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Lo so, ti aspetteresti che io ti dica un bosco, o un posto in cui i cani corrano liberi e senza guinzaglio, ma è una delle estati più calde che io ricordi – così te la direi con Hemingway, ma con una variante stagionale. Un posto pulito, illuminato bene, ma dove fanno le granite buone, questo sì.

Questa è la risposta di Giuseppe Zucco, quando gli chiedo di immaginare uno sfondo per la chiacchierata sul suo primo romanzo, edito da Minimum fax. Lascerei che la granita si sciolga nel bicchiere, perché le risposte di Zucco sono così piene e autentiche, che mi dimenticherei certamente di tutto ciò che ci circonda.

Leggete il seguito, e capirete che ho ragione.

0x300“Il cuore è un cane senza nome” è un titolo straordinario, perfettamente calzante con ciò che racconti, raffinato come il modo in cui hai deciso di raccontare la storia, ma ancora di più capace di tracciare rivoli letterari e poetici che intersecandosi sin dal titolo confluiscono nella narrazione.
Cuore, cane e nome mi sembrano tre parole capaci di riempire un’intera biblioteca, che tu consapevolmente reinventi in una storia piena di suggestioni e riecheggiamenti che impreziosiscono l’ordito narrativo senza inficiarne l’originalità, che è forte e potente, e di grande maturità stilistica.
Mi chiedevo: viene prima il titolo a dettare la traccia della tua storia con la trasformazione del protagonista in cane come conseguenza della sofferenza per la separazione dalla donna amata, o invece la metamorfosi canina è l’idea primigenia, o ancora letture incagliate nella memoria di Giuseppe Zucco lettore che urgevano di essere ri-raccontate, o invece altro che solo successivamente ha trovato compendio nel titolo?

Il titolo. È arrivato proprio in ultima battuta. Per tutto il tempo il file in cui si accumulavano le pagine del romanzo si chiamava Un amore cane. Pensavo potesse funzionare. Ma a lavoro ultimato, sentendo anche il parere degli altri in casa editrice, ho capito che c’era qualcosa che non andava. Sembrava un gioco di parole o la brutta traduzione di Amores perros, il titolo del primo film di Iñarritu, in cui i cani erano una presenza costante. Così, come faccio sempre in questi casi, ho iniziato a leggere, più che potevo, aprendo libri a caso, confidando che da qualche parte una soluzione mi stesse aspettando. E, infatti, più o meno a metà di Meridiano di sangue di Cormac McCarthy mi imbatto in questa frase. «Tutti i passaggi da un ordine superiore a uno inferiore sono marcati da rovine e mistero e da un residuo di furia senza nome». Ecco. L’avevo trovata. Per un qualche motivo quella frase dialogava segretamente con il romanzo – alludeva a una trasformazione, al disfacimento di un ordine, come avviene alla fine di una storia d’amore, a una furia che vagava senza nome. E in pochi minuti, lavorandoci su, è venuto fuori il titolo che ora campeggia sulla copertina. Il cuore è un cane senza nome, come mi è stato fatto notare, sembra il verso di una poesia, ed è giusto così – fin dal titolo volevo che si avvertisse questo tono patetico, patetico nel senso di un movimento musicale, capace di accogliere le mille sfumature di un discorso sul sentimento amoroso. Che poi questo uomo si trasformi in un cane, e soffra e guaisca senza scampo per la perdita della persona amata, scontrandosi ripetutamente con la sua nuova condizione, invece di vivere tutto con profondo distacco e cinismo, ha qualcosa di leggermente ironico. La parola cinico affonda le radici della propria etimologia nel latino e più anticamente nel greco – e il termine cynǐcus designa proprio un cane o colui che si comporta come un cane. Non so, ma un cane patetico e non cinico, un cane che si rivolta contro la propria natura e contro il linguaggio che cerca di fissarlo una volta per tutte in un aggettivo, è la cosa migliore che mi potesse capitare per dare conto di questa avventura in un mondo colmo di tenebra e luce.

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«Tutti i passaggi da un ordine superiore a uno inferiore sono marcati da rovine e mistero e da un residuo di furia senza nome». 

Senza nome: tutti i personaggi del romanzo non hanno un nome, dal cane, alla ragazza, al padre, alla madre…

Ho trovato questa scelta molto fascinosa. Da una parte per l’aderenza che crea con l’ottica del cane, che non potrebbe dare nomi, dall’altra per la carica di universalità con cui riempie i personaggi, pur preservandone l’individualità della loro esistenza. In particolare l’assenza di nomi amplifica il concetto innovativo di tempo che tu attui nel romanzo. Non un tempo lineare, né circolare, ma piuttosto a spirale, in cui c’è un tornare indietro che non coincide mai perfettamente con quello che è stato: il tempo presente della narrazione sfiora quello passato, senza mai combaciare del tutto.

Ha un senso narrativo che i personaggi del romanzo siano “senza nome”? e questo elemento influisce con la concezione della sofferenza per amore, di cui il romanzo è illustrazione?

I nomi, è vero – i personaggi non ne hanno. E non è stata una scelta meditata. Ho iniziato così, senza nomi, e poi ho assecondato questo gesto istintivo. Forse, e azzardo una risposta – io non domino totalmente il romanzo, in molti casi è stata la storia che provavo a raccontare a dettarmi scelte, ordini, grandezze – i nomi non bastano per designare, e quindi conoscere, le cose. Ricordi come finiva Il nome della rosa? «Stat rosa pristine nomine, nomina nuda tenemus». Cioè, la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nomi nudi. Ecco. Sarà questo. Nonostante oggi basti un click per accedere a milioni se non miliardi di informazioni sul mondo, ho sempre la sensazione che di tutto ciò che ci circonda – piante, animali, minerali, gli esseri viventi in genere – noi teniamo in mano solo i loro nomi, nomi sotto la cui nuda superficie si cela un mistero più grande. Anche le persone più care, quelle che ci respirano vicino, e che per larghi tratti ci accompagnano lungo il nostro percorso, non sono mai completamente trasparenti. Quando poi ci avventuriamo nel campo dei sentimenti, quando proviamo a comprendere cosa si nasconda sotto i loro nomi, lì, se è possibile, le cose si fanno addirittura più complicate. Dici per esempio la parola amore, è subito tutto appare instabile, volatile, parcellizzato, scomposto e irregolare. Così, se la tua ambizione è quella di afferrare il mondo, basta un attimo per cadere nel gorgo della rassegnazione. Ma è lì che viene in soccorso la letteratura. Quando i nomi non bastano, quando una cosa non la puoi dire direttamente, quando una cosa non puoi sottrarla al suo grado di indeterminazione, quello che puoi fare è provare a raccontarla. Ecco, scrivere storie, costruire storie, mettere a punto una trama e una voce, è uno dei pochi modi che abbiamo per far sì che le cose più invisibili e instabili trovino dentro dei confini esatti – quelli di un racconto o di un romanzo – posto, ordine, una paradossale armonia. Ed è solo allora, quando i sentimenti si incarnano in dei personaggi e assumono una qualsiasi forma, che è possibile capirli, condividerli e tramandarli. È più o meno questo. Le storie tentano di colmare, a modo loro, per quanto possibile, non riuscendoci mai del tutto, l’abisso che risiede sotto la superficie dei nomi.

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Tornerei dunque alla cognizione del tempo del tuo romanzo, che mi sembra rispecchi il senso di instabilità delle cose e del reale.
Rompere la linearità temporale ha un rapporto con l’instabilità delle vicende umane?

Il tempo, per come lo consideriamo noi esseri umani, non esiste. E se è per questo, neanche lo spazio. Certo, possiamo anche continuare a pensare che la nostra vita sia scandita dalle lancette degli orologi, e che tutto ciò che si trova sotto i nostri occhi sia una realtà stabile, solida, piantata, duratura. Invece, seguendo quanto ci dice la fisica quantistica, è tutto il contrario. Dentro di noi, intorno a noi, a un livello microscopico, nella dimensione dell’infinitamente piccolo, è tutto un pullulare, uno sciamare, un vorticare di particelle. E sono proprio queste particelle, scontrandosi ripetutamente, a dare luogo alla materia, e quindi al tempo e allo spazio. A ben guardare, la realtà dell’universo è determinata non solo dalla probabilità che delle particelle si scontrino, ma dalla inesauribile possibilità che queste particelle intessano una relazione. Per questo la fisica quantistica è detta anche fisica relazionale. Perché ti dico questo? Perché ho brutalizzato così decenni di studi, dibattiti e scoperte scientifiche? Perché ti spingo in un luogo dove non ha più senso distinguere il presente, il passato e il futuro? Perché nel campo delle storie d’amore credo succeda la stessa cosa. Anche nelle storie d’amore il tempo e lo spazio non esistono. Ma sono i due amanti, incontrandosi ripetutamente, proprio come nel fitto viluppo di particelle nel buio siderale, a fare in modo che il tempo e lo spazio accadano sotto la spinta incessante dei loro bisogni e dei loro desideri. Sono loro, muovendosi, a determinare e fare acquisire senso alle stanze, le case, i bar, le strade, le piazze, i negozi, le farmacie, le spiagge, le stazioni. Come se il mondo non preesistesse alla loro relazione. Come se la realtà si dispiegasse intorno seguendo il vorticare di una relazione sentimentale. Ecco, mentre scrivevo il romanzo, mi si è presentata davanti questa evidenza. Sono le relazioni sentimentali a fare il mondo. E a maggior ragione, sono le relazioni sentimentali a permettere agli amanti di sentire e sperimentare sulla propria pelle come funziona il cosmo, percependo, in un continuo rispecchiamento, la natura intima dell’universo. L’amore è soprattutto questo. Una forma immediata di conoscenza.

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Con questa risposta, Giuseppe, confermi l’impressione avuta durante la lettura che ci fosse una profonda e approfondita intuizione e un vigoroso sostrato filosofici a sorreggere la narrazione.
Parli di relazioni sentimentali, e in effetti nel romanzo ci sono delle continue triangolazioni che tirano in campo non solo i due amanti, di cui uno trasformato in cane senza nome (e che dovrà misurarsi nell’episodio centrale con una controfigura umana che è quella di un ragazzo osteggiato nel suo amore per la donna amata dal protagonista, ritrovata durante la giovinezza), ma anche una terza figura ricorrente: quella del padre.
Con il padre, ripetutamente, il cane amante dovrà misurarsi, in quella che a tratti assume la forma di una lotta per la sopravvivenza.
Che tipo di relazioni sentimentali racconti in “Il cuore è un cane senza nome”?

Scrivendo questo romanzo, avevo un’ambizione, questa sì, enorme. Cogliere l’amore e raccontare tutte le sue possibili sfumature. Il tentativo – nonostante i risultati – era questo. Tendere una rete di vischio e parole, e aspettare con pazienza e tenacia che poi si posasse e si attaccasse lassù tutto l’amore che c’era. Ma da subito, sentendo quest’uomo guaire, e poi guardandolo trasformarsi in un cane, e poi seguendolo mentre dispiegava questa avventura irripetibile tra boschi e città, ho intuito che l’amore non era solo un sentimento – l’amore era un mondo. Un paesaggio immenso costituito da valli, precipizi, radure, vette, pianure e depressioni. Un territorio selvaggio da battere e esplorare. Un posto accogliente e terribile insieme che, mentre lo attraversi, ti rende partecipe di te stesso, dei tuoi limiti, della tua collocazione nel mondo. Messa così, l’amore non ha più nulla a che vedere con il bene e con il male. L’amore è più che altro una forza bruta che nel momento in cui ti coglie alla sprovvista e ti stringe con le spalle al muro, non solo ti trasforma – da qui le orecchie a punta e la coda del cane – ma ti permette di accedere al mondo e di conoscerlo. E che tipo di conoscenza ti offre? Ti dicevo prima della natura intima dell’universo – le particelle, lo sciamare delle particelle, la probabilità che la realtà accada nel momento in cui s’incontrano – ma c’è di più. C’è un verso bellissimo ne Il cantico dei cantici, uno dei più grandi poemi d’amore di sempre, curiosamente incastonato tra i libri che compongono la Bibbia. «I tuoi occhi sono occhi di colomba». Sono le parole che un uomo rivolge alla propria donna. E cosa le sta dicendo, in realtà? Che i suoi occhi sono gli occhi della donna che ama – quindi in essi scorge il futuro, la probabilità che una storia continui. Ma allo stesso tempo le sta dicendo che i suoi occhi sono quelli di una colomba, cioè di un animale, rinnovando in un attimo l’eco di un passato lontanissimo, quello della nostra origine di specie, quando noi stessi eravamo animali, e andando più indietro di millenni quando da uno stesso organismo unicellulare si sono evoluti gli animali e le piante – nel nostro DNA c’è traccia di tutto questo. Se poi aggiungi il fatto che la colomba è il simbolo della divinità – sarà proprio questa a portare il rametto di ulivo a Noè, segnando la fine del diluvio universale e l’inizio di uno nuova era di pace – capisci bene che tra le sue piume dimora la possibilità della grazia, e a quel punto la vertigine è completa. Sì, in quel verso si annida già tutto. Quando l’amore ti pervade ti connette a tutti i tempi e a ogni creatura.

 

download (1)Come ultima domanda, collochiamo “Il cuore è un cane senza nome” in un’ideale libreria? Quali libri metteresti prima e quali dopo il tuo romanzo per un lettore ideale? e perché? seguendo quali suggestioni?

Ma ti ho raccontato com’è iniziata l’avventura di scrivere questo romanzo? Mi sa di no. Era una mattina, Aprile, tre anni fa. Mi stavo lavando i denti. E improvvisamente sono stato infestato da un’immagine. Quella di un uomo, lasciato dalla donna che ama, che comincia a guaire. Avevo l’inizio di una storia, questo l’ho capito subito – così mi sono chiesto, sì, va bene, ma come finisce? E in un attimo si è avverata davanti ai miei occhi una seconda immagine, che corrisponde al finale del romanzo, ma letteralmente, non ho ritoccato né ho aggiunto nulla. Francamente, pensavo di stringere tre le mani un racconto – ma non potevo scriverlo subito, dovevo ancora terminare la stesura di Tutti bambini, zuccoil mio primo libro di racconti, così ho messo da parte quest’idea. E mi sono detto, se sopravvive, se il tempo non la cancella, dovrò tornarci su. Il problema era che questa storia non solo si ripresentava, ma a un certo punto ha iniziato a pulsarmi dentro – e ad Agosto, mentre stavo tornando a casa in treno, mi sono apparse nuove immagini ancora, e ho capito che tra quell’inizio e quella fine quest’uomo trasformato in cane avrebbe incontrato altre volte la donna che amava. Così non avevo più un racconto. Avevo un romanzo. È iniziata così. Ma perché ti scrivo questo? Per farti capire che, scrivendo, non ho avuto modelli, e quindi non saprei dove collocare il romanzo in una libreria ideale. Mettendomi al lavoro, avevo dalla mia solo un inizio, una fine, delle piccole scene intermedie, non ne sapevo di più – e lo sforzo degli ultimi anni è stato proprio quello compiere un percorso tra questi punti, di conquistare il romanzo una frase per volta, di meritare la forza che quelle immagini iniziali racchiudevano. Per un lunghissimo periodo è stato come camminare al buio, in una stanza enorme, con una piccolissima torcia in mano che rischiarava la mattonella dovrei avrei poggiato il passo successivo. È stato un viaggio, sì – ed io per primo mi sono sorpreso di molte delle cose che accadevano tra le pagine. Ma non ero solo. Mentre scrivevo, ho letto moltissimo. C’erano altre voci a guidarmi quando l’oscurità si faceva più fitta. Quindi, io non so dove potrei collocare il mio romanzo in una libreria ideale, però so chi mi è stato accanto lungo questa avventura. E ti farò dei nomi, non per paragonarmi a loro, ci mancherebbe altro – io non arrivo neanche all’altezza delle loro caviglie – ma per ringraziarli, ovunque essi siano, del dono della loro presenza. La Virginia Woolf di Gita al faro che mi ha insegnato che se lavori a lungo, allo stremo delle forze, facendoti guidare dai tuoi desideri, poi magari hai la fortuna di conquistare una tua visione delle cose. La Emily Brontë di Cime tempestose che mi ha rivelato che l’amore non è un sentimento, ma una forza bruta che squassa e ricompone il mondo. L’Anna Maria Ortese de L’Iguana che mi ha confermato che al fondo di tutte le cose risiede l’immaginazione. L’Ovidio de Le Metamorfosi che mi ha reso più saldo nella convinzione che ciò che vale per la materia vale per i sentimenti, niente si distrugge, tutto si trasforma. Il Jack London de Il richiamo della foresta che mi ha restituito alla parte scura di me stesso, lì dove sopravvive la memoria delle nostri origini selvagge. L’Herman Melville di Moby Dick che mi ha fatto pensare a quanto piccola cosa siano gli esseri umani rispetto alla vastità del mondo, e che la balena può nutrirti o distruggerti allo stesso tempo proprio come l’amore, e che gli innamorati, condividendo la maestosità arcaica, bianchissima e sfuggente della balena, sono esseri di questo mondo senza essere esseri di questo mondo. E Sylvia Plath, Elizabeth Bishop, Amelia Rosselli che con le loro poesie mi hanno soffiato dentro l’idea che il mondo è fondato su una mancanza, e che la vita è il tentativo di colmare questa mancanza. E la più grande di tutti, Emily Dickinson, che con i suoi versi colmi di ali, cieli e trattini mi ha sciolto nelle vene la certezza che l’amore è tutto quanto c’è – che «ogni qual volta un amore si fa più aperto, dilatando se stesso, dilata tutti gli altri» – e che quando hai paura, quando hai il buio intorno, o passi accanto a un cimitero, bisogna cantare sia per darsi coraggio sia per riuscire a stregare i propri demoni e poterli guardare negli occhi. La letteratura – quel canto – accade lì dove tremano le vene e i polsi.

A questo punto, immagino che si sia sciolta anche la granita di quanti di voi si siano incantati come me a leggere Giuseppe Zucco.

 

 

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Chiacchierando con… Giuseppe Zucco