Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Noi, i ragazzi dell’Auerhaus

Letture di Alice Pisu (Diari di bordo). I sogni e le speranze di un gruppo di adolescenti nella Germania degli anni Ottanta raccontati da Bob Bjerg nel nuovo romanzo appena pubblicato da Keller.

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La chiamano Auerhaus quella casa al centro del paese, dal tetto rosso ormai ricoperto di muschio e dalla facciata bianca in eternit, dall’odore di fango secco e liquami di animali. Il suo nome è la storpiatura di una canzone che cantano di continuo, Our house, dei Madness. Hanno diciotto anni i protagonisti del nuovo romanzo di Bov Bjerg, La nostra casa, appena pubblicato da Keller con la traduzione di Franco Filice. Costretti a crescere all’improvviso per il tentato suicidio di uno di loro, inizieranno a vivere insieme in una sorta di comune confrontandosi sulle ragioni dell’esistenza tra scuola, gioco al volano e qualche spinello, furti per il cibo e pile di sacchetti di salsa tzatziki fuori dalla finestra. Quella vecchia dimora contadina appartenuta al nonno di uno di loro, accoglierà la convinzione che quel microcosmo dove sentirsi adulti sarebbe durato per sempre.

È la Germania degli anni Ottanta, imperversa la musica della NDW e di Nina Hagen, i giovani indossano i Levi’s e si va a teatro a vedere le rappresentazioni delle opere di Heiner Müller. Dall’altra parte del Muro, nell’Est, l’”altra Germania”, quella delle Trabant che dominano le strade, la Vita-cola, i cetriolini dello Spreewald e la musica dei Rockhaus e dei Feeling B dalle radio Stern. Berlino è lontana e rappresenta il mito, la destinazione in autostop dalla realtà di un paese non distante dalle Alpi sveve da cui fuggire non appena si diventa adulti, un luogo dove neanche il liceo ha il nome di un intellettuale, ma è solo il confino dove mandare in punizione gli insegnanti che alzano le mani sugli studenti. Una vita all’apparenza spensierata quella di Höppner e Frieder: frequentano l’ultimo anno, passano molto del loro tempo insieme tra estati in bici sino al lago artificiale, o a percorrere decine di chilometri prima di arrivare al cinema più vicino per passare la serata, senza mai parlare del sesso e, soprattutto, della sua assenza. Un quadro di normalità dai contorni fragili che cela una depressione profonda, tale da indurre Frieder a tentare di suicidarsi e portare chi gli sta intorno a interrogarsi sul senso della fine.

In controluce la Germania degli stravolgimenti sociali e politici, dei cupi edifici del dopoguerra che fanno da sfondo agli spiazzi in cui giocano i bambini. Sono gli anni cruciali per la caduta del Muro. Gli anni di grandi temi sociali, sollevati dalle inchieste di Günter Walraff sul lavoro, anni delle battaglie per il No al nucleare portate avanti dagli anni Settanta e rilanciate dalla propaganda politica nel decennio successivo. I giovani della Germania degli Ottanta incarnano quell’impegno sociale sui grandi temi ma al contempo vivono la sensazione che quell’euforia sarebbe durata per sempre. 260-fr-17-bjerg-2017Il romanzo di Bjerg è incentrato su quel sentimento, l’impressione di poter fermare il tempo e rendere infinita quell’eccitazione nella vita nell’Auerhaus. La nostra casa fa parte di quella letteratura che è lo specchio di una generazione di giovani cresciuti negli anni a cavallo di quella svolta epocale, con esempi di recente pubblicazione come, tra gli altri, Eravamo dei grandissimi, di Clemens Meyer, tra i sogni e le illusioni richiamati dal mito dell’Ovest e La stasi dietro al lavello di Claudia Rusch. Sin dalla sua uscita nel 2015 in Germania, La nostra casa conquista critici e lettori, approdando ben presto nelle scuole e a teatro con numerose rappresentazioni. Un romanzo di formazione capace di raccontare la crescita interiore di un gruppo di adolescenti che si confronta con inquietudini, paure quasi mai chiamate per nome, la ricerca di un’identità sessuale e speranze per un futuro solo immaginato, quando magari quelle figure goffe e incerte diventeranno insegnanti o designer di vestiti, fisici nucleari o meccanici di biciclette, nel migliore dei mondi possibili, come direbbe Voltaire.

Esiste un confine labile tra il reale e l’immaginario, soprattutto nel disagio mentale. Lo sa bene Frieder, che per quel tentato suicidio finirà in manicomio per un breve periodo prima di iniziare la sua vita nell’Auerhaus. Quel luogo delimitato da un crematorio e da una linea ferroviaria è raccontato da chi, come Höppner, a diciotto anni non trova le risposte mentre vede il suo amico trascinarsi lentamente in pigiama verso di lui, rigido e con le braccia flosce mentre uomini e donne dalle tute blu stanno seduti nel parco a fumare. Si chiede se siano quelli i matti, e perché non tentino la fuga. Allora immagina a sua volta la propria, di pazzia: “Mi ero condannato a morte. Perché ero al mondo. Era un reato, certo”. Percepisce quel luogo come fuori dal tempo, ai suoi occhi è un inferno terreno: “Salendo le scale del manicomio fummo abbagliati dal bianco della facciata. Mi voltai. La cappa di nubi in qualche punto si era aperta. Il sole filtrava sulle foglie gialle. Le foglie luccicavano. Sembravano buchi nel terreno. Come se il sole prorompesse dalle viscere della terra. Magari dall’inferno”.

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La nostra casa si affaccia sul disagio mentale con tratti fulminei, nelle descrizioni per immagini della solitudine di Frieder, immobile davanti al tavolo della colazione sino al rientro dei compagni, o negli autoscatti di Pauline, la sua amica di manicomio, capace di consumare interi rullini per catturare il suo umore del momento, “venti volte Edvard Munch, l’urlo, ma con le labbra serrate”. Aleggia lo spettro della morte in quel quadro di normalità apparentemente scanzonata che è l’Auerhaus. “Non volevo uccidermi. Non volevo più vivere. Credo ci sia una differenza”, sostiene Frieder e ricorda il mal di vivere culminato nel testare il suicidio del protagonista de I dolori del giovane Werther di Goethe. Ha paura della solitudine però vi si rifugia di continuo, Frieder, è solo e vuole vivere in quella sorta di comune, si sente paralizzato ma è pronto a inforcare la bicicletta per andare a scuola anche quando piove a dirotto. Vuole essere diverso, ma non riesce a essere diverso.

È la madre delle ossessioni in letteratura la ricerca di un senso del vivere, negli interrogativi sull’esistenza che risuonano nella testa di Anna Karenina nell’attimo prima del salto, nelle domande che a volte cadono vuote senza risposta. Oppressioni che a volte possono dilatarsi se, come insegna Baudelaire, le si guarda pensando alla vita prendendo atto dell’incapacità di poterla modellare secondo le proprie attese. Leggere La nostra casa significa confrontarsi con questi interrogativi, rivivere attraverso i protagonisti un’adolescenza dissoluta tra feste improvvisate a base di alcol e stupefacenti, fughe in qualche metropoli alla moda dove fingersi adulti pronti ad affittare una camera per i propri studi universitari, vigilare sul più fragile e proteggerlo dalla morte, vivere con la convinzione che quei momenti potranno restare sempre lì, nel presente, e non confinati nei ricordi. Questo, ciò che resta dell’Auerhaus: la memoria dell’umanità, come la chiamerà Höppner, è in quei bigliettini attaccati su fogli A4 tra liste della spesa, diffide di ingresso al Penny dopo l’ennesimo furto, disegni a forma di cuore, messaggi di ospiti occasionali. Ciò che resta non è solo in quegli scatoloni rimasti imballati, è nel convincersi di riuscire a credere alle proprie illusioni.

(Recensione uscita su Repubblica Parma, Letture di Alice Pisu. Libri, Parole e dintorni, 21 luglio 2017)

 

I Libri di Alice: La nostra casa
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