di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

 

Colpire il Lettore.

“Avevo un insegnante di scrit­tura molto bravo, Andrew Lytle, che diceva sempre: ‘Scava il tema’. Col­pisci il lettore ma non fargli mai ca­pire cosa lo ha colpito; se lui capisce cosa l’ha colpito, non riuscirai più a colpirlo di nuovo”.(Mary Flannery O’Connor)

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Sabato 1 aprile ai Diari abbiamo presentato il libro di Seba Pezzani “Profondo Sud – Un viaggio nella cultura del Dixie” edito da Giulio Perrone Editore.
17792311_10213140544536883_1020101699_nColpire il lettore o l’ipotetico lettore anche con il dialogo durante una presentazione di un libro. Ed è quello che ha fatto magistralmente, dialogando con l’autore di Profondo Sud un’amica storica dei Diari di bordo, la scrittrice Elisabetta Bucciarelli. In assoluto una delle più belle presentazioni di libri a cui io abbia mai assistito in tanti anni. Ritmo musicale ma soprattutto ritmo incalzante delle parole. Quelle giuste, quelle che servono quando il silenzio da solo non basta. Le domande mai banali da fare ad una presentazione. Elisabetta Bucciarelli sa come tenere alto l’interesse di chi ascolta ed interagire con il pubblico e, in questo caso, i musicisti e lo scrittore e traduttore Seba Pezzani.
Un libro di viaggio, ma non solo, quello di Seba. Un libro per chi ama viaggiare ma anche per un lettore sofisticato amante della letteratura, della musica e della cultura degli Stati Uniti. Storie che il tempo non ha cancellato nel Sud degli Stati Uniti. Storie di scontri tra neri e bianchi, di bandiere Dixie che ancora sventolano fuori da alcune case del Texas, di strade infinite che costeggiano le piantagioni di tabacco del North e South Carolina e della Georgia. Di blues lancinanti ed edonistici ritmi creoli nelle comunità nere del Mississippi e della Louisiana. Sono storie che ancora echeggiano in questo Sud a tratti selvaggio, e sembrano proiettare chi le ascolta in un vecchio film hollywodiano in bianco e nero, a quando il sogno americano gonfiava i cuori di molte generazioni. Un libro che ci racconta anche cosa resta, oggi, di quell’America e di quel sogno. Attraverso un percorso geografico, e insieme letterario e musicale, Seba Pezzani ricostruisce un itinerario carico di suggestioni che dall’Alabama di Harper Lee, passando per le cupe atmosfere del North e South Carolina raccontate da Erskine Caldwell, e ancora incontrando Jeffery Deaver, Daniel Wallace, William Faulkner e Tennessee Williams, tra gli altri, approda a casa di Joe R. Lansdale, uno degli scrittori americani più amati degli ultimi anni. Per quanto mi riguarda è sufficiente parlare di letteratura americana per colpirmi, è sufficiente raccontarmi di una città come Savannah, la città di Mary Flannery O’Connor, “la regina della narrativa sudista” come la definisce Joe Lansdale. A Savannah ci viene descritta la Flannery O’Connor Childhood House, una casetta come tante situata proprio accanto alla chiesa di San Giovanni Battista, dove visse la grande scrittrice della narrativa sudista. In questo racconto Seba Pezzani ci dice molte cose di Savannah ma anche tanti particolari della vita di Mary Flannery O’Connor. In questa cittadina del Sud Johnny Mercer fondò una delle più importanti case discografiche americane, la Capitol Records e qui scrisse una delle canzoni più famose al mondo: Moon River. E’ la città della panchina di Forrest Gump, anche se, volendo essere precisi, il protagonista del romanzo di Winston Groom da cui fu tratto il film viveva in un’altra cittadina: Mobile, in Alabama. Mobile si trova nella baia omonima, in fondo alla Interstate 65, di cui parla Bob Dylan in una sua canzone “Stuck inside of Mobile with the Memphis blues again”. Altra città di cui si racconta ampiamente nel libro è Columbus, nota soprattutto per essere patria del creatore della Coca Cola John Stith Pemberton, ma anche la città di un’altra grande autrice, Carson McCullers che a soli ventitré anni pubblicò “Il cuore è un cacciatore solitario”, una enfant prodige della letteratura americana.
Seba Pezzani però è anche un musicista, ha una cultura musicale enciclopedica, canta e suona la sua chitarra con la band RAB4 e questa splendida guida al Sud degli Stati Uniti è anche una perfetta colonna sonora da ascoltare sfogliando pagina dopo pagina il libro.

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A moderare l’incontro con Seba Pezzani è stata la persona che un anno fa ci aveva messo in contatto con lui, Elisabetta Bucciarelli. Il 23 marzo del 2016 la scrittrice milanese era venuta a presentare il suo ultimo libro, edito da NNE, “La Resistenza del Maschio” e in quell’occasione aveva chiesto all’amico Seba di fare da colonna sonora con la sua chitarra.
Scrittrice e sceneggiatrice, Elisabetta Bucciarelli è una forza della natura e uno degli “ultimi intellettuali a tutto tondo” come dice la mia amica Silvia Sorana. Collabora con testate di cinema, arte e psicologia. Dalla narrativa, alla saggistica è stata in questi anni una sperimentatrice in tutti i campi. Ha osato la penna, oltre che usarla, per colpire i lettori. Tra i suoi romanzi: “Io ti perdono” (Kowalski), “Ti voglio credere” (Kowalski, Premio Scerbanenco 2010 per il miglior noir italiano), “Corpi di scarto” (Verdenero), “L’etica del parcheggio abusivo” (Feltrinelli), “Dritto al cuore” (edizioni e/o). Ha pubblicato anche i saggi: “Le professioni della scrittura” (Il Sole 24 Ore) e “Scrivo dunque sono” (Ponte alle Grazie).
Elisabetta Bucciarelli è autrice di uno dei titoli più venduti in assoluto ai Diari di bordo, “La Resistenza del Maschio” edito tra i ViceVersa della casa editrice NNE. Anche alla fine della presentazione del libro di Seba, La Resistenza è stato molto venduto.
“La resistenza del maschio” è un romanzo contemporaneo scritto benissimo, con una gran bella trama sapientemente costruita, d’architettura perfetta e un linguaggio essenziale. Romanzo contemporaneo che offre numerosi e continui spunti di Riflessione. Il protagonista del libro è il maschio resistente, l’Uomo, brillante docente universitario colto e ossessionato dai numeri e dalla geometria. Uomo ha una vita di successo, moglie, lavoro, casa e si ostina a non volere un figlio dalla moglie. Cerca in ogni circostanza misura e proporzioni. Un Uomo che misura e calcola tutte le cose intorno. Un uomo che conosce la misura di ogni cosa, che calcola spazio, altezza, larghezza, lunghezza, dimensioni, proporzioni. Un uomo che misura la geometria degli ambienti, le mura, gli archi, le torri, i castelli, i grandi edifici in pietra con la stessa precisione con cui misura i sentimenti e le sue certezze. Una notte assiste a un incidente: una donna si schianta contro un palo della luce. L’immagine di lei, simile a un quadro preraffaellita, diventa un’ossessione. Con questa donna il protagonista comincia a intrattenere una relazione fatta soltanto di messaggini e di chat e nessuno contatto fisico. Intanto nella sala d’aspetto di uno studio medico tre donne, Chiara, Marta e Silvia, attendono il loro turno per un dottore che non arriva mai e cominciano, così, una fitta conversazione, che sarà il pilastro narrativo dell’intero libro. Parlano di uomini, e vivono le storie con grande naturalezza sicure di essere alle prese con un nuovo tipo di maschio, quello che resiste, che si nega e non si concede. Al di là della volontà di ciascun personaggio, qualcosa sta per accadere: “La resistenza del maschio” illumina una nuova forma di lussuria, che qui trova la sua ultima metamorfosi. Nel bugiardino che si trova in quarta di copertina del libro ( un classico della casa editrice NNE) viene riportato che: “Questo libro è per chi è innamorato dell’azzurro che non si riesce a toccare, per chi ama soffermarsi nei luoghi di transito e nei foyer dei teatri, per chi disegna tutto quello che vede e per chi non riesce a regalare canzoni per paura di perderle.”

FLANNERY2-1024x668La Domenica successiva alla presentazione, gli scrittori Ivano Porpora e Jacopo Masini hanno tenuto un bellissimo Corso di scrittura creativa e intensiva all’interno della libreria. A Fine corso hanno chiesto ai dieci allievi di spiegare ciascuno a proprio modo cosa deve avere un buon libro per attirare l’attenzione del lettore e stringere un patto narrativo solido. Mi ha molto colpito l’affermazione di uno degli allievi: “io mi aspetto che il protagonista venga fuori da una situazione di merda che si è creata intorno a lui”. Abbiamo iniziato citando Mary Flannery O’Connor per parlare di scrittura e trama che deve colpire e spiazzare il lettore e credo proprio che l’affermazione di quella allieva facesse il paio con la scrittrice di Savannah. Leggere Flannery O’Connor, ad esempio, è un’esperienza preziosa di arricchimento, perchè lei è una che colpisce e affonda il lettore. Il passaggio che ho riportato all’inizio è tratto dalle “Lettere” pubblicate da Minimum Fax in cui esce fuori il tratto più intelligente e imprevedibile della scrittrice di Savannah. Le lettere contenute in “Sola a presidiare la fortezza” sono tornate in una nuovissima edizione, arricchita con lettere inedite, un epistolario unico, che traccia un itinerario tragicomico nell’America degli anni Cinquanta, impreziosito dai commenti caustici e divertiti di un’autrice che, a distanza di anni, mostra una lucidità rara e un innato talento per la scrittura. Leggere le lettere di qualcuno è come accettare l’invito a entrare nel suo mondo, nelle sue stanze, nelle sue relazioni: ci si rende come spettatori della vita altrui. Se a scrivere è Flannery O’Connor, l’esperienza assume un altro valore, quello di affacciarsi al laboratorio creativo di una delle più interessanti voci della letteratura statunitense del dopoguerra: è tramite la sua fitta corrispondenza, infatti, che l’autrice proponeva i suoi scritti agli agenti, riceveva critiche o elogi dai lettori, discuteva della sua opera e chiedeva consigli ad amici del calibro di Robert Lowell o Elizabeth Bishop. Entriamo così in un mondo popolato da autori, lettori, critici e agenti, ma non solo: le riflessioni letterarie si intrecciano con amare – ma sempre ironiche – osservazioni su ogni aspetto del reale, compresi fatti di cronaca dell’epoca, e con la costante espressione di una religiosità serena, mai cupa, mai pietistica. Una vita breve, quella dell’autrice, adombrata dall’oscura presenza della malattia, il lupus eritematoso, che le fu diagnosticato nel 1951: ben presto costretta a muoversi e viaggiare il meno possibile, la O’Connor sembra però non perdere mai curiosità e voglia di vivere.
eganSempre pubblicato da Minimum Fax è un libro capace di colpire e stendere al suolo il lettore. Si tratta del romanzo di Jennifer Egan “Il tempo è un bastardo”. Vincitore del Premio Pulitzer per la letteratura e di tantissimi altri premi, è considerato tra i 12 migliori romanzi del XXI secolo. “Il tempo è un bastardo” è un romanzo insolito, formato da una serie di racconti eterogenei per ambientazione e stile, ma collegati dal ricorrere degli stessi personaggi. Al centro ci sono Bennie Salazar, ex musicista punk e ora discografico di successo, e il suo fidatissimo braccio destro Sasha, una donna di polso ma dal passato turbolento. Le loro storie si snodano fra la San Francisco underground di fine anni Settanta e una New York prossima ventura in cui gli sms e i social network strutturano le emozioni collettive, passando per improbabili ascese sociali e matrimoni falliti, fughe adolescenziali nei bassifondi di Napoli, scommesse azzardate ma vincenti su musicisti dati troppe volte per finiti. Intorno a Bennie e Sasha si compongono le vicende delle loro famiglie, dei loro amici, dei loro mentori: una costellazione di co-protagonisti indimenticabili grazie alla quale la Egan riesce a raccontare le degenerazioni isteriche del giornalismo e dello star-system, la pericolosa meraviglia delle droghe psichedeliche, le delicate dinamiche emotive di un bambino autistico nella provincia americana del futuro. “Il tempo è un bastardo” supera con coraggio gli stereotipi della narrativa tradizionale ma resta godibile e appassionante per tutti i lettori: è un romanzo-mondo aperto alle infinite possibilità dell’esistenza e della prosa, che si è conquistato la vetta della scena letteraria americana e si avvia a diventare un caso internazionale.

download (1)Letteratura capace di spiazzare e di colpire il lettore. La letteratura con una marcia in più è quella di un libro meraviglioso come “Sul soffitto” di Éric Chevillard pubblicato da Del Vecchio nella collana Formelunghe.

Un prezioso gioiello narrativo in cui un leggero sentimento dell’assurdo pervade la finzione, come scrive nella nota Gianmaria Finardi, che ha tradotto nella nostra lingua il libro. In un monologo serrato, il protagonista racconta la sua difficoltà di percepire la realtà.Un uomo ordinario, abiti grigi, altezza media, tratti comuni. Ma il mondo non è fatto a sua misura, la sua vita è complicata da una strana caratteristica: gira sempre con una sedia rovesciata sulla testa. Deve quindi chinarsi per passare attraverso qualsiasi porta, può guidare soltanto una cabriolet e deve per forza indossare abiti abbottonati sul davanti. Nulla, ma proprio nulla – si lamenta – è stato progettato per rendergli la vita più confortevole. Per avere un mondo a sua misura, c’è una soluzione: trasferirsi sul soffitto. E sul soffitto trascinare gradualmente chi gli è caro e chi si colloca, come lui, in un diverso ordine di percezione della realtà. Per esempio Kolski, che vuole realizzare una scultura fatta del suo stesso odore corporeo, o la signora Stempf, che si rifiuta di dare alla luce i propri figli, perché immagina il parto come uno sfratto forzato per mano di rudi insensibili.
Costretti ad allontanarsi dal loro rifugio di fortuna, in un quartiere abbandonato di Parigi, e dopo essersi trasferiti a casa di Méline, che vive ancora con la sua famiglia “convenzionale”, si renderanno presto conto che la camera da letto della ragazza è troppo piccola per accogliere tutti. Così, i nuovi arrivati decidono di spostarsi sul soffitto. Lì c’è più spazio. Ma anche il soffitto comincia ad assomigliare dopo un po’ al mondo a rovescio; sembra afflitto dalla medesima e fastidiosa convenzionalità.
La prosa sorprendente e irriverente di Chevillard e il suo bizzarro umorismo illuminano la complessità di temi come esclusione, diversità e accoglienza, dando ai lettori la possibilità di vedere le cose da una prospettiva decisamente differente.

Sturgeon-1975-Marc-Zicree-766x600Tra i romanzi pubblicati di recente in Italia e capaci di spiazzare il lettore c’è sicuramente “Godbody” di Theodore Sturgeon.
“Godbody” racconta l’arrivo nel New England di un uomo misterioso il cui semplice tocco trasmette un irresistibile desiderio di amare e fare l’amore. L’ultimo romanzo scritto da Theodore Sturgeon, finora inedito in Italia per la natura decisamente sessuale delle descrizioni e per il messaggio rivoluzionario che porta con sé, è un’opera controversa e straordinaria, e per usare le parole di Robert A. Heinlein, che vi ha dedicato un breve saggio, “l’ultima lettera d’amore di Sturgeon”.
Riporto la bellissima recensione dell’amica dei Diari Chiara Lecito apparsa su Crapula Club:
“Godbody racconta una di quelle storie che, per quanto risapute e riferite milioni di volte, non perdono mai in freschezza e ribadiscono ogni volta la loro necessità: volano talmente alto e scavano tanto nel profondo da raggiungere una statura intima e mitica. Come l’Ospite del Teorema pasoliniano, o il Quinto Evangelio nascosto e allo stesso tempo disvelato da Pomilio, o L’idiota dostoevskiano o lo Zarathustra raccontato da Nietzsche, Godbody trasmette un insegnamento sovversivo e ardito che non può essere riferito con le parole, ma deve essere sentito, fatto proprio, vissuto e solo in seguito condiviso con altri, in una ricerca perpetua e incessante.
Questo perché Godbody, il personaggio che dà il nome al romanzo, entra letteralmente nudo e vulnerabile, ma allo stesso tempo indistruttibile, nella vita di coloro che incontra durante il suo brevissimo passaggio, e porta con sé un messaggio intuitivo e intraducibile, ovvio e rivoluzionario, che scardina ogni coordinata e senso d’identità in tutti coloro che ne vengono a diretto contatto.

Nel romanzo, i riferimenti al percorso umano e divino di Cristo sono chiarissimi, come lo sono i richiami agli archetipi ad esso collegati: ci sono il primo apostolo Dan Currier, la fiera Maddalena Britt Svenglund, l’indemoniato Hobart Wellen, la farisea e paladina della morale Willa Mayhew, il pubblicano convertito Andrew Merriweather; e poi ci sono la nascita (il risveglio dei corpi, e la connessione tra questi e una nuova dimensione dell’essere), la morte e la resurrezione, i miracoli; ma, più di tutto, c’è il piacere di leggere un racconto che sappiamo come andrà a finire, di cui conosciamo a menadito tutti i passaggi, ma che ancora ci parla, e che ha come protagonista una figura che non si pone come guida o come esempio ma solo come canale, come via da seguire per entrare più in contatto con noi stessi, una figura di cui si sente sempre la necessità.

Godbody, come il Cristo primigenio e non mediato dalla chiesa, giunge a noi con lo scopo di distruggere l’idea che ci siano cose giuste e cose sbagliate, e per liberare il mondo dal peccato, ovvero dal senso di colpa. E allora, a una morale immobile e portatrice di dolore e di giudizio, il protagonista di Sturgeon sostituisce un’etica fluida, accogliente e rigenerante, e a uno stato di regole minaccioso e inerte fa subentrare un vivere travolgente, generoso e pieno di significato.

La risposta non è fermare le cose, ma lasciarle andare.
La risposta non è coprire e nascondere, ma toccare e condividere.
La risposta non è pensare, ma sentire.

Sturgeon rifugge ogni misticismo e ogni tono predicatorio, limitandosi a sfruttare la forza intrinseca della sua storia e credendoci fino in fondo, senza farsi intimorire da eventuali sfumature sacrileghe o scandalose.
Ed è questa onestà la forza del romanzo, l’elemento che lo ripulisce da ogni sentore di già detto, che rinforza la storia nella sua mutevole e ciclica eternità, nel suo morire nel nostro pensiero e rifiorire nelle nostre più recondite e private percezioni, offrendo pienezza alla nostra vita.

La risposta non è morte, ma amore.
Non morte, ma vita.
Non morte!”

ralph_dutliC’è un libro uscito per Voland parecchio interessante. Si osa nella scrittura, nel racconto della trama e si colpisce il lettore che ne resta spiazzato. Si tratta del libro di Ralph Dutli “L’ultimo viaggio di Soutine”. Il mio amico Andrea Cabassi ne ha fatto una magnifica recensione con il titolo esemplificativo di “IL RISCHIO DELLA PITTURA, IL RISCHIO DELLA SCRITTURA” :

Il romanzo è un rischio afferma lo scrittore, poeta, traduttore dal russo Ralph Dutli in una sua riflessione ripresa dal sito www.grafias.it/read-offline/1508 e tradotta da Chiara Caradonna e Flavia Pantanella. Il romanzo è davvero un rischio? Lo sono la poesia e la pittura? E chi è Ralph Dutli? Fino a non molto tempo fa, uno sconosciuto in Italia. Dobbiamo essere grati alla casa editrice Voland di averlo introdotto e fatto conoscere nel nostro paese con la pubblicazione del suo romanzo “L’ultimo viaggio di Soutine”, ottimamente tradotto da Chiara Caradonna e Flavia Pantanella (Cfr. Dutli, R: “ L’ultimo viaggio di Soutine”. Voland Roma. 2016). Un romanzo che ha già avuto numerosi riconoscimenti in Svizzera e Germania e che è stato tradotto recentemente in Francia. Dutli è svizzero, è nato a Sciaffusa, ma ha vissuto tra Germania e Francia. Nel suo scritto, reperibile nel sito di cui sopra, “Il romanzo è un rischio” egli afferma, tra l’ironico e il divertito, che all’uscita di “L’ultimo viaggio di Soutine” è stato trattato come un debuttante. Come se i critici avessero dimenticato che aveva già pubblicato una trentina di libri, che aveva tradotto l’opera omnia di Mandel’stam ottenendo, per questo, il prestigioso riconoscimento Jhoann-Heinrich-Voss-Preis della Deutsche Akademie fur Sprache Und Dichtung; dimenticando che è uno dei più importanti traduttori europei della poesia russa. Evidentemente il romanzo è un’altra cosa perché “il romanzo cambia la nostra vita”, perché “il romanzo vuole essere conquistato e sofferto”, perché “il romanzo è una scuola di scetticismo” perché “è un prodotto pieno di insidie”, perché “è un genere astuto e particolarmente insidioso”, perché “vorrei qui definire il legame tra autore e lettore come un’unione fatale”.
Di cosa parla, dunque, “L’ultimo viaggio di Soutine”? Parla del pittore bielorusso Chaim Soutine che, nel 1913, approda a Parigi dopo essere fuggito dalla sua terra d’origine dal suo paese, Smilovici, in cui è nato; parla della sua difficile relazione con i pittori che frequentavano Montparnasse; parla delle correnti pittoriche con cui mai Soutine riuscì a identificarsi o a trovarvi appartenenza; soprattutto parla del suo ultimo viaggio: quello che da Chinon dovrà portarlo a Parigi. Un viaggio fatto su un carro funebre per evitare la cattura in quella Francia divisa in due dove il sud è NON O, zona non occupata e il nord è O, zona occupata, in quella Francia che aveva visto sorgere la Repubblica di Vichy e pullulava di spie e collaborazionisti. Un viaggio intrapreso con l’obiettivo di subire una difficile operazione a causa di una forma gravissima di ulcera che da anni affliggeva il pittore. Un viaggio che è un paradosso perché “nascosta in un carro funebre la vita avanza verso la sua ultima operazione”. Un viaggio intrapreso in compagnia di Marie Berte Aurenche, compagna del pittore ed ex moglie di Max Ernst a cui Dutli affibbia il nomignolo di Ma-Be, evidente assonanza con il termine inglese May Be -dice lo stesso Dutli- perché may be è “forse”, perché forse le cose non sono andate proprio come lui descrive, perché forse le cose della vita sarebbero potute andare diversamente da come sono andate, in una sorta di semantica dei mondi possibili. Un viaggio intrapreso in compagnia della morfina, unico sostegno al dolore provocato da quell’ulcera che porterà Soutine alla morte.
Il libro parla del dramma della Francia divisa, di ebraismo, di nazismo, di pittura, letteratura, di morfina e dolore. Parla di teologia e filosofia. Di Politica con la P maiuscola. Di Storia e di storie. Ma non si spaventi il lettore perché il miracolo di questo romanzo, che è anche di alta poesia, è che tutti questi temi sono affrontati senza nessun appesantimento, la frase scorre fluida e ti seduce e tu vuoi andare avanti per vedere quello che accade o tornare indietro per rimettere a posto i tasselli di una biografia tormentata. Grande merito in questa cattura del lettore va ascritto alle due traduttrici, Chiara Caradonna e Flavia Pantanella.
Come è ovvio, tutto comincia con le origini. Chaim (che in ebraico significa vita) Soutine è un senza patria. Fugge da Smilovici per fuggire dalla sua infanzia fatta di infelicità e povertà. Se, come afferma Rilke, la patria sono i ricordi d’infanzia, fuggire la patria è fuggire dai ricordi d’infanzia, un’infanzia che Soutine vorrebbe cancellare, che vorrebbe rimuovere nelle parti più profonde dell’inconscio, forse non sapendo che, prima o poi, siamo condannati al ritorno del rimosso. In lui non vi è neppure la ricerca di una nuova infanzia, di una infanzia vergine -il che non sarebbe neppure possibile- ma di un angolo di mondo al quale appartenere. Quell’angolo di mondo che potrebbero essere i paesi del sud della Francia, quell’angolo di mondo, grande e terribile, che potrebbe essere Parigi.
Durante il viaggio sul carro funebre e sotto l’effetto della morfina, Soutine rivede la sua tormentata esistenza. Ma la morfina destruttura la temporalità. Ci sono salti in avanti e indietro. In questo andirivieni della memoria scorrono davanti a noi le immagini di pittori famosi come Picasso, Modigliani, Max Ernst, il poeta e pittore Max Jacob. Soprattutto Modigliani con cui Soutine ebbe un rapporto di amicizia, quel Modigliani che, unico, riuscì a ritrarlo. Scorrono davanti a noi le immagini di scrittori come Celine -a cui Dutli non risparmia i suoi strali- che un giorno, essendo medico, raccolse dalla strada Soutine, dolorante per la sua ulcera.
I tempi verbali obbediscono a questo andirivieni della memoria. Si alternano il tempo presente con il passato remoto, con l’imperfetto. Non solo. Nella struttura narrativa, a volte, fa capolino una prima persona singolare. Che spesso non è la voce di Soutine, ma quella di altri pittori, delle donne amate, dei mercanti d’arte, di gente comune. L’impressione è che essi rendano testimonianza a uno sconosciuto, anonimo interlocutore. Questa struttura narrativa è di grande potenza e attualizza la vicenda umana di Soutine perché sembra di assistere ad un’inchiesta fatta oggi.
Cosa sono, cosa resta delle origini quando si rifiutano la patria e i ricordi d’infanzia? Cosa resta delle origini quando anche la propria opera sembra rifiutata? Perché Soutine bruciò molte delle sue opere e cercò di “ucciderne” altre a coltellate. Cosa e chi voleva uccidere quando tentava di immergere nella tela la lama affilata di un coltello? O quando assisteva agli incendi di quadri da lui stesso appiccati? Bruciava parti di sé? Ci sono momenti della vita di Soutine in cui la sua unica appartenenza pare essere al colore. Un colore su cui il pittore attua una disperata ricerca attraversando varie gradazioni fino al tentativo di arrivare alla purezza. Attraversando la violenza delle gradazioni, scavandole, sperimentandole. Ma colore fa rima con dolore. Colore/dolore, il dolore e il colore, il dolore nell’arte e l’arte del dolore. In questa rima e assonanza sta il rischio dell’arte. Ne “Il rischio del romanzo” Dutli ci ricorda che nella stesura del romanzo aveva scritto “scritto d’oppio di Seturner invece che “succo d’oppio di Seturner”, interpretando il suo lapsus in questo modo: “l’inconscio partecipa alla scrittura”. Sì! Perché, come ben sapeva Lacan, noi siamo parlati dall’inconscio e questo ci dice che dolore e colore sono intrecciati in un abbraccio mortale. Lo dimostra tutta la ricerca “coloristica” di Soutine. Quei colori violenti, quel passaggio dal cinabro al rubino non sono forse il dolore? Non sono forse la dichiarazione impotente che nessuna redenzione è possibile? Che il Messia non è ancora arrivato e non arriverà mai?
Vorrei soffermarmi su un capitolo del libro che è semplicemente straordinario. Si intitola “Il complotto dei piccoli pasticceri” ( Op. cit. pag. 179-94). Attraverso le distorsioni percettive provocate dalla morfina, Soutine immagina d essere arrivato in clinica. Il primario è il Dott. Bog (che in russo significa Dio). Dopo alcune dissertazioni sulle ultime scoperte sull’ulcera (anche qui abbiamo un salto temporale perché Bog parla di scoperte avvenute nei nostri anni ottanta), il medico prescrive a Soutine di non dipingere più. Solo quella è la cura. Solo con questo astenersi il dolore passerà. Ci sono, qui, reminiscenze del patto faustiano di Goethe e di Mann ( ma tutto il romanzo è disseminato di citazioni coperte e in chiaro, citazioni da Brodskij, Hofmannsthal, Dante, Rimbaud, Lautréamont) e della clinica, immersa nella neve, di Davos de “La montagna incantata” di Mann.
Soutine seguirà questa prescrizione? Al lettore scoprirlo. E mentre il lettore si accinge alla scoperta qui si anticipa quanto scopre Soutine in questa clinica ammantata di “biancore”. Scopre una congiura. Chi sono i congiurati? Sono i personaggi dei suoi quadri, come l’apprendista pasticcere di Ceret, come l’apprendista cuoco, come le ragazzine con le bambole e così via. Tutti in rivolta a causa di una riflessione e di una domanda che capovolge la domanda che percorre le opere maggior di Dostoevskij. Se Dostoevskij si domandava cosa succede se Dio non esiste, se Dio non esiste allora tutto è permesso? Qui la domanda è perché Dio permette tutto? Perché permette il dolore? La conclusione è che nessuna redenzione è mai avvenuta e potrà mai avvenire. Pagine pregnanti di altissima poesia e di tormentata riflessione filosofica e teologica. Forse Dio permette tutto questo perché non è né onnisciente, né onnipotente come sosteneva il filosofo ebreo Hans Jonas nel suo famoso libro “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”. (Cfr. Jonas, H: “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”. Il Melangolo. Genova. 1997).
E poi c’è il finale del libro. Anch’esso di altissima poesia. Che non è possibile svelare. Ma qualcosa è possibile anticipare. Ancora una volta compare una prima persona singolare. Che citerà lungamente il grande poeta peruviano César Vallejo. Parola poetica in cui si fa assillante la domanda sul dolore, sul suo senso nella vita di ognuno di noi, sulla sua incancellabilità. Domande destinate a restare senza risposta.
Questo di Ralph Dutli è un grande romanzo che ripropone il quesito, tra gli altri, di quale sia il prezzo che un artista può pagare per la sua arte. Che pone il quesito di quale sia il rischio che si corre quando arte e vita si intrecciano indissolubilmente.

Nello Zaino di questa settimana :

"Profondo Sud -Un viaggio nella cultura del Dixie" di Seba Pezzani, Giulio Perrone Editore.
“Profondo Sud -Un viaggio nella cultura del Dixie” di Seba Pezzani, Giulio Perrone Editore.
"La Resistenza del Maschio" di Elisabetta Bucciarelli, NNE.
“La Resistenza del Maschio” di Elisabetta Bucciarelli, NNE.
"Il tempo è un bastardo" di Jennifer Egan, Minimum Fax.
“Il tempo è un bastardo” di Jennifer Egan, Minimum Fax.
"Sola a presidiare la fortezza. Lettere" di Mary Flannery O'Connor, Minimum Fax.
“Sola a presidiare la fortezza. Lettere” di Mary Flannery O’Connor, Minimum Fax.
"Sul soffitto" di Éric Chevillard, Del Vecchio Editore.
“Sul soffitto” di Éric Chevillard, Del Vecchio Editore.
"Godbody" di Theodore Sturgeon, Edizioni Atlantide.
“Godbody” di Theodore Sturgeon, Edizioni Atlantide.
"L’ultimo viaggio di Soutine"di Ralph Dutli, edito da Voland.
“L’ultimo viaggio di Soutine”di Ralph Dutli, edito da Voland.
Nello Zaino di Antonello: Colpire il Lettore