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Ero l’Arminuta, la ritornata. 

Riportata a tredici anni alla famiglia naturale come una valigia ingombrante dallo zio, creduto il proprio padre fino a quel momento, dalla città alla campagna, dagli agi alla povertà, dalla solitudine di figlia unica alla rumorosità di una famiglia numerosa. 

Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso. 

Donatella Di Pietrantonio in “L’Arminuta” (Einaudi) affonda la scrittura in un tema straziante: l’abbandono, che non è una semplice perdita ma una moltiplicazione che implica una mancanza di riferimenti. L’Arminuta non conosce il motivo per cui la famiglia “adottiva” ha deciso di disfarsi di lei, si fa mille colpe, passa dalla preoccupazione per la salute della madre, alla rabbia per il suo silenzio, alla ferrea volontà di conoscere la verità, al disagio e alla vergogna per essere stata abbandonata. 

Sono cominciati così gli anni della vergogna. Non mi avrebbe più lasciata, come una macchia indelebile addosso, una voglia di vino sulla guancia. 

I sentimenti traditi e umiliati, negati e recisi sono costruiti faticosamente attraverso la parola madre e mamma, che Donatella Di Pietrantonio dosa con cautela durante il racconto: mamma inizialmente è Adalgisa, la zia dell’Arminuta che l’ha allevata fino a tredici anni come una figlia, la cui grande dedizione rende ancora più traumatico e doloroso l’abbandono, che prende corpo nella difficoltà di poter pronunciare, dopo il ritorno alla famiglia naturale, la parola mamma pensando a lei; quella che l’ha generata è indicata a stento e sempre con fatica come madre, difficilmente come mamma. 

Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori. 

Intorno alla parola mamma si annida il tema più scabroso e tagliente del romanzo. Nella difficoltà della protagonista di poter articolare la parola più cara che un bimbo possa pronunciare: 

Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. 

Di fronte a lei due donne, entrambe in qualche modo madri, ma nessuna delle due più mamma per l’Arminuta. In questa desolazione sentimentale si concentra il dramma più profondo dell’abbandono, il deserto emotivo in cui la protagonista si trova invischiata senza saper comandare né obbedire al suo cuore, che ondeggia e barcolla senza più un indirizzo o una direzione: 

oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho perduto è quella delle mie paure. 

Servono le parole giuste per contenere il senso di vertigine di fronte al baratro spalancato dal romanzo. Ma le parole per quanto scabre nella loro essenzialità, misurate e composte nel contenere l’intensità e l’incandescenza dei sentimenti e della storia, da sole non bastano. Subentra anche il tempo verbale: il passato che imbriglia, affatica, racconta e il presente che spiega, inspessisce, chiarisce. In questo gioco continuo che senza altro elemento esplicito, se non l’uso stesso dei tempi verbali, mostra una voce narrante a distanza dalla storia vissuta, Donatella Di Pietrantonio rinvigorisce il senso di spaesamento e di sradicamento dell’Arminuta. Lo fa in maniera implicita, sottile ma persistente, facendo sì che un sentimento sostanziale diventi universale, e che continui a caratterizzare la protagonista anche a distanza di tempo, oltre il tempo narrato che sconfina in quello vissuto. Quella che narra è una voce in cui i sentimenti si sono sopiti, ma non sanati; in cui le ferite non sono più infette, ma neppure rimarginate. A questa compostezza che nulla toglie alla profondità dei sentimenti si deve l’eccezionalità del romanzo, la perfezione del dettato e la forza straordinaria che emana dalla storia. 

Su tutti i sentimenti, si staglia prepotente e spavaldo quello che da subito lega l’Arminuta alla sorella minore, Adriana. Perché in ogni perdita, c’è sempre un ritrovamento. Nel tornare indietro, qualcosa è inevitabile che finisca per appartenere. Nella complicità le sorelle si salvano a vicenda, pur nella diversità dei temperamenti, delle occasioni e delle possibilità. Accanto all’Arminuta, la scrittrice sbalza una figura indimenticabile: una piccola donna, precoce e infantile, dura e fragile, solitaria e comunicativa. I gesti più scoperti di coraggio e di presa di posizione di fronte agli altri e dinnanzi al destino sono tutti riportati ad Adriana, alla capacità smisurata della bambina di entrare in empatia, di cogliere le situazioni, di nutrire nel suo cuore piccino grandi amori, di credere nel cambiamento e nel futuro, di non lasciarsi sconfiggere dalle avversità e dalle perdite. Sembra quasi che Adriana riesca a mantenere sulle proprie tenere spalle il peso della famiglia intera, di bilanciarne gli equilibri delicati e instabili, di ricompattare i cocci quando la sventura e il dolore si abbattono sulle pareti della casa. Per poi mostrare il disagio e la paura, di notte al buio, bagnando il letto con la pipì. 

Adriana sarà l’appiglio per l’Arminuta di trovare un senso al suo ritorno. A differenza della relazione con Vincenzo, il fratello maggiore, che mette in discussione i legami di sangue, e che nella tragedia manifesta l’unica carta possibile. 

Romanzo potente, “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio, romanzo prepotente e smisurato, cesellato con perizia straordinaria. La scrittrice è un’orafa, che dalla pietra grezza e ruvida estrae il metallo prezioso del racconto, e lo fonde e lo forgia, per poi inciderne la superficie ottenendo un rilievo di nitida, perfetta bellezza, come un gioiello antico, prezioso e unico, dal valore inestimabile.

L’Arminuta