Museo-delle-Marionette

Dove ci saremmo incontrati questa volta? – chiedo a Fabio Stassi, proponendogli un incontro per chiacchierare insieme di “Angelica e le comete”, il suo nuovo libro, molto particolare, sempre per Sellerio.

Questa volta sicuramente al Museo delle Marionette di Palermo, oppure ai quattro canti del villaggio di Kalamet: poco più avanti c’è un angolo della scalinata dove una volta anche Lo Spagnolo aveva montato il suo teatrino.

Raggiungeteci lì.

«Non so cosa aspettarmi. Ho la strana sensazione che questo libro provenga da un mio futuro anteriore.»

7757-3E in questa sensazione inattesa si trova anche il lettore, che non può che chiedersi: ma che libro è “Angelica e le comete”? nel senso: a quale genere può mai appartenere un libro che nel giro di un centinaio di pagine racchiude tutti i generi, fino ad arrivare alle forme più pure della letterature e rimanere radicato nella più squisita tradizione popolare?

“Angelica e le comete” è il libro che avevi immaginato a vent’anni o il libro di uno scrittore maturo, che ormai padroneggia con eccezionale destrezza tutti i meccanismi della narrativa?

«A volte penso che sono vecchio di secoli, non per le cose che mi sono accadute, ma per i libri che ho letto.»

Cara Giuditta, “Angelica e le comete” è per me la scommessa più temeraria, ma anche la più naturale, una specie di sconsiderata inversione nel viaggio della scrittura per rimettere in linea tutto quello che ho fatto. È stato come portare a termine un libro rispettando la sua originale incompiutezza, unire il primo passo all’ultimo, chiudere il cerchio e insieme lasciarlo aperto.

Angelica mi precede, e in qualche modo mi segue. Proviene appunto da un futuro anteriore. La sua storia, la storia della nana ballerina che nel mondo dei pupi è la donna più bella del mondo e fuori è invece uno scherzo della natura, mi perseguita da sempre e da sempre mi chiede di essere raccontata. A pensarci bene, conteneva già tutte le storie che avrei provato a scrivere dopo, e forse anche quelle che non ho ancora scritto.

Come sai, ho sempre cercato di indagare il rapporto tra realtà e finzione. In ogni romanzo mi sono divertito a manipolare l’una e l’altra, a mischiare le cose, a confondere la linea di demarcazione che le separa. Perché il mio intento è sempre stato quello di cancellare un confine. Ho usato personaggi realmente esistiti come Chaplin o Capablanca o Django Reinhardt, reinventando per loro un’altra vita. E ho preso in prestito da altri scrittori personaggi immaginari. Ma non mi ero mai spinto così in là. Non soltanto per avere fatto innamorare tra di loro esseri umani e marionette o per avere usato me stesso all’interno della vicenda. L’azzardo più grande è stato provare a manomettere l’asse del tempo.

Italo Calvino, nell’introduzione che aggiunse alla nuova edizione del “Sentiero dei nidi di ragno” nel 1964, sosteneva che il primo libro è il solo che conta. Forse bisognerebbe scrivere solo quello, e basta. E aveva ragione.

“Il grande strappo lo dai solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più. Forse la poesia è possibile solo in un momento della vita che per i più coincide con l’estrema giovinezza. Passato quel momento, che tu ti sia espresso o no (e non lo saprai se non dopo cento, centocinquant’anni; i contemporanei non possono essere buoni giudici), di lì in poi i giochi son fatti, non tornerai che a fare il verso agli altri o a te stesso, non riuscirai più a dire una parola vera, insostituibile…”.

Ecco, anche per me l’occasione di esprimermi si era presentata a vent’anni, con questa strana visione di Cate, di Bruciavento, dello Spagnolo e di Ardesio. Ma da giovane non ero riuscito a condurla in porto come avrei voluto. E non l’avevo pubblicata. Da allora ho avuto sempre paura che non sarei più stato in grado di sciogliere quel nodo. Una paura mortale. Poi le cose sono andate avanti per loro conto, i fili hanno avuto altri capi. Ho esordito, si sono prodotte delle coincidenze, e adesso sono già dieci anni da quando ho varato il primo libro. Ma il filo che aveva mosso i miei primi personaggi era questo. Così ho sentito, fortissima, la necessità di ritornare a quel grande strappo iniziale. Per capire dove è cominciato tutto, e quali sono i motivi che mi hanno spinto a scrivere, e mi spingono ancora.

Fabio Stassi marionetta

I luoghi dei precedenti romanzi sono tutti a loro modo fiabeschi e introspettivi, ma la libreria di Clemente è un luogo di incantesimi e trasformazioni, ed è lì che ogni giorno l’io narrante di “Angelica e le comete” si ferma per sfogliare un libro o fare due chiacchiere: “il mio modo – scrive – di tirare il fiato, prima di affrontare il viaggio di ritorno”. Nella libreria si consuma il viaggio a ritroso tra le pagine di un libro piuttosto malridotto che è però esattamente come lo aveva immaginato a vent’anni. In groppa al libro, come Astolfo sull’ippogrifo, ecco che il narratore, e con lui il lettore, viene trascinato nel mondo dei pupi siciliani: favola, sogno, mito.

Cosa rappresenta nel mondo e nella memoria di Fabio Stassi il teatro dei pupi?

Del teatro dei pupi ho sempre sentito parlare, a casa, da mio padre, dai miei nonni. Fanno parte della mia memoria, e della memoria dell’isola dalla quale proveniva la mia famiglia. Erano storie che mischiavano tutto. Mio nonno mi mostrava ogni estate, con orgoglio, il punto esatto del paese in cui i pupari montavano il teatro. Mi raccontava ridendo che una volta tutti i pescatori del villaggio avevano annegato la marionetta di Gano, il traditore. Mio padre rifaceva il verso a Orlando e Rinaldo, simulava i loro duelli, recitava lunghe parti delle loro gesta in dialetto. Filastrocche antiche, che chissà da dove venivano.

Ho sempre sentito la fascinazione di quel mondo itinerante di montambanchi dove era sospesa la realtà. Il teatro dei pupi chiede un patto di sospensione della credulità a chi vi assiste dal primo istante in cui un attore di legno compare sulla scena e parla. In fondo, è la stessa fascinazione che provo per il circo. Un universo abitato da mangiafuochi, acrobati, pinocchi, paladini e altre maschere che compendia tutte le passioni umane, e soprattutto la libertà e la sua nostalgia.

Questo sentimento lo ritrovai in un film di Federico Fellini, che insieme a “Luci della città” di Chaplin, è stato per me decisivo: “La strada”. In fondo, Cate  potrebbe avere il volto di Gelsomina e Lo Spagnolo la corporatura di uno Zampanò. Gli scrittori sudamericani hanno riconosciuto un grande debito, con quel film. E anche la musica brasiliana: Caetano Veloso gli ha dedicato un intero disco.

Non so come, ma tutte queste cose si sono sovrapposte, nella mia formazione: i racconti di mio nonno, l’opera dei pupi, la tromba di Gelsomina, la letteratura sudamericana, la musica in levare, la bossa nova. Appartengo a questo sud, a una tradizione ispanica. Forse ho sempre cercato, anche involontariamente, di stilare una specie di grammatica onirica. Non ho mai aspirato al realismo. Semmai, la realtà è un sogno feroce.

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Questo il miracolo e l’incanto della tua scrittura: coniugare insieme in una grammatica onirica i racconti degli avi, la letteratura sudamericana, la musica in levare, la bossa nova e dare a questi elementi libro dopo libro una diversa declinazione, in cui però per rimanere nella metafora grammaticale le regole rimangono le stesse, così che il lettore possa riconoscervi una traccia, che è il senso profondo di ciò che sei come scrittore. A mio avviso, parte del fascino della tua scrittura è che rispecchia, come poche e rare volte accade, interamente ciò che sei come uomo. Questa autenticità forte è ciò che incanta i lettori e li rende tuoi prigionieri, e prigionieri delle tue storie.

Cate è forse una delle tue metafore più belle, che si innesta profondamente nel dilemma più pregnante della letteratura e del fare letteratura:

«nel mondo degli uomini era una nana da circo e nel teatro dei pupi l’Angelica più bella che si fosse mai vista»

Cos’altro è la letteratura se non questo? perché mi sembra che “Angelica e le comete” sia il più letterario dei tuoi romanzi, e quello in cui più intimamente rifletti su ciò che è la tua scrittura, che io ritengo, dal mio modesto punto di vista di lettrice, la più letteraria del panorama italiano contemporaneo (e quella che più di ogni altra merita la maiuscola!). Invece per Fabio Stassi la letteratura è altro? 

Grazie, Giuditta. La letteratura per me è tutta la vita, non saprei dirlo in altro modo. È sempre stato così. È una capriola, un rovesciamento, una restituzione. Una protesta ostinata e infantile verso la realtà. È il legno del teatro dove una nana da circo può diventare la più bella Angelica che sia mai esistita. È una rivolta, una sovversione, uno scandalo. Ma anche un atto di nostalgia, un sentimento per la giustizia offesa. Una scatola sonora. Un fatto musicale. E una genealogia strampalata. Un’enciclopedia della stravaganza. Appartiene a chi si sente sempre nel posto sbagliato. A chi non smette mai di cercare la propria voce. E gioca a carte con acrobati obesi, clown svampiti, lanciatori di coltelli strabici, cantanti dimenticati e scrittori falliti. O forse è soltanto un modo di vincere i ricordi degli altri senza perdere i propri.

Ogni risposta di Fabio Stassi è un dono.

Beato chi non ha ancora letto i suoi libri, perché la vita gli riserva una grande sorpresa.

Chiacchierando (per la quarta volta) con… Fabio Stassi
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