Dieci buoni motivi

di Francesco Formaggi

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per NON leggere Il cortile di pietra (Neri Pozza) 

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1) Perché il protagonista è un bambino piccolo, e si sa, quelli che scrivono i romanzi con protagonista un bambino piccolo, soprattutto se maltrattato, lo fanno solo per strappare qualche lacrima ai lettori.

2) Perché è un romanzo ambientato in un tempo indefinito, forse il Dopoguerra, forse prima, insomma non si capisce, non c’è neanche una data, una ricorrenza storica, boh! L’unica cosa buona è che non ci sono gli smartphone, ma neanche i telefonini, neanche gli startac (ricordate?, lo sportelletto da cui tutto ebbe inizio!), e i personaggi si spostano a piedi o con i cavalli, o con i carri, il che, per tempo di percorrenza, equivale a un viaggio in treno dei giorni nostri, soprattutto se regionale.

3) Non leggete questo romanzo perché l’autore ci ha messo tre anni a scriverlo, ma proprio tre anni scrivendo tutti i giorni e uno si chiede: ma quante parole scrivi al giorno? (Una pagina, se va bene, poi il giorno dopo la cancello). E poi si sa: quando ci metti tutto questo tempo per scrivere un romanzo significa che non hai niente da scrivere, che non sei ispirato: i romanzi veri, oggi, si scrivono in quindici giorni; chiedi a chi ti pare, a quegli autori che vendono dalle 30.000 copie in su: in quanti giorni hai scritto il tuo ultimo romanzo? Ti diranno tutti, o quasi, quindici giorni, massimo un mese, due mesi per stare larghi. E allora come può essere buono un romanzo che uno sconosciuto di scrittore che viene dalla Ciociaria (dove?) ha scritto in tre anni?

4) Il quarto motivo per non leggere questo romanzo lo uso con intermezzo per fare una pausa, prendere un caffè, andare al bagno, flirtare con la vostra collega della scrivania di fronte. Fatto? Fumatevi pure una sigaretta, visto che ci state! Ok? Fatto? Continuiamo.

5) Vi conviene non leggere questo romanzo perché non racconta una storia felice, anche se, tutto sommato, finisce bene, finisce con uno spiraglio di luce che squarcia le tenebre! Ma solo alla fine. All’inizio e durante si narra una storia cupa, fosca, ombrosa: un bambino che viene abbandonato dai propri genitori, (persone un po’ meschine, anaffettive, indigenti), viene mandato in un collegio di suore, come accadeva spesso dalle mie parti, nei tempi del Dopoguerra, quando la gente soffriva veramente di fame. E in quel collegio Pietro ne passa di tutti i colori. E vi posso dire questo: potrebbe sembrare conciliante il fatto che a un certo punto il piccolo Pietro stringe amicizia con un altro bambino, Mario, «la peste», e che poi i due troveranno il modo di scappare… e potrebbe anche sembrare conciliante che a un certo punto compaiono sulla pagina due bei personaggi, Leo, un pastore buono, e suo figlio Tommaso, che dimostreranno cosa significa la parola «umanità»… ecco, tutto questo potrebbe sembrare conciliante, ma in realtà non lo è. Anzi, lo è alla fine, quello sì, ma prima di arrivare alla fine dovete leggere più di duecento pagine che non vi lasceranno affatto indifferenti. Ho chiesto all’autore, l’altro giorno, quale era stato il suo rapporto con la scrittura di questo romanzo e lui mi ha risposto che ha la sensazione di aver scolpito le parole nella pietra.

6) Il sesto motivo prende spunto da una telefonata con un caro amico scrittore, Giuseppe Truini, il quale ha detto all’autore, ma proprio poche ore fa, che la prima parte del romanzo, soprattutto la prima, ha un sapore espressionista; sembra scritta nei primi anni del secolo scorso da uno di quegli scrittori tedeschi che scrivevano storie in bianco e nero, tipo Döblin, (e anche un altro che scriveva teatro ma non ricordo il nome, forse Strindberg?), quelle storie che assomigliano all’urlo di Edvard Munch, per intenderci, (questo solo l’inizio però!). E infatti potreste non essere d’accordo, dopo averlo letto, ma basta anche solo il sospetto per dire: che lo leggo a fare!

7) Il titolo è stato scelto di proposito affinché stavolta non si possano fare sciocche associazioni e giochi di parole col cognome tipo «Il casale dei formaggi», «I formaggi del casale», «Tutti a mangiare formaggi nel casale», «Il casale dei quattro formaggi», (per chi non lo sapesse, il mio primo libro si intitolava: Il casale) e quindi non c’è più divertimento!

8) Se leggete le quarta di copertina c’è scritto: «Formaggi esce dal perimetro del rassicurante e si avventura in atmosfere poco frequentate dalla narrativa italiana» (L’Unità). A parte che L’Unità non esiste più, purtroppo; voglio dire: dove ti avventuri di questi tempi che non c’è tanto da fidarsi neanche a uscire di casa di giorno con tutti gli elettori di Trump che girano per le strade?

9) Perché una lettrice mi ha detto che a un certo punto della  storia non ha potuto trattenere le lacrime, e io le ho chiesto: di commozione? di tristezza? di gioia? E lei mi ha detto: tutte e tre.

10) L’ultimo motivo è che questo romanzo non è autobiografico, perché non è possibile che io avessi sei anni nel Dopoguerra (qualcosa sì, deriva da una mia esperienza personale che non sto qui a dirvi proprio ora), e come ben sapete oggi se non scrivi degli affari tuoi non ti si fila nessuno; non è neanche del tutto inventato, perché alcuni spunti li ho presi da racconti di miei conterranei che hanno vissuto in prima persona esperienze simili, e un episodio in particolare l’ho preso da una notizia di cronaca di un paio di anni fa, quando in una cittadina irlandese hanno scoperto una fossa comune di bambini accanto a un orfanotrofio; non è neanche un romanzo di genere, il che lo trasforma in qualcosa che la gente continua a chiedere: «Romanzo come?», e tu lì a spiegare che il romanzo è un genere di per sé ecc., ecc. Ma insomma, che romanzo è? Ecco, un motivo ulteriore, rubato all’ultimo istante, per non leggere questo romanzo è che l’autore non lo sa che romanzo sia. Lui l’ha scritto e basta, con tutta la cura e l’amore e la dedizione possibile, con l’idea, oggi così poco di moda, di dare ai lettori un libro bello, che non li lasci indifferenti, e resti nei loro cuori il più a lungo possibile, come una bella storia d’amore.

Dieci Buoni Motiviper NON leggere “Il cortile di pietra”