di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

Il salto. Elegia per un amico, Sarah Manguso

Letture. Prosegue il viaggio di Alice Pisu nell’editoria indipendente con la nuova uscita NNE “Il salto, elegia per un amico”, di Sarah Manguso, tradotto da Gioia Guerzoni, che affronta l’elaborazione del lutto attraverso l’elegia per un amico


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Forse è nascosto da qualche parte in quell’ultima pagina, Harris J. Wulfson. Forse è seduto sulla sua panchina a Prospect Park, o si aggira tra la folla di tanti Harris e cammina in mezzo a loro sul ponte di  Brooklyn sotto un sole splendente. È andato dove nessuno può più trovarlo. È esausto Harris, per usare la definizione di Gilles Deleuze, esaurisce ciò che nel possibile non si realizza, mette fine al possibile per “continuare a finire”. Ma chi è davvero Harris? È l’uomo che sceglie di buttarsi sotto un treno della metro di Riverdale dopo mesi di cure psichiatriche e dieci ore sotto la pioggia in acatisia, un corpo disfatto che ha ormai perso la sua collocazione nel mondo. Ma è anche qualcosa di diverso, dopo la morte: vive tra il reale e l’immaginario per essere ricordato, anche attraverso le pagine di un libro. Non si tratta di onorare la memoria, ma di capire le ragioni di quel salto, come fa Sarah Manguso, cercando così di spiegare anche le proprie in quegli innumerevoli tentativi di giungere alla stessa fine, quando il dolore affogato negli antipsicotici non si acquieta e basta un nuovo farmaco per provare la sensazione di sentirsi isolata dalla propria morte. Allora inizia a scrivere, gioca con l’Angelo della morte, bisbigliando una storia su di lui dentro una camera chiusa a chiave, quella più sicura del mondo. “Chiunque sia vivo è qui, sulla terra, a ingannare la morte a ogni istante. Lo facciamo tutti”.

Una donna che racconta la fine del suo amico pensando alla propria riflette sugli effetti che quella morte sortisce in lei, in ciò che riprende a fare, in un enorme guardaroba di quercia da svuotare tra servizi da te e innumerevoli cose accumulate negli anni da Harris, le tracce di chi non scompare mai davvero. E sceglie di farlo, dopo anni dedicati alla poesia e ai saggi, attraverso un’elegia memoir, perché non ci sarebbe stata nessun’altra forma narrativa adatta ad accogliere quell’inquietudine della scrittura, richiamata da una morte che non è la storia di un romanzo, è reale, e per questo non si sarebbe potuta incastrare nell’impalcatura artificiale di una trama. Ma la letteratura è finzione per definizione, e lo stesso Harris prenderà nuovi connotati pagina dopo pagina. “Non ho più urgenza di scrivere poesia, ho barattato la poesia per una vita più lunga”.

Pagine a tratti dolorose, a tratti ironiche, nel descrivere Harris e la propria vita in funzione di questa amicizia: le passeggiate senza meta, i dialoghi presi dai film, fino alla ricerca della conferma profetica che sarebbe arrivato a quel gesto, perché è un bisogno personale insito nell’animo umano quello di trovare una ragione, una traccia che confermi tardivamente che non sarebbe che potuta andare così. Una casa ormai vuota può raccontare molto, nell’odore di fiori e putrefazione, tra fisarmoniche, violini, mandolini, chiodi, bulloni, tre aspirapolvere, anche nell’odore di latte scaduto e in quel numero di rotoli da cucina, così tanti da arrivare persino a pensare che Harris non aveva in mente di morire.

Allora il salto che dà il titolo al libro non è solo quello compiuto da Harris, è anche quello dell’autrice, che si lancia senza voltarsi dietro, alla ricerca di risposte. Cerca di entrare nella scatola nera di una mente abbandonata a se stessa, Sarah Manguso, per dare un senso e raccontare la fine che, si convince, deve avere una sua bellezza. Condizione anormale della mente, perdita di contatto con la realtà, la definizione clinica di psicosi. Rinchiudere e sorvegliare, recita il protocollo per chi soffre di psicosi conclamata. L’oppressione tra quelle mura riflette l’urgenza di evasione di Harris, incalzata dalla malattia, un impulso che si fa reale, attraverso il salto. “La mente non dovrebbe forse scomporre i ricordi in forme più gestibili, contaminarli con falsi ricordi che preferiamo a quelli reali?”. Ma come si può entrare in contatto con un’astrazione?, si chiede, pensando a ciò che resta in un bambino abbandonato a otto anni, a cosa si innesca nella sua mente, alle allucinazioni in classe.

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Scava nel disagio mentale pensando anche ai propri di segni, Manguso, all’esperienza dell’ospedale psichiatrico vissuta sulla propria pelle, arrivando a chiedersi quale sia la differenza con chi soffre di psicosi, forse nessuna, “ma rimane il fatto che abbiamo paura di essere quello che sono loro, paura di vedere quello che vedono, paura di sapere quello che sanno, e quindi crediamo di essere diversi, e quindi è così”. Prova attrazione e respingimento nei confronti della morte, un’oscillazione perenne, per la notizia della fine di uno scrittore che si butta dallo Staten Island Ferry e nell’impulso, già negli anni del college, di scrivere il proprio necrologio, ritenendola una cosa indispensabile da sapere come il codice fiscale. In fondo, tutto succede per un motivo deciso da una benefica forza razionale, si convince, un’entità a cui agli ebrei non è richiesto credere e che può non esistere nell’universo fisico.

A cosa serve il dolore? Si chiede. Non si può misurare, neanche dargli un colore o offrirne testimonianze, è impossibile da analizzare se non da chi lo prova e in modo imperfetto, pensa. Il dolore per una perdita si può attenuare solo sostituendo quello che non si ha più o adattandosi ad accettare la perdita per sempre. Allora scava nei sogni, quelli mostruosi e gargantueschi di isolamento e fuga, alla ricerca di risposte, per ritrovare Harris in quei paesaggi bizzarri, seduto davanti a lei con la schiena nuda. E non è ne vivo ne morto. Solo tenendogli la mano in quella dimensione onirica, sentendo le ossa scivolare tra le dita, capisce che avrebbe potuto lasciarlo andare, che “era la fine”. Ora potrebbe essere ovunque, Harris, aver preso nuove sembianze, forse nei suoi viaggi nell’Europa dell’Est come musicista ha incontrato un dybbuk, spiriti maligni nel folklore ebraico, anime vaganti dei morti che si impossessano di corpi ospite. Magari ne ha attirato uno con la sua musica, arriva a pensare Manguso, oppure il dybbuk era l’anima di un peccatore che voleva sfuggire al castigo di vagare all’infinito e quindi cercava continuamente di morire.

Una ricerca di senso che si traduce da sempre in ossessione in letteratura. In Anna Karenina, e in generale in molti dei personaggi di Tolstoj, la scoperta della realtà è il piacere di vedere in essa qualcosa di cui stupirsi, qualcosa che i sogni non contenevano, e che rende possibile la coscienza del proprio essere, come sottolinea nel 1945 Natalia Ginzburg. Nel momento in cui i personaggi di Tolstoj scoprono la realtà cercata, capiscono che solo attraverso la conoscenza del proprio essere si potranno avvicinare alla felicità: è in quel preciso istante che vedranno la fine, o con la morte o con una scomparsa.  ”Dove sono? Che faccio? E perché?” Pensa Anna Karenina nell’attimo prima del salto, mentre sta per togliersi la vita. È il capolinea del suo viaggio, il dolore delle domande che cadono vuote senza una risposta.

L’unico modo per raggiungere l’immortalità è annullare il tempo, secondo Dany Laferrière. Tempo che non avrebbe ragione di esistere se non per l’importanza che attribuiamo a certi eventi: annullando l’artificialità nello scandire il tempo, sostiene, si elimina la morte che a sua volta è una convinzione umana. Risiede nel tempo la chiave di tutto secondo l’intellettuale haitiano: mentre l’uomo orientale vi si abbandona, l’uomo occidentale vorrebbe convincerlo a risparmiarlo. La morte, pensa, ride delle nostre piccole astuzie, dei nostri vani tentativi di sfuggirle. Riso e morte, come ne Lo straniero di Albert Camus, dove la risata è nelle forme più eclatanti di morte, resa attraverso l’indifferenza del protagonista e nell’assurdità del vivere. E come insegna Baudelaire ne I fiori del male, la Morte può anche diventare una buona sorella assieme alla Dissolutezza, in quella discesa negli inferi che in fondo non è che un’esortazione a entrare in quelle oppressioni che affannano l’animo umano, riconoscere la propria natura e guardare alla vita prendendo atto dell’incapacità di modellarla secondo i propri desideri, senza lasciare posto al rimorso.

Guarda un cimitero dai mille colori Laferrière, quello di un piccolo paese di Haiti, dipinto con dedizione dai contadini del posto. L’origine di tutto questo, riflette, forse risiede nel fatto che quelle persone non cercavano di capire la morte ma di integrarla nella propria esistenza.

ilsaltoE, in fondo, il senso ultimo de Il salto è un invito a chi legge a considerare la fine come un fatto della vita per riconoscerne l’ineluttabilità e convivere con questa consapevolezza, magari lasciandosi traghettare da chi, come lo scrittore, riesce a passare dal reale all’immaginario senza perdersi negli inganni della mente, approdando al regno dei morti, a quel “paese senza cappello” che dà il titolo al romanzo di Laferrière, Nottetempo.

A volte non resta che guardare in alto, cercare un senso osservando il volo. “Gli storni riempivano il cielo di cumuli puntinisti – imbuti vorticanti, vele al vento, pietre dense, nere. Se potessimo leggere cosa scrivono sulla pagina azzurra del cielo, forse scopriremmo che ha un significato”.

 

 

(Recensione uscita su Repubblica Parma, Letture di Alice Pisu. Libri, Parole e dintorni, 28 marzo 2017)

I Libri di Alice: Il salto
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