lagast12

Ti dico il passo del Lagastrello – è la proposta di Sandro Campani, quando gli chiedo quale poteva essere lo scenario ideale per chiacchierare insieme di “Il giro di miele”, il nuovo romanzo pubblicato da Einaudi, con una copertina di grande suggestione ed eleganza.

Potremmo salire tutti insieme sul pulmino della scuola, lo stesso su cui Davide accompagnava  i bimbi, quando l’Ida ancora insegnava, e sulle strade ondulate del passo, potrei cominciare a porgere a Sandro le prime domande.

"Il giro del miele" di Sandro Campani, Einaudi edizioni.

“Stavo sognando il fuoco”.

Un incipit di una forza straordinaria, senza essere urlato. La tua scrittura ha una compostezza piena di grazia e carica di pathos.

Una storia semplice, quella raccontata in “Il giro di miele”, in cui non sono le vicende a fare da padrone, bensì i sentimenti e gli scatti emotivi. Alla semplicità della vicenda narrata, corrisponde una struttura complessa in cui le voci narranti si alternano in un gioco di specchi e di rimandi, per dare conto alla complessità dei sentimenti che sono messi in campo in ogni declinazione, inattesa e insolita. 

Mi è sembrato che ti interessasse particolarmente presentare i personaggi da un interno ricco di introspezione, e guardarli attraverso il buco della serratura posto direttamente nel cuore degli stessi.

C’è un uso molto particolare nel romanzo della narrazione in prima e in terza persona e del discorso diretto, che si distende nelle fattezze di un monologo, che in realtà è un dialogo.

Da quale esigenza nasce un’architettura narrativa così particolare? Io la raffronterei a un palazzo di cristallo, in cui trasparenza e leggerezza si coniugano insieme, mostrando il brulicare della vita che lo vive e lo attraversa nelle piccole incombenze quotidiane. O forse sarebbe più appropriato confrontarlo con l’architettura di un alveare?

 

api-ape-alveare-apicoltura-by-irochka-fotolia-750x750Innanzi tutto ti ringrazio per i complimenti a questo incipit; il racconto si apre e si chiude sull’immagine del fuoco e, come hai notato, muovendosi dentro una struttura circolare, torna e ritorna sugli stessi eventi, dandone sfumature diverse a seconda della voce narrante: c’è un gioco di specchi interno al testo per il quale certe scene rispondono a certe altre, ne costituiscono il doppio degenerato. A volte, la stessa scena è raccontata da più punti di vista: questo mi serve a scavare nei personaggi e a dar loro la voce più adatta, a farli vivere.

C’è stato un periodo, in passato, in cui ho combattuto con il mostro della trama, per me impossibile da dominare. Ho cercato in tutti i modi di piegare la mia scrittura (sempre imprecisa, sempre tendente a girovagare) all’esigenza della trama; la struttura di questo libro (che nasce da una semplice domanda che mi rivolse Giulio Mozzi, leggendone la prima versione in terza persona: “Chi la racconta, questa storia?”) è stata una liberazione; ho fatto definitivamente pace con l’idea che non sono un animale da trame, non lo sarò mai, e la mia scrittura, se può avere una sua forza, ce l’avrà in un altro modo: avvolgendosi attorno ai fatti, andando e ritornando, scavando in profondità, connettendo e arredando gallerie.

Paradossalmente, mi è più facile utilizzare una struttura di questo tipo che non pianificare una linea che vada dal punto A al punto Z con i colpi di scena del caso (quando ci provo, mi sembra di faticare e fallire). Mi sono accorto che in questo modo la mia lingua si liberava da un peso.

Passare dalla terza alla prima persona ha comportato l’utilizzo di un narratore interno alla scena, e di conseguenza l’immissione nella storia di altre voci, le voci di chi narratore non era ma aveva ugualmente il diritto di parlare: quindi Giampiero, che narra, ma anche Davide che dialoga con lui all’interno di quella che si è trasformata in una cornice teatrale, e Silvia, la cui voce viene tradotta in una serie di flashback e immaginazioni di Giampiero. I personaggi, tolta l’oppressione del mio sguardo onnisciente, sono cresciuti, perché si è instaurata fra loro una lotta piena di ambiguità e di reticenze.

Il dialogo fra Giampiero e Davide è il dialogo fra due persone che hanno moti d’affetto reciproci ma insieme rancori e conti in sospeso, è un dialogo instabile, fatto di silenzi e di slanci improvvisi; quando Davide sbotta e non riesce a trattenersi, prorompe in monologhi ossessivi che mi hanno richiesto molta attenzione, per controllare la misura: ho lavorato recitando tutto ad alta voce.

Imitare le voci è una cosa che mi piace da matti, mi appaga e mi diverte.

page23_1

Credo che il fascino di “Il giro di miele” risieda proprio nel non essere un romanzo di trama, pur essendo palpitante di vita, con tutte le sue contraddizioni e complicazioni. Un romanzo giocato sulla molteplicità dei sentimenti e delle relazioni, e in particolare nelle trasformazioni degli stessi. Non c’è un sentimento univoco che leghi i personaggi tra loro, ma una fitta rete di fili sentimentali che si intrecciano e ingarbugliano tra di loro, in cui la suggestione più profonda è affidata al non detto, al lasciare che il lettore si specchi, si rifletta, empatizzi con le emozioni più ancora che con i personaggi. Al centro, determinante nelle esistenze di tutti i personaggi, sia quelli principali come Davide Giampiero e Silvia, sia in quelli secondari, l’amore in tutte le sue declinazioni: passionale, filiale, genitoriale, fraterno, amicale. 
Volevi scrivere un romanzo sull’amore, o inevitabilmente scrivendo un romanzo si finisce per mettere in campo l’amore?

Sì, sono le relazioni fra i personaggi a costruire la storia. Come dici tu, è una rete di fili che s’ingarbugliano – scelte sbagliate, rancori, affetti – alla fine, succedono un sacco di cose, e ci sono un sacco di segreti.

Per questo il non detto è molto importante.

Abbiamo dei personaggi che dovrebbero spiegarsi, aiutarsi a vicenda, eppure parlano poco, sembrano incapaci di esprimere i propri sentimenti senza fare danni. Abbiamo un dialogo, quello che regge l’intera scena, fra due uomini seduti a un tavolo: ogni oggetto nella stanza di Giampiero, illuminata dal fuoco, assume per forza un’importanza ritmica e scenografica, ogni gesto suo e di Davide è importante. Il lettore capisce attraverso i gesti quello che i personaggi possono anche non dire.

La storia d’amore fra Davide e Silvia era il nucleo originario della storia. C’erano già tutti i personaggi intorno, le rispettive famiglie, il paese, ma l’aver tradotto il racconto in prima persona ha fatto venir fuori di più anche altri aspetti, per esempio il lavoro di Giampiero, il suo apprendistato con Uliano (il padre di Davide), anche i suoi pensieri.

Non è che volessi parlare d’amore; è che in questa storia, come capita, c’era l’amore, un amore che degenera e va in rovina, allora l’ho seguito e ho osservato come mano a mano, senza volerlo, nonostante si desideri più di ogni altra cosa il calore del focolare domestico, tutto si metta di traverso, e a questa rovina che ci arriva addosso noi non possiamo opporre resistenza, più ci dibattiamo e più l’acceleriamo, perché le cose vanno come devono andare, e non c’è un perché. Per citare Giovanni Lindo Ferretti: “Succede, è successo, si sgretola e via.”

La Lince

Accenni al fuoco, che nel romanzo ha la valenza del focolare domestico e diviene emblema del senso rassicurante di casa, che Giampiero e la moglie hanno saputo creare e conservare, e che Davide e Silvia si sono negati, ma nella complessità dei simboli riusciti mi sembra che si rifranga in diversi significati, anche nel polo negativo. Quasi a segnare che la vita non è mai lineare, che c’è sempre un lato oscuro, fuori e dentro di noi.
Ci sono altri due segni metaforici esistenziali molto forti nel romanzo: la lince e le api.
Come se tu volessi indagare l’introspezione dei personaggi nei casi che il destino riserva loro non solo attraverso la fitta rete dei dialoghi e delle parole che si scambiano, ma anche attraverso dei “segni” che li fanno appartenere a un “creato” complesso e contraddittorio.
Potremmo dire che le vicende dei personaggi ruotino intorno a questi tre simboli: fuoco, lince e api? E si potrebbe da essi ricavare il senso più profondo e “filosofico” del romanzo? 

redroom-640x420Sì: il fuoco apre e chiude il libro, che ha una struttura circolare. Il fuoco è il calore familiare del camino acceso, ma è anche la potenza distruttrice che ha bruciato la mano di Giampiero – una cosa che lui vede come un segno.

L’attività con le api è diffusa nelle zone in cui il romanzo è ambientato, è un’attività piena di cose interessantissime da imparare: le api sono molto affascinanti. A un livello simbolico, viene immediatamente da collegarle alle stagioni calde e soleggiate, alle fioriture, all’operosità, alla dolcezza del miele, alla luce del giorno… È l’idillio che Davide e la Silvia tentano di costruire.

La lince sta nel buio, dalla parte della notte – mi sembra che “Il giro del miele” sia un libro anche molto cupo, in certi tratti, e in questo senso la lince e le api sono simboli antitetici. Poi, la lince è un animale totemico, nel testo, una presenza che appare ai personaggi e li costringe ad agire. Mi viene in mente una cosa che ha detto Emilio Rentocchini, presentando il libro: “Dio è nei boschi”. E collego questa frase a un’altra detta da Giulio Mozzi, sempre presentando il libro: “La lince è Dio”. (Perché, diceva Giulio, la lince appare ai personaggi, che non hanno scelto di vederla, e li costringe a stare di fronte a se stessi, e una volta al cospetto della lince ai personaggi non è più concesso di mentire). Ora, queste suggestioni che trovo molto belle e centrate sono cose a cui non avevo pensato con questa precisione e questa forza: ciò dimostra che, come tutti i simboli, il fuoco, le api e la lince sono simboli aperti – da cui, a posteriori, si possono ricavare inquietudini e interpretazioni che danno diversi livelli di comprensione del testo: l’importante è non fare di questi simboli un vincolo a monte, un programma, altrimenti diventa un gioco sterile, si uccide la storia. Il piano simbolico, che c’è sempre in ogni racconto, indipendentemente dal nostro grado di consapevolezza, mette in relazione gli accadimenti con qualcosa che sta al di là degli accadimenti, in un altro livello, apparentato con quello in cui i fatti succedono, ma diverso; a volte distorto, a volte speculare, a volte solo più profondo e spirituale: pensa alla stanza rossa di Twin Peaks.

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Poi c’è il bosco, e anche qui i simboli sarebbero tanti a partire dalla bellissima scena dell’incontro di Silvia, lasciata sola dal padre alla ricerca di funghi, con Davide e Uliano, e la città, Bologna, l’altrove e luogo di perdizione.

C’è una dicotomia molto forte tra la tranquillità del paese, che però non salva dalle frustrazioni della vita, e la città in cui perdere se stessi. 

Silvia si salva, perché sceglie di tornare (anche se poi per tornare a essere felice deve andare via) e Davide si perde perché rimane, senza darsi mai una scelta. Potrebbe essere una chiave interpretativa per i tuoi personaggi, o la loro vicenda è slegata dai luoghi in cui la vivono?

Senza avere attorno dei boschi non potrei vivere. C’è poco da dire, è così. Mi manca tanto di non passare nei boschi tutto il tempo che vorrei, di non fare ad esempio il lavoro che fa mio fratello, che di funghi e tartufi ha fatto una professione. Ma ho fatto delle scelte, in passato, sono andato giù, come si dice, in pianura, poi sono tornato su, in collina a mezza strada, ma da turista di me stesso, da spiantato. Ho scelto di vivere da spiantato, e mentre lo sceglievo non me ne rendevo conto.

Il bosco è intimamente collegato alla mia infanzia, a mio padre, a tutto ciò che di spensierato e primordiale poteva esserci nella vita fino ai dieci anni d’età. Ci torni dentro adesso, lo guardi con gli occhi dell’esteta. Gli occhi dopo un po’ si stancano, sei miope, troppi barbagli, troppa emozione: ecco il segnale che sei uno spiantato. D’altronde, chi decide di rimanere su, si sente spesso solo e lontano da tutto. Il paese è una salvezza dalle cose futili, ma è anche una trappola. Si spopola, muore, d’inverno è deserto e malinconico, e lo sarà sempre di più.

La vicenda dei miei personaggi è sempre legata ai luoghi in cui vivono. Anche quando i luoghi non sono esattamente i miei. Il luogo parla, spesso parla per primo, e non si può fare a meno di ascoltarlo.

La città, è vero, è il regno delle cose futili, delle opportunità intercambiabili, della velocità, della scelta sempre possibile. Il paese è dove non ti è dato scegliere, finché non possiedi una macchina con cui fare tanti chilometri. Silvia va via perché non potrebbe fare altrimenti, e torna perché non potrebbe fare altrimenti. Poi le cose non vanno come sperava: la scena che citavi, quella dell’incontro nel bosco da bambini, ne ha una speculare, sempre nel bosco, che è quella in cui Silvia e Davide diventano consapevoli che si lasceranno.

Alla fine, Silvia trova una sua pace, e sinceramente, verrebbe da domandarsi perché: mi sono chiesto certe volte se non ci fosse uno scatto a vuoto, nel suo personaggio. Ma in effetti lei è sempre stata disillusa: anche mentre tentava di costruire il suo idillio paesano di ritorno, sapeva che c’era una dose di convenzione impastata dentro, impossibile da separare.

Sandro-Campani

A me sembra, Sandro, che Silvia in quella convenzione si sia voluta abbarbicare come una salvezza, riempiendola di amore per farne qualcosa di diverso, e la scelta di lasciare Davide e l’irremovibilità della sua decisione siano dovute proprio alla disillusione di quella speranza: che il suo matrimonio potesse essere qualcosa di diverso dalla convenzione che segna le vite umane.

Per concludere. L’elemento strutturale del tuo romanzo che più ha colpito la mia ammirazione di lettrice è l’uso accorto, misurato, inedito, dei tempi verbali: il passato con cui è scritto il romanzo in maggioranza; il presente che si intreccia al racconto a segnare dei passaggi emotivi; e il futuro, scelta straordinaria, ricca di compartecipazione, nelle pagine finali. È attraverso l’uso dei tempi verbali che tu crei da una parte una situazione fiabesca e dall’altra la complessità della vita stessa, che si snoda non semplicemente in un andamento lineare di passato presente e futuro, ma in un groviglio in un cui il futuro diviene presente, e il presente passato, e il passato può trasformarsi nel futuro, in maniera rinnovata e nuova. 

Mi sembra che il messaggio delle pagine finali ottenga questo effetto: l’augurio di trovare nel futuro requie e superamento a ciò che del passato ci tormenta. Non un semplice andare avanti, ma un tornare sui propri passi, passi familiari e conosciuti, con la speranza che nel futuro si sappia vivere meglio il presente, al netto di tutte le sofferenze del passato.

Quel ravvivare le braci nel finale, a me ha dettato un senso profondo di quiete e di ricomposizione emotiva dai tormenti, e forse anche il coltello, altro oggetto fondamentale che si intravede nei momenti importanti della storia, assume questo compito: di riconsegna e restituzione di ciò che è stato, in una visione nuova e albeggiante.

fire-290920_960_720Sai? Curiosamente, in momenti diversi, mi è stata sottolineata quella scelta del futuro come una cosa potente e originale. Io non ci avevo per nulla pensato, mentre scrivevo il finale del libro (tant’è che credo sia una delle parti che ho praticamente scritto di getto e lasciate intatte): non ci avevo pensato perché, per una precisa motivazione strutturale (siccome la storia si apre nel momento in cui da fuori uno dei due personaggi irrompe nella stanza dove sta l’altro, si dipana tutta in una notte in quella stanza, dalla quale dopo aver chiuso il cerchio i due usciranno), mi sembrava naturale che a quel punto, quando quella porta finalmente viene aperta per uscire, dovesse esserci un passaggio netto, un’apertura anche al tempo, alle possibilità. Una persona a cui tengo moltissimo mi ha detto perché quel futuro la mette sottosopra: perché è legato al rimpianto. È stata un’intuizione che mi ha spiegato tanto del mio stesso modo di guardare le cose. Poi l’altro giorno stavo presentando il libro insieme a Giorgio Vasta, e lui ha tirato fuori lo stesso concetto, che abbiamo scoperto di condividere; mettiamo che io passi, camminando per una stradina mai percorsa prima, accanto a una casa dipinta da poco, dal cui giardino occultato da una siepe provengono schiamazzi: magari qualcosa mi colpisce in quel momento, una luce, il suono di una in particolare fra le voci che sento venire da oltre la siepe, il modo in cui un’altra voce le risponde, il modo in cui il glicine è fiorito. Ecco, è normale per me, per il mio modo di lasciarmi colpire dalle cose, immaginare quella casa nel futuro, abbandonata, scrostata, e da quel punto guardare a quell’oggi col glicine e le voci. In quel senso il futuro è già un rimpianto. E la distanza fra il futuro da cui immagino di guardare e il presente che sto guardando determina in me una commozione che mi spinge a scrivere.

Per il coltello vale un po’ lo stesso: per tutta la storia, così come altri segni, il coltello ha oscillato, da segno di male a segno di bene. Ora Giampiero non sa cosa succederà: lo immagina, si abbandona al pensiero di cosa faranno, di cosa vedranno, lui e Davide; tutto rimarrà aperto: quello che è certo è che, usciti da quella porta, saranno in grado di accettare quel che prima non potevano, anche l’insensatezza.

Non posso che ringraziare con commossa e profonda gratitudine Sandro Campani, che non solo ha scritto un romanzo meraviglioso, ma si è anche prestato con generosità a rispondere alle mie domande.

Chiacchierando con… Sandro Campani
Tag:     

Un pensiero su “Chiacchierando con… Sandro Campani

I commenti sono chiusi.