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Allora lo sfondo non può che essere Napoli. – mi dice Ivano Porpora.

Manzoni bagnò i panni in Arno; io ogni tanto m’immagino di essere uno scrittore di un luogo diverso per capire se stilisticamente quella letteratura, o quel ritmo, o quella lingua, abbiano da suggerirmi qualcosa. Una parte di Nudi ha uno stile diverso perché portata in Francia, ma Verano – che sempre in Francia sta, ma è spagnolo – risuona della provincia da cui proviene. Le letterature slave mi hanno sempre aiutato molto, anche stasera mi chiedevo: come mi assisterebbero loro? Che gusti mi farebbero notare, che odori?

Quindi la risposta non può che essere: Napoli, uno di quei posti vagamente ricchi in cui chiunque vada a prendere un caffè ma solo gli sciamannati e i possidenti si fermano al tavolino a perdere tempo.

Una grande arte, perder tempo.

Così sia: io e Ivano Porpora, come due sciamannati a sorseggiare un caffè, perdendo tempo con grande arte, mentre sfogliamo “Nudi come siamo stati” (Marsilio). Se avete tempo, ma soprattutto l’arte di perderlo, sedetevi con noi che cominciamo a chiacchierare.

3172668Nudi come siamo stati“, il titolo del nuovo romanzo di Ivano Porpora, pubblicato per Marsilio, in un anno di intensa attività: Una raccolta di parole a capo per Miraggi, dal titolo “Parole d’amore che moriranno quando morirai“; una storia per bambini, illustrata da Turk e pubblicata da Corrimano, “La vera storia del leone Gedeone” sul finire del 2016; e “Fiabe così belle che non immaginerete mai” per LiberAria nel 2017 a pochi mesi dal romanzo “Nudi come siamo stati”. 

C’è un filo che collega tutti questi titoli, bellissimi e poetici, o il fatto che si siano concentrati in libreria uno dopo l’altro è una semplice coincidenza fattuale? Ricordo che il tuo precedente romanzo, edito da Einaudi, “La conservazione metodica del dolore” è del 2012.

Poesia, infanzia, fiaba e romanzo: in ciascuna opera sperimenti una diversa destinazione, o invece sono destinati tutti allo stesso lettore ideale che ti siede accanto quando scrivi, se mai Ivano Porpora ce ne ha uno? “Nudi come siamo stati” è un ritorno alle origini della tua scrittura, oppure il fatto che sia l’ultimo delle tue pubblicazioni è una casualità?

 

22279855_10156213140514672_6320330965927999089_nInteressante. 

Allora. Al momento “Nudi come siamo stati” la ritengo la summa di quanto ho scritto. Non tanto per qualità di pubblicazioni, benché sì, veda ovviamente il processo di maturazione nella scrittura; quanto perché è una sorta di riassunto di chi sono, il tentativo di far gemmare una serie di storie e modalità di raccontarle che trae anche abbondante spunto da ogni altra pubblicazione. E in questo sì, diventa la storia del giorno per il lettore che mi si sieda accanto, mentre ogni altro libro che non sia romanzo è una sorta di conforto, di favola della buonanotte. È quasi come se dicessi: di giorno ti turbo, di notte ci rilassiamo insieme.

Nudi, per me, è un riassunto di chi sono io – un riassunto coerente che trae spunto da ogni incoerenza. Molti hanno visto in me Severo, ma questo è limitante: l’autore non è il personaggio, quanto i gangli narrativi che vanno a risolvere la storia. Io sono Anita, sono Arsène, sono Armando che trama nell’ombra; sono i vari personaggi e le loro interazioni. E certo, sono quel gigante che cerca di acquistare consistenza e si confronta con la propria supponenza.

Le poesie sono il mio lato sensuale, di senso, che è confluito nelle pagine del romanzo e che lì trova essenzialità; non a caso quando rileggo le poesie, o ne scrivo di nuove, mi stupisce sempre lo spaccato di vita che una relazione va a creare. Le fiabe per adulti, così come Gedeone, sono in fin dei conti la risposta a Moretti quando dice che è sempre tempo per una commedia. Questo è sicuramente vero, ma come è vera quell’affermazione, è anche vero che il momento in cui abbiamo bisogno di una fiaba è il momento in cui dobbiamo prestare attenzione. In fin dei conti, pensa: se abbiamo bisogno di lenire delle ferite vuol dire che da qualche parte quelle ferite si sono create, o aperte. Non è un caso che abbia scelto di scriverne una al giorno – nacquero come esperimento su Facebook – e che non mi sia interrotto quando la minaccia del terrorismo mostrò il suo lato più spaventevole per noi al Bataclan: non sono dell’idea che lo spettacolo debba sempre andare avanti, ma che a volte lo spettacolo serva per andare avanti, o – meglio ancora – per interpretare la nostra progressione nel tempo.

Sulla coincidenza fattuale, infine, non credo. Di fatto hanno cooperato due fattori: esser stato fermo per tanto, e aver voglia di vedere il mio nome in libreria, e esser stato fermo per tanto e aver bisogno di dire. Il mio professore di religione diceva che puoi fare una sola cosa per bene nella vita, e le altre sono collaterali. Ora che è morto sto cercando di dimostrare che avesse torto.

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Anche io come i molti lettori di cui parli ti avevo visto con una certa urgenza in Severo, per poi essere spiazzata nel finale, e non dico il motivo perché le ultime pagine sono esclusive del lettore, e nessuno può rivelarle, ma spiego solo l’effetto che hanno avuto. Come se Ivano Porpora, solo alla fine della storia, avvertisse il lettore, che aveva creduto di sentirlo DENTRO la storia, che in realtà lui era ACCANTO, a guardare con immedesimazione piena nei diversi personaggi, il baratro che la scomparsa, la perdita, la malattia riesce a scavare in ogni animo, disegnando con ferite e cicatrici una mappatura diversa per ciascuno. Accanto al lettore a sentire la potenza e la frustrazione dell’essere e del voler essere un artista.

Perché alla fine, tra i tanti, forse Severo è il personaggio che più rimane oscuro, di cui conosciamo i gesti ma non le intenzioni, le parole ma forse non interamente i sentimenti. Ma questa sensazione, invece che allontanarlo, lo rende umanissimo e quindi più empatico di Arsène, che rimane chiuso e solitario nel fascino che emana e promana dalla sua arte.

Dei due chi è il vero artista? Perché “Nudi come siamo stati” è anche il racconto di un’amicizia artistica, fatta di pennelli disegni e parole. Ma a volte ho avuto il sospetto che Severo si dedicasse alla pittura solo per incontrare Arsène a un bivio della sua storia, così come non abbia voluto essere uno scacchista solo per allontanarsi dall’ingombro della figura paterna.

Chi è in realtà Severo?

 

12798855_10154152216669672_375246592059300907_nSevero è un uomo. Questa credo sia la sola risposta.

Mi affascinano molto le persone che cercano. Severo è una figura che cerca ma non sa di essere in cerca; anzi, quando si accorge del disegno troppo più grande di lui ne rimane sommerso. E scopre solo in quel momento che le macerie del tempio lo sovrasteranno se non smetterà di agire da bambino in corpo di uomo e non diventerà uomo.

Se ci pensi Severo è amante, è innamorato, è una persona viva ed è pure un artista, ma fallisce in ognuna di queste quattro cose perché non sono interrelate tra loro. Non puoi essere artista senza amare, non puoi essere amante senza essere persona; potrai trasmettere parti del tuo corpo ma non il tuo corpo intero, che è quello che viene percepito. Quando decide – di fatto – di abdicare alla vita per muovere verso l’arte il fallimento di Severo sta nel non essere né persona né artista; in quel senso le vessazioni di Arsène diventano un modo per salvarlo come singolo, e non per formarlo come pittore. Ognuno di noi è libero di scegliere ma nel momento in cui è libero di scegliere: se la gamma delle tue scelte è limitata – da una malattia, da una serie di costrizioni delle quali molto spesso non siamo consapevoli – si sviluppa la libertà condizionata all’interno di un regime di vessazione. 

Arsène in quello è violento: non consente a Severo scappatoie per mostrargli le pareti della gabbia. Poi, se vuole uscire o meno è volontà di Severo; ma – questo si capirà nel libro e non voglio spiegarlo qui – Arsène ha anche un secondo motivo, personale, perché Severo si liberi, ossia: perché poi liberi lui. Sono, se ci pensi, due detenuti che si sopportano poco ma che dicono: fin quando avremo bisogno di noi ci aiuteremo. 

Se poi mi chiedi chi dei due sia il vero artista, la mia risposta è senza dubbio Arsène. Non perché Severo non lo sia, ma perché non lo vuole essere. Avere a che fare con l’arte richiede una quantità di energia che non tutti abbiamo voglia di liberare. Liberare energia richiede impegno, ma anche conseguenze. Siamo sicuri di volerle sempre accettare?

Io, in quanto alla mia presenza nel libro, posso solo dire che è stata totale. Nel senso: il libro dava molte più spiegazioni, fin quando a un tratto mi sono chiesto: ma chi se ne importa se so le cose? Chi vuol vedere quanto sono bravo? Se scrivi solo per far vedere che sei bravo, meglio che ripari frigoriferi: la tua bravura avrà una ricaduta fattuale sul mondo. Non scrivo per mostrare la mia bravura, ma per lasciare tracce, orme; perché la gente chiuda il libro e dica: Ah.

Quando un lettore dice: Ah, sono contento. Anche perché echeggia il mio, di Ah. 

Nudi come siamo stati

Ti confesso, Ivano, che non ho aspettato di chiudere il libro per dire Ah, ma mi sono bastate le prime pagine, quel morire dentro che già più volte mi ha colpito, pronunciato dal narratore e che è riecheggiato dentro di me, come un’eco che va a infrangersi negli inferi di noi stessi, e che ti mettono a nudo, ma ancora di più ti fanno sentire nudo.

Tra Severo e Arsène c’è Anita, figura incisiva ed evanescente. Forse quella più a nudo nel libro, per chiarezza di gesti, per essenzialità di parole, per il suo stare che è un esserci o, senza infingimenti, non esserci.

“Nudi come siamo stati” è una storia d’amore, lancinante e penetrante. In quel “noi” del titolo è inclusa Anita? è legato al titolo uno dei passaggi tra i più belli del romanzo?

Cosa rimane di noi? questa era la domanda, porca troia.

Cosa rimane di noi dopo che tutto quanto se n’è andato, dopo che la marea ci ha lasciato i detriti e portato via quello che chiamavamo amore?

Cosa rimane di Anita?

 

galleria2017071510275600_1Mi è stato detto che i miei personaggi femminili sono stereotipati.

Trovo la critica ingenerosa, e la trovo principalmente per Anita – a mio modo di vedere, l’unico personaggio coerente nel tempo.

Danilo Kiš nei suoi “Consigli a un giovane scrittore” (e tutti siamo giovani scrittori al suo cospetto) dice: Guardati dalla terrificante coerenza.

E Anita è meravigliosamente coerente nei suoi principi, e per questo incoerente nel comportamento; ama un solo uomo, riamata, anche quando il solo uomo si scambia di posto. Severo è un gigante caduto, Arsène un nano divenuto gigante; nello scambio che avviene tra loro accade anche uno scambio di funzioni e di fronte a questo lei non può restare indifferente.

È pericolosa, l’arte, per Severo. Gli prende la mano, lo porta in una spirale dalla quale non riesce più a uscire. Chi è entrato in un loop artistico lo racconta, dell’incapacità di uscire dal proprio lavoro. In un dialogo con un’amica lo chiamavamo il piano -11, una sorta di mondo sotterraneo che riconosci quando ci sei e che quando non ci sei non ti risulta attingibile.

Qualcuno lo nega, perfino. Severo no, e questo è il suo pregio: non accettare mai, nemmeno per un momento, la propria condizione. Da questo sottile punto di vista Severo mi è più vicino che non Benito, il protagonista del romanzo precedente: Benito aveva bisogno di un motore che era Angela, Severo non accetta, ci prova.

Questa sarebbe la lapide che vorrei per me: Ci ha provato.

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Questa è una storia vera.

Sono le prime parole di “Nudi come siamo stati”. Qual è la verità del romanzo e quale tipo di verità esiste in letteratura?

 

12806027_10154152216654672_5784462227731470042_nAllora. In questo mi dico oltranzista: la letteratura è vera o non è. Nel momento in cui la letteratura si cura soltanto della parte di divertimento, senza la passione personale, diventa una sorta di divertissement, un gioco intellettuale con cui non voglio avere a che fare.

La verità del romanzo è sempre in parte autobiografica, ma si tratta di un’autobiografia nascosta: atti e tratti di una persona che non sono noti a nessuno o che la persona, al computer, si confessa e confessa agli altri imputandoli a qualcuno che per quegli atti e fatti non pagherà conseguenze all’autore imputate.

Un po’ di tempo fa ho pensato a cosa succederebbe, per esempio, se potessimo uccidere qualcuno a tempo determinato e poi portarlo in vita. Chi uccideremmo? Saremmo davvero contrari all’omicidio se questo significasse levare di torno per un po’ e senza ulteriori conseguenze qualcuno? Questi dilemmi nei romanzi vengono provati, e vanno ad accumularsi in una sorta di confessionale nel quale pensieri, parole, opere e omissioni si equiparano. A tutto questo si aggiunge la bugia che è una connessione tra questi elementi; ossia: un tratto di fantastico che fa sì che una struttura causale li concateni.

Ma dire per me: Questa è una storia vera, come nel romanzo precedente dire: Qui io, equivale ad assumermi una responsabilità. Dire: tutto quello per cui avete pagato non lo pagherete solo col denaro, con i 18 euro sborsati per il romanzo, ma anche con la presenza. E io la mia presenza, totale, vi offro.

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Siamo all’ultima domanda, Ivano.

Un romanzo tripartito, in cui le tre parti sono strettamente concatenate: Mi chiamo Severo (che occupa poco meno della metà del romanzo); L’estate di Collobriéres; A. non c’è. 

La narrazione è condotta con passo alterno tra il presente e il passato. Ma è proprio attraverso l’uso del passato che il romanzo si mette in sintonia e in intimità con il lettore. Lo stesso che avviene nel titolo: non nudi come siamo, più difficile da accettare, ma Nudi come siamo stati, e in quello scarto temporale l’esperienza si generalizza. Tutti lo siamo stati, a nostro modo, nudi in un tempo qualsiasi; mentre è più difficile credere che tutti siamo nudi nello stesso momento.

A me sembra che l’uso dei tempi verbali, così accorto e sentito, nel romanzo, sia il mezzo con cui tu arrivi a denudare il lettore e a metterlo faccia a faccia con i tuoi personaggi.

Qual era, invece, la tua intenzione nell’uso così sapiente e accorto dei tempi verbali?

 

porpor3_nQuesta domanda mi fa molto ridere.

Il 25 febbraio avevo l’accordo con l’editore per la consegna del romanzo, che era già stato rivisto e per il quale era stato dato il via libera. Restavano due cose da sistemare – ripetizioni, piccoli dubbi. Solo che mi sono accorto che, leggendo, non avevo voglia di andare avanti; che la storia mi piaceva ed era interessante, ma il modo non tornava. Né sapevo dove sbattere la testa.

Il 1 febbraio, quindi – solo tre settimane prima della consegna finale – ho riscritto tutti i tempi verbali della prima parte, che hanno richiesto, come è facile immaginare, anche lavorare a ellissi, ripulire, risistemare.

Di fatto, il romanzo ha richiesto un ultimo parto, definitivo, o forse la sola parte del parto in cui il nascituro per evitare l’osso pubico è forzato a chinare la testa. Non è solo una questione di tempi, e quindi di stile: portare la prima parte al passato remoto mi ha costretto a stare legato ai fatti, ad ascoltare più attentamente la voce di Arsène, ad applicare a me quanto chiedeva lui, e (cosa ancora più forte, a mio parere) a cambiare tutte le opere d’arte elencate nella stesura. I dipinti che Severo realizza sono stati in parte modificati, ogni opera di Arsène (fatta eccezione per l’albero e per gli studi sullo spazio, i cui nomi ora mi sfuggono) sono stati totalmente modificati perché non rientravano nell’essenza del dialogo. Era come se il dito del pittore francese puntasse qualcosa, e io nell’attenzione al dito avessi dimenticato il qualcosa. Quando mi sono accorto di quanto avevo fatto mi sono detto: Oh mio Dio.

Sia per la grandiosità dell’impresa, sia per la sconsideratezza: rivedere così a fondo un libro di fatto già accettato ha messo a rischio tutto. Ma “Nudi come siamo stati” nasce come rischio, cresce come rischio, incorpora il rischio anche nel titolo: è un libro dal quale non esci a metà, non credo si possa legittimamente dire: Non ti tocca. Può avere difetti, ma che non tocchi, no, quello non lo posso credere.

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Arsène direbbe che ti sei fatto la domanda giusta, e hai risposto con un’architettura temporale che non solo tocca, ma mette a nudo il lettore. C’è tocco più profondo di quello su un corpo nudo?

Mi concedo un’ultima domanda:

Chi è quel “noi” sottinteso nel titolo? riguarda i personaggi del romanzo e quali, oppure si rivolge direttamente ai lettori?

 

20663961_1716647088630804_1865061387836283322_n1Noi siamo noi. Noi tutti.

Noi è lo sguardo in macchina di Arsène, la quarta parete che crolla; o lo sguardo in macchina mio, che dico: Io e te, vieni, non ti farò del male.

Questo in fin dei conti è il compito dell’artista: riferire della ferita, perfino portare la persona sui lembi della ferita, senza farle sentire fino in fondo l’entità della ferita. Questa si chiama delicatezza. E la delicatezza, se ci pensi, già in sé presuppone un noi.

 

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Chiacchierando con… Ivano Porpora
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