di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

Guardare il mondo a otto anni

“Tina”, Alessio Torino, Minimum fax

18051810_796231307202232_1193922757_n

Guardare il mondo a otto anni. Guardarlo e nel mentre pescare meduse con un retino, aprire le braccia sotto la doccia per diventare indistruttibile, mentre il getto gelato può quasi frantumare la testa, pensare di essere un pesce. Tina è diversa da tutti gli altri e lo sa. Ha qualcosa che le permette di leggere dentro chi ha di fronte. C’è un che di profetico in questa sua saggezza che esula dalla sua età o, forse, arriva proprio perché ha otto anni. Sembra arrivata da un racconto di Čechov, Tina. Un romanzo di formazione che si nutre dei precedenti, “Tina” di Alessio Torino, Minimum fax; basti pensare a “Tetano”, in cui si sviluppa il delicato passaggio all’età adulta attraverso le avventure di un gruppo di ragazzini nei luoghi dell’Appennino che richiamano un’apparente tranquillità celando invece un dolore oscuro.

17909364_796231267202236_1323164707_nIn “Tina” però la percezione è che l’autore abbia articolato con maggior consapevolezza un romanzo che si interroga sul senso della vita e su cosa rappresenti, se esiste, la felicità. Per farlo attraversa anche la scoperta della sessualità, un avvicinamento alla propria identità sessuale con l’infatuazione per una nuotatrice francese. Tina è una bambina minuta, si sta affacciando alla pubertà ma non ha sviluppato tratti evidenti femminili, il suo corpo non richiama una femminilità a cui invece aspira sua sorella gemella, Bea. Tina è vista come un maschiaccio e spesso viene scambiata per tale, cerca di non curarsene anche se tutto questo, in fondo, la ferisce. Per non farsi del male pensa alle parole di Andre: lei è un pesce. È quello che le aveva detto e lei ci crede, è davvero così.

Nel contesto vacanziero di un’estate a Pantelleria, apparentemente spensierata tra giornate che scorrono uguali a se stesse, prende vita un microcosmo di esistenze che gravitano attorno al ritrovo all’Alta marea. Ben presto il lettore si rende conto che quella spensieratezza generale in realtà è solo apparente, perché ogni personaggio porta con sé un peso, anche se cerca di nasconderlo agli occhi degli altri. Il peso della madre di Tina, partita da sola con le due figlie mentre attraversa la separazione dal marito infedele. Il peso di Andre che sceglie di aprire un ristorante per cambiare vita, o quello di Charles che lascia il Canada e vive nel dolore per la perdita di sua moglie. Su tutto questo plana leggera la scrittura di Alessio Torino, che procede per piccoli tocchi narrativi, usando la terza persona e calandosi, così, nella prospettiva di Tina, nel suo modo di vedere le cose e di assorbire il dolore, quello subìto e quello vissuto da chi la circonda. In questo modo, come ha sottolineato Goffredo Fofi, il lettore si ritrova in un mondo di cui, azione dopo azione, scopre insieme a Tina le trame e il non detto. Inevitabile sviluppare una sorta di empatia con la protagonista e perdere, assieme a lei, l’innocenza.

Un richiamo ideale ad “Agostino” di Alberto Moravia, per il modo di raccontare l’affacciarsi all’età adulta anche attraverso la scoperta della sessualità durante un’estate al mare. Il suo protagonista, appena adolescente, vive in quella vacanza in Versilia il confronto con le proprie debolezze, gli istinti primari che dominano l’essere umano, sviluppando un rapporto morboso con la propria madre. Un percorso travagliato non solo per il protagonista ma per le sorti del libro stesso, che sulla stesura del 1942 subirà il veto imposto dalla censura fascista proprio per le tematiche legate al sesso, per poi essere pubblicato con la Bompiani, dopo la prima edizione per Documento, nel 1945. Ma ciò che forse più avvicina “Tina” all’opera di Moravia non risiede tanto nelle tematiche quanto nella scelta di limare la narrazione e modellarne l’incedere in favore della brevità, quella brevità che è sorella del talento secondo Čechov.

18110756_796231287202234_180881447_n

Penso al modello francese o al romanzo breve che si impone sino agli anni Sessanta nella letteratura latino americana. Permettere uno sviluppo narrativo con un’estensione che favorisce un’elaborazione quasi ritardata dei sentimenti latenti e del non detto, dà carta bianca al lettore, che si arroga il diritto di riempire quei vuoti lasciati intenzionalmente dall’autore, sfiorando quelle storie e lasciando che si sviluppino quasi autonomamente senza calarsi in giudizi di sorta. Grandi autori latino americani, uno su tutti Juan Carlos Onetti, hanno fatto della forma breve un approdo funzionale alla volontà di non fossilizzarsi su un impianto predefinito, ma rimodellato sulla base delle differenti narrazioni che i personaggi impongono.

torino_urbinoE se nel precedente romanzo, “Urbino, Nebraska“, si rintracciava un chiaro omaggio a Paolo Volponi, ritornano anche in “Tina” alcuni dei percorsi sviluppati dal poeta e narratore di “Urbino”, in particolare per il senso di alienazione vissuto da alcuni personaggi di Volponi. Penso a “Il lanciatore del giavellotto”, uscito per Einaudi, dove Volponi sviluppa attraverso il protagonista Damin un modo di vivere l’adolescenza sul filo della malinconia giovanile, scandita anche da un rapporto difficile con il genitore. Parla in fondo di purezza Volponi, di quella sporcata e di quella che può forse restare intatta, come l’animo di Tina. In modo sottile si insinuano riferimenti a grandi esempi di letteratura. Penso a Katherine Mansfield, autrice del “Preludio”, nella scelta del padre di Tina, mai accolta dalla madre, di dare alle figlie i nomi di Kezia e Lottie, proprio come nel racconto di Mansfield. In qualche modo ritorna sottilmente il legame a Čechov. Mansfield in una lettera del 1921 scrive sull’autore russo che “L’artista guarda ben bene la vita. Dice sommessamente: Sicché è questa la vita, eh? E si mette al lavoro per esprimerla”. Risiede nel non detto e nell’interpretazione diversa generata di volta in volta nel lettore la chiave per leggere Tina. Quel non detto richiama idealmente il modello a cui si rifanno autori che, come Mansfield, guardano a Čechov proprio perché non interessati tanto alle trame ma a ciò che passa nell’arco di un respiro, come sottolinea Francesca Sanvitale, “nell’incrocio di due sguardi nel momento della sospensione, quando tutto si fa palese e arcano”. Questa l’essenza della scrittura per Mansfield che intuiva, come Čechov, che occorre guardare alla “certezza esterna del mondo, al brulichio in continuo flusso della vita”, proprio perché la bellezza della vita risiede nella sua “caleidoscopica apparenza”.

Pantelleria rappresenta al tempo stesso il desiderio di fuga e il confine opprimente, soffocante, che impone ritmi, scanditi dal maestrale e dalla vita sull’isola, che richiamano le descrizioni di Procida di Elsa Morante ne “L’isola di Arturo”. L’isola racchiude e delimita ciò che accade, un’isola che rappresenta da sempre un crocevia di persone, nel presente come nel passato, e che porta ancora i segni della sua storia: nella parte del centro storico ricostruita dopo i bombardamenti del ’43, nel faro in cui Tina, Bea e la madre si rifugiano vivendo una profonda solitudine, e nella Montagna Grande che è stata un vulcano. Ciò che rappresenta l’isola per i protagonisti di Tina è racchiuso nelle parole pronunciate da Andre: “La vita non è quella che tu hai deciso che sia. La vita è la vita e un’isola è un’isola”. Secondo Joseph Conrad un’isola è la vetta di una montagna, percepiva nel vulcano una vicinanza quasi più agli esseri animali che ai minerali, scrivendo riguardo il protagonista di Vittoria che “in un certo senso il vulcano gli teneva compagnia, in quella tenebra notturna”.

Nessuna volontà però di costruire un’immagine stereotipata o creare metafore forzate da parte di Alessio Torino: sono i paesaggi e la natura selvaggia a parlare da soli e a richiamare, idealmente, l’indole della protagonista. Sembra di sentiere le parole di Antonella Anedda in “Isolatria”, Laterza, quando racconta l’avvicinamento all’isola con una prosa che è come poesia. “Il desiderio dell’isola è proporzionale all’angoscia. È un recinto. Possono colpirti o proteggerti. Lo so, quando sei sul Continente puoi struggerti per quel brandello di pietre sul mare ma quando arrivi, soprattutto dopo una sola notte di tempesta, pensi solo a come andartene. L’isola dice la verità, cioè che torni, ma il tuo luogo non è ancorato a nulla e per scappare devi metterti in acqua o salire nell’aria. Sognare delle isole – scrive Gilles Deleuze – poco importa se con angoscia o gioia, è sognare che ci si separi, che si è già separati, lontano dai continenti, che si è soli e perduti”.

La “Pantelleria” di Alessio Torino sembra richiamare idealmente le parole di Francesco Longo. Ne “Il mare di pietra”, Laterza, nel parlare delle Eolie, definite come luoghi dello spirito, scrive che non si tratta di isole ma di miraggi di pietra che narrano la preistoria, da visitare portando con sé giusto “Moby Dick” di Herman Melville, o la “Tempesta” di Shakespeare. “Le isole sono sempre delle metafore, ogni volta che si approda bisogna capire quale sia il significato dell’isola su cui si è sbarcati. Le isole sono sempre paesaggi interiori, sono sempre stati d’animo pietrificati”. Tra le pagine di “Tina” si dispiega un quadro vivido e appassionato tra innocenza e la sua perdita, egoismi, rassegnazione e disillusione, rabbia ma anche malinconia e solitudine, sul filo dell’attesa. La figura attorno a cui ruota tutta la narrazione è il padre, assente dalla scena ma costantemente presente nella narrazione perché è nei pensieri di Tina e Bea, spingendole a piccoli atti di ribellione per cercare di comprendere quella persona così enigmatica, e di sua moglie che, per dare un senso alla separazione, si convince che l’unica definizione adatta all’amante di suo marito sia “il suo nulla, ecco chi è”.

Aspetto interessante, questo: raccontare un personaggio quasi indirettamente, non solo con la sua assenza dalla scena della narrazione, ma anche con il vuoto che produce nelle sue scelte dettate da profondo egoismo, che hanno come unica aspirazione il raggiungimento della propria felicità, attraverso una ragazza di vent’anni e attraverso la musica, che ne ricalca la forma mentale. Un uomo risoluto, che non si cura di come appare agli occhi degli altri, che riesce a essere lapidario anche nel giustificare la meticolosità che applica persino nella costruzione di un aquilone, perché in fondo, “l’aquilone è matematica, e la matematica è musica”. E se quel padre enigmatico persegue aspirazioni individuali quasi slegate dalla sfera famigliare, la madre appare come un’osservatrice immobile e disincantata. Il suo sguardo sul microcosmo che la circonda, e di cui sembra sentire di non fare parte, è pungente. Torna quasi ossessivamente sui temi con cui identifica l’altro: amore e morte e l’incapacità comune di accettare i propri limiti. Vede quasi con compassione Andre e suo marito come persone allo stesso tempo incapaci di amare come di invecchiare, cosa faranno quando saranno vecchi o malati?, si chiede. “I pensieri erano tutti lì sulla fronte della mamma, non c’era bisogno degli occhi per vederli”.

Tina incassa e assorbe tutto. Vede il dolore che la circonda, vede la tristezza negli occhi di sua madre, vede una sorella voler crescere in fretta, vede Andre passare da una ragazza all’altra, vede Parì e si chiede cosa sia quel turbamento. Poi vede Charles, e lui vede lei. Il mercante di voci che si nutre di vento come i lupi di François Villon, un uomo alla deriva, un tenore canadese ormai diventato un alcolizzato, che convive con la perdita di sua moglie, Angela. Vive costantemente fuori dagli schemi. Ama i poeti francesi, soprattutto i quattrocenteschi come l’autore de “La ballata degli impiccati”, ha una visione a tratti grottesca della vita e crede in una sorta di fatalismo nel guardare alla propria esistenza ispirato anche dalla poesia stessa. Sceglie di vivere senza conformarsi, anche attraverso azioni che generano subbuglio in quella comunità in fondo profondamente provinciale e perbenista. Ma non se ne cura troppo, è un non allineato, va controcorrente, se vuole, ma mai per voler esibire, solo e unicamente per seguire la propria voce interiore. Gilbert Murray osservava che “nella tragedia greca, quando un uomo si dice felice lo aspetta un futuro oscuro”.

sfinge32Il personaggio di Alessio Torino si interroga sul senso della vita e su cosa rappresenti, se esiste, la felicità, richiamando l’immagine della Sfinge di Edipo. “Lo sapete che domanda faceva la Sfinge agli uomini che la incontravano? Qual è la cosa più felice per un essere umano? Chi rispondeva una cosa, chi un’altra. Ma sbagliavano tutti. La risposta giusta era: Non essere mai nati”. La stessa conclusione a cui, alla fine, sembrerà giungere la stessa Tina che sentirà a un certo punto di non essere più Tina ma Kezia, come suo padre avrebbe voluto chiamarla, in onore alle figure del “Preludio”. In questo senso è come se l’uno avesse colmato l’assenza dell’altra, lei il padre assente, lui la sua Angela. “Si girò per guardarlo, lui o almeno il puntino della sua sigaretta, ma la notte dietro e sopra le sue spalle lo sovrastava. In quella notte il babbo e la mamma non si erano mai sposati. In quella notte lei e Bea non erano mai esistite. Era quella, la felicità più grande. E la Sfinge lo sapeva”. Occorre però scacciare ogni pensiero nichilista, non si tratta di questo, in fondo lo stesso Charles è pronto ad accogliere un’eccezione, ne ha una davanti agli occhi, quindi anche al cospetto della Sfinge potrebbe cambiare la sua risposta. Che cos’è la felicità per un uomo? Conoscere Tina. Perderà la sua innocenza, Tina, in quell’estate, scontrandosi con le inquietudini e le contraddizioni delle storie che passano davanti ai suoi occhi e che lasciano un segno indelebile in lei. Forse per lei ci vorrebbero le parole di Marcel Proust, tra i versi racchiusi in “Poesie”, Editori Internazionali Riuniti, “Il tempo tutto cancella come le onde i giochi/ costruiti dai bimbi sulla sabbia spianata/ così precise e vaghe dimenticheremo le parole/ dietro le quali ognuno sentiva l’infinito”. Tina apre le braccia, ora è invincibile.

 

(Recensione uscita il 13 gennaio 2017 su Repubblica Parma, Libri. Parole e dintorni)

I Libri di Alice: Tina