Il mondo piccolo dell’autostrada

di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica "I libri di Alice"
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma, con la rubrica “I libri di Alice”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

9788899253325_0_0_1594_80“La metà del diavolo”,  Joseph Incardona

Il mammut riposa sotto l’autostrada. In attesa. Pierre Castan vaga apparentemente senza meta, sa esattamente cosa cerca, o meglio chi cerca. La vendetta, una giustizia da farsi da solo l’unica ragione che gli impedisce di togliersi la vita, trovare il responsabile della scomparsa di sua figlia di otto anni. Una scintilla nei suoi occhi alla notizia della sparizione di un’altra bambina, di dodici anni, e la voglia di trovare il responsabile: la stessa persona, immagina, con le stesse modalità e negli stessi luoghi, l’autostrada. Finalmente pubblicato in Italia, Joseph Incardona, con “La metà del diavolo”, NNE, consegna al lettore un noir dalla forte caratterizzazione psicologica.

A emergere sono le anime dannate che sembrano essere destinate a vagare per l’eternità in quel quotidiano fatto di disillusione. Esistenze che ruotano attorno all’autostrada, dagli operai del cantiere ai dirigenti della catena di ristorazione: perse nelle proprie occasioni sfumate di emergere, accettando soprusi, o infliggendone. Non sembra esistere la speranza ne “La metà del diavolo”: quelle vite che cercano di arrivare, danneggiando chi è più in basso di loro in quella sorta di scala sociale, finiscono col consumarsi lentamente, svuotandosi di ogni illusione.

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“Derrière les panneux il y a des hommes” recita un cartello di un cantiere autostradale come tanti e che resta impresso nella mente dell’autore, al punto da sceglierlo come titolo originale del romanzo, uscito per éditions Finitude. “Derrière les panneux il y a des hommes” rende, forse meglio di qualsiasi altro titolo, il senso ultimo di un romanzo che racconta anime perse che vagano per quel girone infernale rappresentato dall’autostrada. È il non luogo, come lo ha definito la traduttrice Claudine Turla per rendere quella dimensione quasi fuori dallo spazio e dal tempo che diventa strumento di introspezione. Quel non luogo si mostra poco alla volta, con immagini di ambienti che si ripetono l’uno uguale all’altro, i caselli, gli autogrill, i cavalcavia, le aree di sosta, delineando una sorta di geografia.

Tito Barbini, viaggiatore e scrittore, nel fare esperienza di luoghi estremi come l’Antartide racconta il sentimento che lo muove nel viverli. Non c’è nulla eppure c’è tutto, dice, parlando di geografia fisica e di geografia della mente. Qui l’Antartide è l’autostrada, che nasconde il mistero della scomparsa, racchiude il dolore di vite rovinate per sempre. Luoghi che raccontano storie e richiamano una geografia fisica dell’autostrada e al contempo una geografia della mente di quel tarlo che affonda nella testa del protagonista.

“La gente non guarda i luoghi in cui passa”, dice Tia Sonora, la vecchia prostituta messicana dallo sguardo profetico sul mondo. L’autostrada racconta “il mondo piccolo dell’area di servizio”, richiamando idealmente la teoria degli esperimenti sociali condotti da Stanley Milgram nell’analizzare una rete di collegamenti tra persone. Qui il mondo piccolo dell’autostrada è fatto di incontri possibili, esistenze che si sfiorano, coincidenze. L’autostrada racchiude una totalità che non ha volto e che rappresenta un’umanità persa in quella dimensione sconfinata. “Pierre Castan chiude gli occhi. La trova commovente. Vista da una certa altezza, l’umanità è commovente”.

Ne “Gli autonauti della cosmostrada”, Julio Cortázar e sua moglie Carol Dunlop raccontano un viaggio che rappresenta una sorta di spedizione per vincere le inquietudini e le nevrosi davanti a una malattia incombente. “Sappi, o pallido lettore, che ogni volta che ci si astiene davvero dal morire c’è una rinascita reale, precaria e dolorosa in quanto si emerge dalle tenebre senz’altra madre che se stessi, senz’altra contrazione se non una volontà che non sempre si riesce a comprendere bene”, scrive Cortázar. E sembra rivolgersi idealmente a Pierre Castan che si astiene dal morire solo per cercare di placare quel senso di vendetta, emergendo dalle tenebre solo nell’illusione di trovare l’unico modo che conosce per far assopire, forse, quel dolore.

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Echi di altri libri. Ne “La metà del diavolo” si sentono le voci di personaggi che fanno incursioni da altri romanzi assumendo qui nuove fattezze. Come “Autoroute” di François Bon, ed.Seuil, da cui Incardona prende figure come la donna del casello, una coppia in cerca delle fedi nuziali gettate dopo una lite, e un cantoniere. E l’immagine dei mammut riesumati con la costruzione dell’autostrada. La potenza della letteratura, amare a tal punto un libro da servirsi dei suoi personaggi per renderli parte integrante di un altro romanzo, dando loro, così, sembianze nuove, come autorigenerandosi. Si scopre in questo modo la bellezza di personaggi come Jacques Bodin, che passa la vita nei pressi dell’autostrada a raccogliere e conservare ciò che la gente dimentica, dai giochi per bambini a una macchina da cucire, a lettere d’amore, perché un giorno qualcuno potrebbe tornare a cercarle. E quella lettera richiama a sua volta un altro libro, “Sotto il vulcano” di Malcom Lowry.

Può una storia che racconta la sparizione di minori portare il lettore a cercare di entrare nella mente del carnefice e analizzare quel delicato equilibrio tra follia e perversione con la vittima? Nella testa del carnefice si annida il male. Il male è ciò attorno a cui ruota il romanzo, quello inflitto e quello subito. Il male si insinua nella mente, entra e non va più via, chiuso con una cerniera lampo che Pascal si fa tatuare sul cranio, proprio lungo il solco della cicatrice che corre da un orecchio all’altro a seguito di un’operazione per un incidente in moto. Una cerniera pronta per essere aperta e liberare il male. “Lo avevano scoperchiato per introdurre il Male nella sua testa. Un Male adulto. Fino all’incidente era riuscito a tenere a bada un Male bambino e poi adolescente. Durante l’operazione, uno dei medici si era sbarazzato del proprio Male per depositarlo nella sua testa”.

Ogni personaggio è connotato sessualmente, in un’ottica slegata dall’aspetto erotico, ma che diventa vera e propria caratteristica fisica perché funzionale a descrivere le debolezze dell’essere umano, le sue viscere, il fatto di essere fatto di carne e istinti primari. Sesso come lavoro, come per il transessuale Lola, o per la vecchia saggia Tia Sonora, con un passato da prostituta che ha visto la fila di dodici teste allineate sul bordo della strada all’uscita di Ciudad Juárez “I dodici apostoli di Santa Cocaina”. Sesso come perversione di ciò che non si è più in grado di fare, come per Pascal. Sesso come punizione che si infligge chi, come Ingrid, finisce ormai alla deriva per un dolore non rimarginabile come la perdita di un figlio, rendendo il proprio corpo alla mercé di chiunque, ma solo dove sarebbe “incapace di partorire”, negandosi nell’unica parte da cui potrebbe generare.

Il lungo lavoro sul linguaggio dà a “La metà del diavolo” un ritmo incalzante tra dialoghi serrati e ampie pause, che arrivano all’improvviso come per sedimentare quella carica emotiva. Come una partitura musicale, quell’architettura fatta di un intreccio fitto di parole, pause e ripetizioni andava lasciata intatta in fase di traduzione, racconta Turla, proprio per rendere quelle inquietudini anche attraverso la struttura del linguaggio. C’è una sensazione permanente di alienazione nel guardare ai personaggi di Incardona, resa anche attraverso una prosa che insiste sugli a capo e sulle pause. Tredici movimenti che rendono bene lo spaesamento dell’umanità che popola quel non luogo, l’autostrada, e che mi ha fatto pensare alle descrizioni di Italo Calvino ne “Le città invisibili”. Luoghi raccontati attraverso le sensazioni che trasmettono, luoghi che rappresentano idealmente la vita, come l’autostrada ne “La metà del diavolo”: città e memoria, città e desiderio, città e morti.

Luoghi immaginari per raccontare l’inferno reale dei viventi, quello che, ci ricorda Calvino, abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. L’antidoto può essere l’accettazione di quell’inferno, “diventarne parte fino al punto di non vederlo più”, oppure “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Ecco allora che si capisce realmente l’incipit di Incardona. “Pierre Castan apre gli occhi. Dietro il parabrezza sporco, il mondo è ancora lì: un’area di servizio oppressa dal caldo”. Quel parabrezza è il suo filtro col mondo, che non poteva che essere sporco.

 

(recensione uscita l’11 novembre 2016 su Repubblica Parma Libri letture e dintorni)

I libri di Alice: La metà del diavolo