASSAGGIO

Recensione al libro di JORG FAUSER, “Materia prima

(L’orma editore)

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Nell’anno 1961 uscì in Italia il libro di Uwe Johnson “Congetture su Jacob” (Feltrinelli. 1961), uno dei libri che aprì la strada alla nuova narrativa tedesca. Era un libro difficile, molto difficile, di difficilissima traduzione. La traduzione venne affidata a Enrico Filippini. Traduzione sensibilissima  “eseguita a rotta di collo da Enrico Filippini, il quale si era affrettato- dopo aver perso il manoscritto della prima stesura- a costruire una seconda versione chiamando in aiuto l’autore” (“Nazione indiana”. 30 gennaio 2010). Un libro che provocò polemiche, discussioni, giudizi molto diversi, anche tra i critici. Uwe Johnson, come Peter Handke, Ingeborg Bachmann, Boll e altri, apparteneva al Gruppo 47. Il gruppo era nato a Monaco di Baviera nel 1947 e si sarebbe sciolto nel 1967. Il suo intento era quello di far risorgere la cultura tedesca dopo la guerra e dopo il nazismo. Sperimentalismo, impegno, grandi scrittori. Che vissero, poi, l’esperienza della divisione della Germania e del Muro. Ma: “Il Gruppo 47. Con quello che scrivevano loro non avevamo niente da spartire”. Parola di Jorg Fauser. Lo afferma nel suo libro “Materia prima” (L’orma. 2017. Pag.47). E potrebbe stupire che lo scriva un uomo come Jorg Fauser che, nella sua vita, attraversò la contestazione studentesca, fondò riviste underground, passò attraverso diversi sperimentalismi letterari.  Ma chi è, chi era, chi è stato Jorg Fauser?

JORG FAUSER1Come si diceva più sopra Fauser fu scrittore, fondatore di riviste underground, uomo che si confrontò con la Beat Generation, paroliere di successo per alcune canzoni del musicista rock Achim Reichel, che è stato avvicinato, per la sua sperimentazione musicale, a gruppi rock tedeschi molto importanti come i Kraftwerk e i Tangerine Dream. Gruppi che noi, cultori del rock sperimentale, seguivamo con grande attenzione tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli ottanta. Soprattutto è autore di un libro di culto. Il libro è “Materia prima”, pubblicato ora per la prima volta in Italia dalla casa editrice “L’orma”. La casa editrice ha una collana, Kreuzville, che pubblica autori di lingua tedesca e che, molto spesso, li ha fatti conoscere per la prima volta nel nostro paese. Ha, poi, un’altra collana, Kreuzville Aleph che pubblica importanti autrici e autori francesi e tedeschi, tra i quali  Uwe Johnson e Jorg Fauser.

“Materia prima” è ottimamente tradotto da Daria Biagi che ci regala una preziosissima post/fazione intitolata “Un’altra scuola di Francoforte: gli anni settanta di Jorg Fauser” in cui, non solo ci spiega le difficoltà della traduzione e i modi in cui ha affrontato tali difficoltà, ma allarga il quadro dando un giudizio complessivo molto profondo sull’opera aiutandoci ad interpretarla. Va aggiunto, per inciso, che esiste anche un altro libro tradotto in italiano di Fauser, che è un noir da cui è stato tratto  un film, “L’uomo della neve” (Marcos y Marcos. 2005).

Ad alimentare il mito di Fauser è pure la sua misteriosa morte. Il 17 luglio del 1987 muore, dopo aver festeggiato il suo compleanno. È investito e ucciso da un camion mentre attraversa a piedi l’autostrada Munchen-Riem, alla periferia di Monaco. Doveva incontrarsi con alcuni informatori per una indagine sui rapporti tra spaccio di droga e politica? Era ubriaco? Non lo sapremo mai. Ma colpisce una pagina in “Materia prima”, una pagina che, anche se ambientata dalle parti di Francoforte, sembra avere un sapore profetico: “Lo Schmales Handtuch si ergeva di traverso sul lato opposto, all’angolo con la Wittelsbacher Halle. Sì, la piccola insegna gialla della Binding era illuminata e io affrettai il passo. Si doveva stare attenti, nel senso che qualche bevitore più assettato del solito con gli occhi fissi alla luminosa meta, era già stato travolto da un tram, e poi via, una corona di fiori, e al cimitero di Bornheim il prete aveva avuto occasione di dire un paio di cosette a quelli che erano andati al funerale. A me una cosa del genere non poteva capitare, comunque, si sa che queste robe toccano sempre agli altri” (pag. 187). Toccano sempre agli altri, ma quel 17 luglio…

“Materia prima”, considerato dalla critica uno dei romanzi tedeschi più belli del dopoguerra, è un’opera fortemente e volutamente autobiografica. A volte diventa difficile distinguere tra il sarcastico e ironico Harry Gelb e Jorg Fauser, tra il narratore e l’autore.

La materia prima è quella che il narratore/autore cerca ironicamente e disperatamente per costruire la sua opera letteraria. Per cercarla vagabonda tra Istanbul, Gottinga, Berlino, Vienna, Francoforte. Dice di sé: “Io ero uno sempre di passaggio” (pag. 77). Di passaggio da una nazione all’altra, da una città all’altra, da una Comune ad una casa, da una casa all’altra, alla ricerca di una Heimat introvabile, alla ricerca di un Altrove che è il segno di una profonda inquietudine che nessuna ironia, nessun sarcasmo riuscirà mai a placare. Un Altrove che, forse, non esiste che, forse è qui, davanti a noi, ma non lo sappiamo vedere perché siamo tutti affetti da presbiopia.

Per Fauser trovarsi a casa, trovare radici è complicato: “Sapevo però che non era questa vita casalinga che cercavo o che mi mancava, bensì un contesto nuovo, perché dove c’era quello mi sentivo a casa… “(pag. 186).

Harry Gelb alias Jorg Fauser cerca la sua materia prima nella ricerca di un lavoro e quei lavori che troverà avranno sempre una durata effimera. È alla ricerca di una scrittura sua che non può essere quella del Gruppo 47, è alla ricerca di editori, spesso improbabili, che lo pubblichino, è alla ricerca di un senso della vita, pur sapendo dentro sé stesso che un senso non ce l’ha (per parafrasare una nota canzone di Vasco Rossi). In questa ricerca incontrerà la scrittura e la vita degli uomini della Beat Generation, incontrerà, a Londra, William Burroughs, incontrerà la tecnica del cut/up di cui si parlerà più avanti. Eppure in mezzo a questi incontri fatti di bevute, oppio, donne, capita di trovarsi davanti a citazioni di classici come Algren, Dostoevskij, Faulkner, autori maledetti, ma che ormai sono diventati  dei classici, come Fallada. 

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Se una Heimat c’è è Francoforte, la amata e odiata Francoforte. Non è la Francoforte della famosa scuola di Adorno, Marcuse, Horkheimer. È una Francoforte notturna piena di osterie, bettole, di ubriachi, drogati, donne disponibili: “Passammo accanto ai cinema, alle balere, ai lavori in corso e ai bordelli, fino al punto in cui lo Zeil si restringeva e diventava più squallido, e lampioni molto più flebili illuminavano i negozi di antiquariato, i negozi di jeans, le botteghe di occasione, i rivenditori di tappeti, fino al punto in cui il chiosco di alcolici della Friedberger Anlage segnava la fine del viale, gli ultimi metri della city” (pag. 165).  È una Francoforte che, nel corso degli anni, si trasforma per dare sempre più spazio alla costruzione di banche, preludio a cosa sarebbero stati gli anni ottanta in tutta Europa. Più di un decennio viene descritto nel libro: quello che va dalla fine degli anni sessanta alla fine degli anni settanta.  Quel decennio in cui, ragazzini, poi diventati adulti, credevamo in Che Guevara, nel mito delle rivoluzioni più o meno libertarie. Fu il decennio  delle utopie, dei grandi slanci ideali, ma anche  dei conformismi di sinistra e dei suoi rituali sui quali Fauser, giustamente, ironizza. Ma furono, anche, gli anni in cui gli amici, ripiegati gli ideali come bandiere che non potevano più garrire al vento, cominciavano a morire di eroina e nell’hinterland milanese c’erano le ronde di Re Nudo e quel nuovo soggetto politico che si chiamava Proletariato Giovanile che andavano alla caccia di spacciatori di droghe pesanti. Furono, anche, gli anni della violenza e in cui si affacciava all’orizzonte il terrorismo. E, non è un caso che, in più parti del libro, si citino Andreas Baader e Ulrike Meinhof. E, fra chi leggerà queste note, ci sarà qualcuno che, sicuramente, ricorderà la morte di Ulrike Meinhof nel 1972, dopo uno sciopero della fame in carcere, impiccatasi o impiccata secondo gli esiti di alcune indagini. Altri ancora ricorderanno il tragico epilogo della vicenda dei militanti più importanti della Rote Arme Fraktion, tra cui Andreas Baader, suicidatisi nel carcere di Stammheim nell’ottobre del 1977 secondo la versione ufficiale sulla quale molti dubbi si addensarono da subito. E nessuno potrà dimenticare il rapimento e l’omicidio Moro nel 1978, che concluse un ciclo e i 70 con due anni di anticipo. Poi vennero gli orribili ottanta, quelli preconizzati da Fauser quando descrive i mutamenti in Francoforte. Con gli ottanta venne l’elogio della corruzione, la critica di ogni tipo di moralità, la Thatcher, l’edonismo reaganiano, la caduta degli ideali, le TV commerciali. (Per questo temi è utilissima la lettura del libro di Paolo Morando “’80. L’inizio della barbarie. Laterza. 2016).

Ci sono pagine, nel libro, che prevedono tutto questo e lo mostrano in una Francoforte in continua evoluzione. Ci sono pagine ironiche sui vezzi della sinistra e critiche altrettanto ironiche sugli autori che molto amammo negli anni settanta come Grass e Boll o registi che, anch’essi, molto amammo e che avevamo conosciuto attraverso le rassegne dedicate al nuovo cinema tedesco. Per Fuser tutti personaggi che erano diventati o sarebbero diventati funzionali al sistema.

Non c’è in Fauser alcuna nostalgia da reduce della sinistra. L’unico vero personaggio rivoluzionario, molto ben delineato, è il greco Dimitri che ha vissuto la dittatura sulla propria pelle mentre gli altri sembrano giocare alla rivoluzione. Dimitri sa che le rivoluzioni non sono una festa. Mai. In questo ricorda un altro greco di un altro straordinario libro: “La quarta parete” di Sory Chalandon (Keller. 2016). Dimitri è simile a Samuel Akunis, anch’egli regista, anch’egli scappato dalla Grecia dei colonnelli. Come Dimitri, Akunis sa cosa vuol dire la dittatura perché l’ha vissuta sulla propria pelle. Aborre i facili paragoni. Cerca di spiegarlo al suo amico studente, cerca di fargli comprendere la diversità delle situazioni politiche e dei momenti storici. Odia le semplificazioni e non sopporta chi gioca a fare la rivoluzione. Un personaggio indimenticabile. Come lo è Dimitri. Affratellati da un medesimo destino.

L’anarchico Harry/Jorg passa attraverso le lotte, ne condivide gli ideali, ma a nessun gruppo appartiene o vuole appartenere, non vuole in nessun modo fare parte del sistema, tanto meno a quello della sinistra istituzionale rappresentato dalla SPD per le cui organizzazioni giovanili aveva simpatizzato.

Fauser è affascinato dalla tecnica del cut/up,  spesso utilizzata da William Burroughs e da altri scrittori e poeti della Beat Generation, ma, in realtà, utilizzata per la prima volta dai dadaisti. Si tratta di una tecnica in cui si taglia fisicamente un testo scritto, ma lasciando intatte le parole e le frasi che vengono mischiate ad altri frammenti. Questa mescolanza da vita ad un nuovo testo che, pur non avendo un filo logico o senza seguire la corretta sintassi, mantiene un senso logico altro. Fauser ne è affascinato, ma si ha l’impressione che nutra una certa ambivalenza nei confronti di questa tecnica e che ne faccia un utilizzo del tutto personale. Basti leggere le splendide pagine dedicate a Istanbul. Sembrano una enumerazione e, invece, hanno una grande forza evocativa e poetica: “C’erano i piccioni, i gabbiani, c’erano le grida dei bambini, e a volte anche il raglio testardo di un somaro. C’era il fragore del traffico, i milioni di clacson fra la Moschea Blu e Beyoglu, tra Scutari e Kadikoy, le sirene delle navi, le sirene delle fabbriche, le sirene antinebbia, i treni che lasciavano Sirkeci. C’erano i cinquecento altoparlanti delle moschee, attraverso cui le voce dei muezzin chiamavano alla preghiera persino il vento. C’era il vento, che nonostante il sole di ottobre portava già con sé il primo presagio del gelo invernale. Il miagolio insistente delle gatte in calore si mescolava ai fiochi richiami di adescamento delle puttane zingare, e il tamburello con cui facevano ballare l’orso si sovrapponeva alle pubblicità radiofoniche della Coca-Cola e del Dixan. Da mille stanze miseramente illuminate, da locande e nascondigli mi investiva la pericolosa malinconia del blues anatolico, il caz, che sembrava ripetere: Che cosa è la vita? Gettala via e non avrai perso nulla” (pag.73-74). Già! Del resto, come cantavano i Perigeo qualche anno fa, “abbiamo tutti un blues da piangere”. Poi cos’è la vita? Questa è la domanda che percorre tutto il libro e che va oltre l’ironia, il sarcasmo, la satira. Che rapporto esiste tra la scrittura e la vita?  E, in questo rapporto, qual è il destino dell’outsider dell’outsider, in qualche modo un outsider raddoppiato? Si leggono queste pagine e si pensa ad Arthur Rimbaud e ci si domanda se entrambi abbiano avuto momenti felici, ci si domanda se il prezzo che è stato pagato alla letteratura sia stato troppo grande. Perché il prezzo è molto alto quando a pagare è il corpo, la nuda vita. E, allora, come si domanda Harry/Jorg, si scrive per illudersi? Cosa avrebbero fatto Rimbaud e Fauser se fosse stato puntato loro un revolver alla schiena e fosse stata pronunciata la fatidica frase “O la scrittura o la vita”?

Walter Benjamin diceva che la speranza è data solo ai disperati. Era disperato Jorg Fauser?

Di certo in “Materia prima”,  per uno come lui,  che è sempre e solo di passaggio, c’è sete di vita, letteratura, senso. 

 

Lo scaffale di Andrea: Materia prima
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