Aperitivo-ecologico

Ti avrei senz’altro dato appuntamento in un bel bar davanti a un bel aperitivo che stimola la chiacchiera e l’allegria!

Il condizionale svela e rivela, ma immaginateci così: io e Romano De Marco allegramente seduti con un calice davanti, a chiacchierare di “L’uomo di casa”(Piemme), in parte un nuovo esordio per lo scrittore di noir. Per scoprirlo, accomodatevi accanto a noi, ordinando qualcosa.

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S Laurel Street è una traversa della Idlewood nel quartiere di Oregon Hill. Zona povera della città, modeste case in legno, a due piani, su entrambi i lati della via a doppio senso di circolazione. gli infiniti strati di vernice colorata non riescono a mascherare la fatiscenza delle abitazioni stipate a ridosso dell’altra, come i pendolari sulla metro nell’ora di punta. il civico 312 non fa eccezione. pareti verde pastello e infissi bianchi, come le colonnine del minuscolo portico identico agli altri. sul fronte strada c’è una piccola aiuola che non ha mai conosciuto le amorevoli cure di un pollice verde e, sul retro, uno spazio aperto che definire giardino sarebbe troppo lusinghiero. è un cortile recintato, tra mattoni accatastati e rifiuti di vario genere, fanno capolino rare macchie di erbacce abbandonate a se stesse.

 

Tysons Corner è un’area a ovest della città di Washington D.C., ed è quella che, secondo la teoria di Joel Garreau, si potrebbe definire una Edge City. il famoso giornalista del Washington Post stilò addirittura un elenco di regole per identificare questi nuovi centri di urbanizzazione al di fuori dei confini cittadini. tra queste, l’avere almeno cinquecentomila metri quadrati di immobili destinati a ufficio e cinquantaseimila ad attività commerciali, contenere più posti di lavoro che posti letto ed essere state, fino a un massimo di trent’anni prima, delle semplici aree rurali senza una propria identità.

infine, la regola più importante: l’essere percepiti dalla popolazione come luoghi unici e a sè stanti.

Tysons Corner soddisfa in pieno tutti questi requisiti.

Sono i due poli, anche temporali 1979 e “oggi”, in cui si svolge la vicenda di “L’uomo di casa”. Un ambiente degradato in cui si consumano delitti efferati e si perde drammaticamente l’identità; e un luogo borghese, confortevole, anonimo in cui perdersi e confondersi.

I due luoghi sono strettamente intrecciati alle vicende e descritti con grande precisione di dettagli, tanto che il lettore ha netta la sensazione di abitarvi, con raccapriccio e disagio in S Laurel Street, e con un senso crescente di sospetto e malessere in Tysons Corner. 

Nascono prima i luoghi di “L’uomo di casa” e la volontà di raccontarli attraverso la vicenda narrata, o il plot del romanzo, e a seguire, quasi tagliati su misura come abiti di sartoria, i luoghi americani, così vividi e veri?

A nascere prima sono state le suggestioni scaturite dalla conoscenza dei luoghi nei quali è ambientato il romanzo. Ho una sorella che vive a Vienna, Virginia, in Bobbyber drive. Insomma, esattamente nella casa di Sandra Morrison, la protagonista del romanzo. E anche la casa degli orrori di Richmond, quella dove vengono rinvenuti  i cadaveri sotterrati, nel flashback all’inizio della storia, è un luogo che conosco bene. Ci ha abitato mio nipote che ha studiato cinematografia e si è laureato a Richmond. Ora il quartiere è stato recuperato ed ospita, in prevalenza, studenti e media borghesia. Alla fine degli anni settanta, invece, era periferia estrema, un posto pericoloso dove sparatorie e retate della polizia erano all’ordine del giorno.

Ho frequentato (e frequento ancora…) questi posti  da anni, ho imparato a conoscerli non con l’ottica del turista, ma attraverso i miei parenti che ne hanno assorbito lo stile di vita e hanno assunto la mentalità di residenti stabili. In uno dei miei viaggi annuali negli Stati Uniti, ho pensato che sarebbe stato bello poter trasferire quelle suggestioni in una storia e rendere i luoghi veri e propri personaggi di un mio romanzo. Tutto il resto è venuto da sé ed è stato costruito attorno ai luoghi che fanno da sfondo alla narrazione. Sono molto felice di essere riuscito a rendere credibile l’ambientazione americana. Qualcuno che lavora da sempre nel mondo dell’editoria, mi ha detto che sono in pochi gli autori italiani ad esserci riusciti.

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I luoghi sono il grande fascino del tuo romanzo, veri e reali, con uno sguardo vissuto e familiare, che li rende estremamente credibili e mai scontati. Persino il giro turistico nella casa degli orrori ha una nota di realismo, che non scade nel grottesco né nel morboso.

Il romanzo ha una struttura narrativa molto complessa: non solo due luoghi principali minuziosamente descritti, due tempi narrativi che scorrono paralleli, e sia ai luoghi che ai tempi principali se ne alternano altri secondari eppure fondamentali per la storia, ma anche l’alternarsi tra un racconto in terza e in prima persona, dove la prima persona nella maggior parte dei casi è Sandra Morrison, la vedova che di fronte al mistero della morte del marito si accorge di non averlo conosciuto così come credeva, ma che viene raccontata anche in terza, e in altri casi, in corsivo nel testo, compare una prima persona differente da Sandra che non possiamo svelare.

Come autore tieni con abilità in mano i fili della trama lasciando che si intreccino senza mai aggrovigliarsi.

Quanto è difficile scrivere un thriller così strutturato e quali sono stati (se possiamo svelarli) i momenti più difficili nella scrittura di una trama complessa, in cui la verità è sotto gli occhi, eppure così ben celata?

Questo è il mio primo thriller “puro”. Prima d’ora non avevo mai fatto ricorso a scalette o piani dei capitoli. Nei miei noir polizieschi avevo semplicemente dato sfogo alla mia fantasia, costruendo il romanzo “in progress”, modificando trama e personaggi in corso d’opera e lasciando quasi che la storia si scrivesse da sola. Stavolta, giunto a circa la metà della prima stesura, ho provato qualche difficoltà. È stato quello il momento più difficile, nel quale non ho potuto fare a meno di raccogliere le idee e strutturare un piano dei capitoli con i relativi argomenti. Nel thriller la tensione narrativa non deve mai scemare, i colpi di scena, l’alternanza delle varie persone che utilizzo (prima e terza onnisciente) gli intercalari in corsivo tra i vari capitoli… tutto deve risultare armonico e ben calibrato, altrimenti il risultato finale rischia di deludere il lettore. In sostanza, mentre il romanzo mainstream o, al limite, il noir, sono composizioni artistiche libere, come dei quadri astratti, il thriller (come il giallo classico) deve rispondere a determinate regole stilistiche, come un lavoro di fine artigianato che non può lasciare spazio a improvvisazioni. E questo ancor di più in un romanzo come il mio dove ho volutamente fatto a meno di scene violente, splatter, scioccanti, scegliendo di non mostrare i crimini ma le conseguenze che lasciano a chi rimane, come i parenti (nel caso della morte di Alan Sandford) o gli investigatori che non riescono a risolvere il caso (nel caso raccontato in flashback della Lilith di Richmond). 

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In genere non mi piace raccontare le trame, tanto meno in un thriller composito come il tuo, in cui si potrebbe lasciare sfuggire un dettaglio che finisce per dare un suggerimento sullo svelamento finale, rendere meno intenso un passaggio, rovinare una sorpresa narrativa.
Tu ci riesci? Come presenteresti il tuo libro ai lettori? E piccola curiosità sempre legata alla scrittura: hai cancellato dei dettagli, dei particolari, dei riferimenti perché finivano per dire troppo? Perché credo che l’abilità di uno scrittore di thriller sia proprio nella capacità di lasciar andare dei dettagli al momento giusto senza farli sembrare importanti, pur essendolo.
Non è questo il gioco di fondo tra lo scrittore di gialli e il lettore? 
– io te lo avevo detto, ma tu non hai colto! 

In effetti una delle “venti regole per scrivere un romanzo giallo” di S.S. Van Dine, il creatore di Philo Vance, investigatore snob e amante della bella vita (nonché uno dei più famosi giallisti classici del secolo scorso) raccomanda proprio di mettere il lettore nelle stesse condizioni del detective di risolvere il caso, disseminando indizi lungo il romanzo. Non sempre questa regola viene rispettata, ma io cerco di farne tesoro strutturando dei finali che possano far esclamare “accidenti, è vero! Come ho fatto a non arrivarci prima?”. Io mi ritengo un lettore ancor prima che un autore, per questo ci tengo particolarmente all’onestà nei confronti di chi dovrà giudicar le cose che scrivo. Spesso, nelle mie storie, parto dal finale e cammino a ritroso per fare in modo che l’intreccio sia credibile, che non appaia “appiccicato” a forza, tanto per dare una soluzione all’enigma. Sono rimasto scottato troppe volte con simili stratagemmi narrativi di bassa lega e non intendo propinarne di simili a chi sborsa dei soldi per acquistare un mio libro.

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Che tipo di lettore è Romano De Marco? Quali letture sono entrate con maggiore prepotenza nella tua scrittura? La scelta del thriller dipende dal lettore o dallo scrittore?

Infine portaci nella tua biblioteca, accanto a quali libri hai posto “L’uomo di casa”?

Sono un lettore onnivoro, prediligo la narrativa Italiana di qualità, ho una venerazione particolare per Giuseppe Pontiggia, Raul Montanari, Andrea Carraro, Grazia Verasani… Ma anche per tanti altri che sarebbe davvero difficile elencare. Leggo anche gli stranieri, ultimamente mi sono appassionato a Bolano, John Wlliams. Kent Haruf, ho recuperato cose che non avevo letto di Kafka e Borges…

Oggi riesco a leggere al massimo 50 libri l’anno a causa delle tante, troppe altre cose che faccio. Seguo Cinema, Serie TV, Fumetti… e poi la scrittura… Nei ritagli di tempo cerco anche di lavorare, essere un padre accettabile e avere uno straccio di vita sociale. Magari rinuncio alle cose non indispensabili tipo dormire o mangiare…  Riguardo alla narrativa di genere thriller e noir, ormai leggo solo le cose di amici autori, per una reciproca correttezza che vige nel nostro mondo fatto di regole non scritte. Anche perché, spesso e volentieri presento altri autori in giro per l’Italia, divertendomi moltissimo.

La scelta del Thriller è stata indirizzata ai lettori, ad attrarne in numero maggiore rispetto a quanto abbia fatto fino ad ora con i miei noir. E fino ad oggi sembra essere stata una scelta vincente.

Nella mia libreria ho riservato uno spazio d’onore a tutti i miei romanzi, L’uomo di casa è accanto agli altri. Ho evitato di esporre anche le antologie con miei racconti (ormai sono più di 15 e nell’anno in corso ne usciranno almeno altre quattro…). Comunque i miei romanzi sono in buona compagnia, a casa ho circa duemila libri nelle varie librerie, ed il numero continua sempre ad aumentare… Tanto che per i miei oltre settemila fumetti ho dovuto chiedere asilo in una stanza a casa di mia madre…

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Grazie di questa visita guidata nella tua biblioteca.
Mi interessa molto questa distinzione che proponi tra thriller e noir nel gradimento dei lettori. Quali elementi a tuo avviso rendono il thriller più “piacevole” del noir? E quali elementi del noir sono confluiti nel tuo modo di scrivere tanto da non poterne fare a meno anche nel thriller?
E per finire, in un ordine più generale, cosa ti ha spinto a scrivere in un genere definito e delineato, con delle regole precise, come sono i generi di investigazione?
Grazie davvero Romano, con questa siamo all’ultima domanda!

Il noir, per dirla come la dice Massimo Carlotto, è passato dall’essere “narrativa di genere” a “narrativa di contenuti” nel momento in cui ha preso il posto del romanzo d’inchiesta iniziando a raccontare la realtà sociale, politica e criminale della nostra Italia. Io vedo il noir (quello vero, non la miriade di “gialletti scialbi” che si fregiano di tale titolo…) come una sorta di contenitore che permetta di veicolare, al di là dell’intelaiatura costituita dalla storia di “fiction”, una serie di contenuti che vanno dalla critica sociale all’introspezione psicologica, alla riflessione alta su tematiche di tipo letterario (l’amore, l’esistenza, il trascendente…). Il noir ha avuto un suo momento magico, qualche anno fa, in Italia, per poi diventare qualcosa di etereo, indefinito, spesso oggetto di equivoco. Oggi, il grosso dei lettori, è più orientato verso un altro genere di narrativa che riesca a creare empatia con gli aspetti psicologici dei personaggi. Da qui il grande, meritato successo di autori come de Giovanni e  Manzini. Il Thriller, rispetto al noir, è un tipo di narrativa che deve rispettare più paletti, più regole. È una specie di lavoro di fine artigianato (quando è ben scritto…) capace di attrarre una platea di lettori più trasversale (soprattutto di lettrici che, come è noto, rappresentano quasi il 75% del totale di chi legge libri…). Io sono passato al thriller (pur non rinnegando la mia serie noir milanese che sicuramente tornerò a scrivere) semplicemente per attrarre più lettori. Gli elementi presenti sia nei miei noir che nel mio thriller (ma possiamo dire “miei” perché ne sto scrivendo un altro…) sono la tensione narrativa (quella che ti fa voltare pagina per sapere “come andrà a  finire”) i colpi di scena credibili (spero) e l’ambientazione ben descritta e carica di suggestioni.

I tre elementi in “L’uomo di casa” ci sono tutti, aspettiamo il secondo thriller per confermarli!

Chiacchierando con… Romano De Marco