di Alice Pisu

Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma.
Libraia e giornalista, al timone con Antonello Saiz dei Diari di bordo, libreria indipendente a Parma.

 

 

 

 

 

 

 

 

Imbastire il vuoto

il-grande-animale-d475Il grande animale, Gabriele di Fronzo, Nottetempo

John Cage racconta che dietro la composizione di 4’33”, ideata nel 1952 per proporre  l’ascolto del silenzio visto come un materiale sonoro variabile e quindi vivente, c’era l’esperienza fatta in una stanza insonorizzata dell’Università di Harvard. In quella stanza era convinto che avrebbe fatto esperienza del silenzio sperimentandolo come un vuoto assoluto, come il risultato dell’assenza di qualsiasi rumore o pulsazione. In quella stanza invece Cage scopre che qualcosa, nel silenzio, permane. Qualcosa permane anche nell’assenza, nel silenzio come nel vuoto. Ho pensato a questo nel leggere il romanzo d’esordio per Nottetempo di Gabriele di Fronzo che, ancor prima di parlare di morte e di elaborazione del lutto, racconta il silenzio, il vuoto, un vuoto da riempire, da “imbastire” per sopravvivere a una perdita. Lo fa attraverso un protagonista ai limiti dell’inquietante, Francesco Colloneve, un tassidermista che vive nel suo fortino fatto di pochi essenziali elementi e non ammette alcuna incursione dall’esterno. La perdita è raccontata attraverso la sua professione e anche attraverso il prendersi cura del padre malato. Per riuscirci, l’autore ha immaginato una figura che seguisse un galateo del comportamento da tenere in questi casi, come una sorta di galateo del lutto, che lo porta a misurare ogni singolo gesto e a calibrare ogni parola. Raccontare la morte attraverso gli occhi di un imbalsamatore permette di mettere in luce un’incapacità comune: affrontare e convivere con una perdita senza ricadere inevitabilmente nell’appigliarsi a qualcosa di materiale appartenuto alla persona cara, che si tratti di un paio di occhiali o della fede nuziale, di una ciocca di capelli o, nei casi raccontati da Di Fronzo, del corpo stesso dell’animale, per “farlo sembrare ancora vivo”, come gli chiedono i suoi clienti. E’ un’illusione, un modo per convincersi che quel dolore sia più accettabile. E Francesco Colloneve lavora ogni giorno con tutto questo, il suo lavoro “ha a che fare con la parte viva dei morti”, dice.

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In Santa Evita, di Tomas Eloy Martinez, Sur, quando il generale Peron decide di far imbalsamare il corpo di Evita commissionandone anche altre copie per depistare rivendicazioni da parte gruppi politici, il dottor Ara descrive la pratica dell’imbalsamazione usando una definizione che certamente Francesco Colloneve amerebbe: “L’arte dell’imbalsamatore è simile a quella del biografo: entrambi tentano di immobilizzare una vita o un corpo nella posa che deve essere ricordata dall’eternità”. Sulla posa da dare all’animale imbalsamato, il più naturale possibile per il protagonista de Il grande animale,  il personaggio di Cesar Aira in Come imbalsamare animaletti mutanti, Sur, avrebbe qualcosa da ridire. Oltre a descrivere le pratiche utilizzate negli anni Venti a Colon, Panamà, nel cercare di imbalsamare un pesce nella posa di suonare un pianoforte, il personaggio di Aira parla della morte, descrivendola come tappa di passaggio per permettere a quell’essere di vivere una nuova vita. Ne Il grande animale quel lavoro con i corpi degli animali, descritto con dovizia di dettagli, racconta un rispetto profondo che va ben al di la delle ragioni professionali: per sua stessa ammissione Francesco Colloneve dice di non conoscere un’altra persona consacrata a loro allo stesso modo. 16809744_761027497389280_593312350_n

Quasi non esistono dialoghi ne Il grande animale, i personaggi sono pochissimi, i luoghi sono scarni eppure dalla prima all’ultima pagina il lettore non riesce a staccarsi da quelle pagine, pur provando un disagio quasi fisico nel leggere di crani svuotati e occhi da asportare. Si sente quasi invischiato in quella scrittura. E’ un flusso continuo e incessante in prima persona, suddiviso però in 125 frammenti che sono come immagini terse. Quella suddivisione richiama il modo stesso di Francesco Colloneve di intendere la vita, smembrando, suddividendo, razionalizzando ogni singola cosa, accandendosi nel rendere quasi asettici quegli ambienti di lavoro e di vita, perchè quelli sono gli unici modi che conosce per elaborare il dolore.

difronzoC’è un profondo lavoro sul linguaggio nel romanzo di Gabriele Di Fronzo, nella scelta di ogni singola parola da far pronunciare al suo protagonista di cui il lettore non conosce i tratti somatici, chissà se porta i capelli lunghi o meno e di che colore sono i suoi occhi, sa solo come sono le sue mani e può forse intuirne la statura ma non riesce a vederlo. Eppure lo immagina attraverso quel linguaggio, che diventa un modo di connotarlo quasi più che attraverso una descrizione fisica. Un’operazione che ricorda per certi versi la scrittura di un altro giovane autore italiano, Alessandro Raveggi, che nel suo Il grande regno dell’emergenza, LiberAria, racconta le debolezze dell’essere umano, con una scelta linguistica che attinge da termini spesso desueti, insoliti e a volte difficilmente comprensibili a chiunque. Connotare anche e soprattutto attraverso il linguaggio. Lo fa Raveggi, che nel racconto “I nostri oggetti paterni” si collega idealmente a Il grande animale per l’immagine del funerale di un padre che impone ai figli, tra le ultime volontà, di presentarsi al rito vestiti in maschera: una farsa quasi tragicomica che è un modo, uno dei tanti, per fare i conti con quel dolore e elaborarlo. Come fa Di Fronzo con Francesco Colloneve nell’atto di accanirsi a pulire una casa che racconta la vita di un padre compreso finalmente dal lettore solo quando i ricordi inizieranno a riemergere. “E’ grazie alla memoria che il passato esiste”, scriveva Yan Lianke in Pensando a mio padre, Nottetempo. Anche ne Il grande animale il passato ha un ruolo fondamentale: è in grado, assieme alla malattia, di cambiare i rapporti personali tra un padre e un figlio. “Tra i figli alcuni, me compreso, non si abituano ad avere a che fare col proprio padre, e passano invece tutta la loro vita a indagare l’unico modo che esista per vivere senza”.

Tutto ruota attorno alla figura del padre raccontato anzitutto nel presente, un presente fatto della regressione data dalla malattia, da piccole ossessioni che diventano predominanti, in quelle giornate trascorse a far nulla girando con un accappatoio di spugna azzurro pieno di cose: la spilla, il mazzo di chiavi, gli occchiali da vista, l’agenda dell’anno in corso, la réclame del supermercato, il burrocacao all’anice, la limetta per le unghie, il deodorante spray, la spazzola e lo specchietto, lo spazzolino da denti. Cose apparentemente inutili ma per lui indispensabili: il suo mondo nelle tasche. Un mondo dove pesa l’assenza, quel vuoto, reso anche col silenzio, con quei mobili che raccontano di un passato in due mutato, ora, in un presente a metà, come quel divano segato per diventare poltrona, o come quel letto a rimarcare l’assenza: quel suo letto morsicato, come lo chiamava, doveva esibire quell’assenza, rimarcare un’esistenza monca.

Raccontare anche attraverso gli odori permette al lettore di entrare realmente nella pancia del grande animale, quell’odore della casa paterna fa capire a Colloneve lo stadio esatto dell’obiettivo che si è prefissato e solo quando quell’odore assumerà altre fattezze il suo compito potrà dirsi concluso. Ma è anche l’odore dell’animale oramai diventato un sapore, dice. “Io e mio padre, a respirare l’odore gramo delle cose introverse, a farci i suffumigi di quell’odore che hanno le cose quando sono rimaste al chiuso per troppo tempo”.

Davanti a un’appartente asetticità emotiva, c’è il racconto di un dolore, della sua elaborazione, attraverso descrizioni minuziose di oggetti, azioni, dettagli, ma anche attraverso le percezioni sensoriali, come gli odori. Il vuoto, quella liturgia del vuoto che è Il grande animale, come lo ha definito Michele Lauro, è l’origine e la fine di tutto: è nel tentativo perenne di contrastare quel dolore, di vivere senza, è nella costante ricerca di imbastirlo, quel vuoto.

 

(L’articolo è apparso su Repubblica Parma, Libri parole e dintorni, nella rubrica “Letture, di Alice Pisu”).

I Libri di Alice: Il grande animale