SVEGLIARE I LEONI COPERTA DEFINITIVA copia

Ci coglie in flagrante Ayelet Gundar-Goshen insieme all’affascinante dottore Eitan Green, protagonista di “Svegliare i leoni” (traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi, Giuntina), uomo integerrimo e irreprensibile, tanto da essere trasferito dalla vivace Tel Aviv nella polverosa  Beer Sheva, per aver denunciato di corruzione il professore, primario di neurochirurgia, poiché accetta mazzette grazie alle quali alcuni pazienti riescono a saltare la fila come interventi urgenti e dunque prioritari.

987435339-range-rover-deserto-del-negev-trazione-integrale-vibrazione-dell'ariaLe occasioni della vita, però, sono sempre in agguato per misurare e provare ciò che siamo e mettere in dubbio ciò che crediamo di essere. In una notte di luna piena, dopo diciannove ore filate di servizio in ospedale, Eitan Green invece di tornare a casa, decide che quella può essere la volta buona in cui provare la jeep in un percorso per fuoristrada particolarmente difficile nei pressi del kibbutz Tlalim. La ruggente jeep è un regalo della moglie Liat per compensare il trasferimento: è stata  lei che ha insistito perché il marito non proseguisse nella denuncia di corruzione nei confronti dell’ospedale e dei suoi medici influenti, per evitare conseguenze disastrose sia economiche che emotive, che si potevano ritorcere sulla loro vita. La jeep, che nelle intenzioni della moglie doveva promettere gite nel deserto, tra ripide discese e salite, diviene la causa di una rovinosa disgrazia. Se non avesse posseduto la jeep, verso la quale Eitan prova un certo disgusto, forse per quello che dimostra nella sua vita, e che ironicamente rappresenterà nell’imminente futuro, il dottore non si sarebbe fatto allettare da una luna promettente con il suo luccichio, non si sarebbe avventurato su strade vuote premendo sull’acceleratore in barba alla stanchezza di una dura giornata di lavoro, non avrebbe frenato bruscamente dinnanzi a un istrice enorme, pensando di renderlo protagonista leggendario di un’avventura da raccontare al figlio Itamar, e infine non sarebbe corso sulle note tormentate di Janis Joplin incontro alla propria rovina, investendo nel buio un uomo, un eritreo, e decidendo dopo una breve, forse troppo breve, esitazione di fuggire via:

D’un tratto, tutto si è chiarito: doveva andarsene. Immediatamente. L’uomo disteso non si poteva salvare. Doveva provare a salvare almeno se stesso.

Copertina Markovich-PROOF4Non sappiamo come avrebbe vissuto, se in pace o in conflitto con la propria coscienza nella tranquillità della vita rimasta immune al gesto, come il dottore aveva ipotizzato con la fuga, perché Ayelet Gundar-Goshen con la maestria somma di intrecciare e tessere trame, che ha già dimostrato in “Una notte soltanto, Markovitch”, il primo romanzo, pubblicato in Italia sempre da Giuntina con le medesime traduttrici, (QUI la mia lettura) seguendo l’istinto romanzesco che le è proprio complica le vicende: il dottore sarà trovato dalla moglie dell’eritreo investito, la bellissima e luciferina Sirkit, che gli chiede un risarcimento oneroso, curare i clandestini eritrei di Tlalim in una rimessa abbandonata, in cambio della mancata denuncia. Per Eitan sarà un viaggio a contatto con un’umanità emarginata e vilipesa, in cui riconoscere la dignità umana troppo spesso calpestata e il senso del proprio mestiere ma anche la verità sulla propria coscienza. In quella rimessa Eitan ferma la sua fuga ed è costretto a guardarsi intorno e dentro. Per guadagnare se stesso, rischia tutto: la bella moglie Liat, i due figli Itamar e Yahli, la carriera del comodo ospedale seppure di periferia, i ritmi di una vita tranquilla in cui annebbiare la coscienza e assopire il leone che è in lui.

3543Tesse e intreccia fili Gundar-Goshen in una ragnatela di storie, in cui il lettore è imprigionato tra il piacere dell’intreccio, le innumerevoli sorprese narrative, le acute analisi introspettive. Tanti i personaggi, di mondi diversi e spesso in contrasto: i beduini, gli israeliani, i clandestini, che intersecano le loro storie alla ricerca della salvezza e di una maglia sgranata nell’ordito della loro esistenza da cui sfuggire al proprio destino. A Eitan e Lia, medico l’uno e investigatore scelto l’altra, che indaga con accanimento sull’omicidio dell’eritreo, la casualità con macabro divertimento sembra offrire la possibilità di salvare le stesse persone, o di decidere inconsapevolmente della loro sorte, allontanandoli sempre più l’uno dall’altra.

Perciò Liat cerca il criminale che si nasconde da lei, senza rendersi conto che è lei a nasconderlo a se stessa. Non è disposta a vedere quanto quest’uomo, così vicino, così noto, sia in realtà lontano. Proprio perché loro non sono una coppia di quelle ormai distaccate. Fanno ancora delle chiacchierate strepitose, iniziano quando escono da casa e si interrompono solo all’arrivo a casa dei genitori, a Haifa. Si rotolano ancora dalle risate, e scopano con notevole soddisfazione. Suo marito la ama ancora, davvero. E lei ama Eitan. Tutto verissimo, ma non li dispensa dall’alienazione che esiste anche nel luogo più conosciuto. Un’alienazione la cui stessa eventualità la offende, come rendersi conto di essere andata in giro per un giorno intero con resti di cibo tra i denti. O il moccio che cola. Incidenti imbarazzanti che possono succedere ad altre coppie, ma di certo non a loro. Ne è convinta, e per questo sbaglia. Nessuno può conoscere perfettamente un’altra persona. Nemmeno se stesso. Rimane sempre una zona cieca. Una linea invisibile taglia il suo tavolo. A destra, la foto della testa rotta. Un caso aperto. Un mistero irrisolto. A sinistra, la foto del suo amato, perfettamente noto: Eitan che abbraccia i due figli. Sullo sfondo, il prato, e anche se l’inquadramento è parziale, Liat sa perfettamente cosa c’è fuori campo. Potrebbe ripetere anche dormendo l’ordine dei vasi in giardino. Conosce a memoria il suo giardino, conosce a memoria il suo uomo, perciò non conosce il colpevole. Lancia un’occhiata veloce alla fotografia incorniciata, conosciuta, di suo marito. Poi fissa il cranio aperto sulla destra e si chiede: chi è stato a farti questo? E dov’è adesso?

Migranti sul ponte di volo di Nave Espero, nell'ambito dell'operazione Mare Nostrum, Mar Mediterraneo Meridionale, 29 Aprile 2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI

L’importanza di “Svegliare i leoni” è nello sguardo impietoso sulla miseria umana. Non c’è paternalismo né commiserazione, solo la forza indomita di una narratrice che scruta e vede, mettendo alla scoperto una ferita purulenta, in cui non ci sono buoni e cattivi, ma solo persone, uomini e donne che cercano di sopravvivere nel proprio mondo, che può essere più semplice o più crudele: un safari in cui addormentare il leone che è in ciascuno accontentandosi della facilità di ottenere cibo e sostentamento; o una giungla in cui vige la spietata legge del più forte.

Alla fine Eitan si è allontanato dal materasso vicino alla porta ed è tornato a scrutare la miseria della stanza. Una povertà non fotogenica. Nelle foto che aveva scattato durante il safari in Africa, la facevano da protagoniste capanne di fango fatiscenti e savane gialle dove i cespugli spinosi si muovevano ondeggiando come criniere di leoni. Bambini nudi fissavano l’obiettivo e sopra di loro il cielo era di un azzurro spettacolare. Madri col seno scoperto indossavano splendidi gioielli fatti con denti di leone. Nelle fotografie dell’Africa, la povertà penetrava nel cuore come una freccia appuntita. In quegli scatti, la miseria era gloriosa. Qui invece: otto materassi. Un fornellino da campeggio. Qualche cucchiaio. Qualche piatto.

Gundar-Goshen accosta i due mondi, li rende penetrabili e permeabili allo sguardo, ne cancella le tracce di separazione, pur evidenziando il fragore causato dall’incontro, per rendere più evidenti i muri invisibili che si erigono nelle coscienze prima ancora che nella geografia del territorio.

Dovrebbe pensare all’uomo che ha ucciso. La vita interrotta per colpa sua. Il fatto di non pensarci aggrava ulteriormente la sua colpa. Forse lo perdonerebbe se confessasse di aver investito un eritreo e di essere scappato, e aggiungesse che da allora è roso dal senso di colpa. Invece ha investito un eritreo, è scappato e da allora pensa solo a come uscirne. Inammissibile. Raccapricciante. Contemporaneamente, prova disgusto verso tutti quelli che provano raccapriccio. Tutta gente che lo guarderebbe con moralissimo schifo, che se ne laverebbe le mani, solo perché loro, per caso, non si sono trovati lì in quel momento. Come se loro non uccidessero eritrei a ogni piè sospinto. […]

La questione non è da cosa scappi, la questione è solo se ti colgono in flagrante. Tutti scappano dalla stessa cosa. Incapaci di guardare in faccia la loro presunzione da padroni. Tutti feriscono e scappano. Ma avevano beccato proprio lui. L’avevano colto in flagrante.

tribal-animals-animal-148417

La scrittrice israeliana tende un agguato, come un leone che fiuta la preda e si apposta per catturarla. Non lascia scelta, bisogna seguirla, implacabile e crudele, in quello che è un inferno in terra. Non c’è didascalismo né moralismo, questo è il pregio e il talento formidabile di Gundar-Goshen, ma solo l’eleganza e la maestosità di una narrazione riuscita, come lo scatto felino di un leone sulla preda.

Era lì per chiudere quella fosca storia che gli aveva rubato la pace e minacciato la famiglia, persino la vita. Per quanto la fosca storia l’abbia tormentato, l’aveva anche affascinato, sedotto, aveva rimestato nelle profondità dell’animo, come sempre fanno le storie fosche. Ma adesso basta. Le storie devono finire. La vita deve continuare per la sua strada tranquilla e sicura.

Il poi, sembra dirci Ayelet Gundar-Goshen, spetta a ciascuno di noi, lei il suo compito di romanziere l’ha assolto in pieno. Quale compito più considerevole, infatti, può assolvere il romanzo se non quello di “svegliare i leoni”?

Svegliare i leoni