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Tutte le frasi celebri, una volta divenute aforismi, perdono la carica di significato, proprio in virtù della loro celebrità: usate e usate, finiscono per essere abusate. Salvo poi accorgersi, in momenti determinati, che la loro verità è intatta e prepotente.

Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

Questa frase di Eco, ripetuta migliaia e migliaia di volte in ogni contesto, si attaglia benissimo a “Peperoncino” di Alan Mabanckou, edito da 66thand2nd nella traduzione, brillante e briosa, di Filippo D’Angelo. Se non avessi letto il romanzo, non avrei mai potuto vivere la vita straordinaria, malinconica e spiazzante di Mosè, soprannominato Peperoncino per un goliardico atto di coraggio e di vendetta nei confronti dei gemelli, Songi – Songi e Tala – Tala, che umiliano e malversano il suo migliore amico Bonaventure. Ma i gemelli, nella furbizia e astuzia che li contraddistinguono, pur essendo stati in punto di morte a causa del peperoncino versato nel loro cibo da Mosè, ne riconoscono l’ingegno e l’audacia e lo invitano a fuggire con loro dall’orfanotrofio di Loango in cui vivono, per cominciare una nuova vita nella città di Pointe-Noire. 

1st 10 days in the Congo 083Una vita ai margini, fatta di astuzie e atti delinquenziali, vissuta da Peperoncino con una sfrontata ingenuità, un’ostinata purezza e una generosità di gesti, che lo rendono un Pinocchio luciferino, capace di ogni tipo di monelleria ma sempre innocente nello sguardo e per questo caro al cuore non solo dei lettori, ma anche dei personaggi più incontaminati che incontra sulla sua strada.

Ma in “Peperoncino”, ed è questo l’incanto della narrazione di Mabanckou, il lettore è portato non solo a vivere la vita del protagonista, ma anche e contemporaneamente le diverse vite della varia, multiforme, colorata e sgargiante umanità che si raccoglie intorno al ragazzo, e nei confronti della quale il protagonista del romanzo è un’irresistibile calamita, da cui è a sua volta attratto: Papà Moupelo, insegnante poi espulso dalla scuola (come gli altri personaggi dell’orfanotrofio a cui Mosè si affeziona), Sabine Niangui, che fa le veci di una madre accudente visto che il ragazzo non ha mai conosciuto la propria, Gesù Mammaria, confidente e consigliere quando con i gemelli arriva a Pointe-Noire e si insedia con la banda nel Grand Marchè, e ancora regina assoluta, Mamma Fiat 500, prostituta vivace e accogliente, asta_fiat_500_1971_david_cameron

Col tempo venni a sapere che Mamma Fiat 500, il cui vero nome era Maya Lokito, si faceva chiamare così perché quando ancora lavorava nello Zaire possedeva una piccola auto, una Fiat 500 bianca. Era fiera della sua macchina, un modello prodotto negli anni Cinquanta e in voga fino alla metà degli anni Settanta, progettato da un italiano, un certo Dante Giacosa, precisò. Era il regalo di uno dei suoi clienti più illustri, un oppositore del regime del presidente dello Zaire.

con le sue ragazze, coriandoli multicolori che riempiono le pagine di allegria, spazzate via dall’oggi al domani dalla persecuzione del regime rivoluzionario congolese:

le rivedo una dopo l’altra, quelle ragazze, con i loro pagne multicolori, il trucco copiato dalle riviste di moda, le unghie finte, il rossetto acceso, tutto sbaffato, che stampava baci indelebili sui risvolti delle giacche e i colletti delle camicie dei clienti, i finti occhi blu o verdi che al tramonto viravano al rosso, i rozzi tacchi a stiletto da due soldi che le facevano camminare come rinoceronti in fuga dai bracconieri, le borse con dentro preservativi e perizomi, profumi Mananas o Joli Soir, pettini tradizionali.

 e infine Kolo Loupangou e Ndeko Nayoyakala, gli ultimi amici di Peperoncino.

Accanto ai personaggi che con stramba generosità aiutano Peperoncino a crescere e a superare momenti delicati della vita, ci sono i cattivi, chiusi in una meschineria spocchiosa e negletta, e proprio per questo, straordinaria capacità di Mabanckou, esilaranti e divertenti: Dieudonné Ngoulmoumako, il direttore dell’orfanotrofio, con la schiera di nipoti, alcuni protetti e avvantaggiati, altri messi in disparte e non considerati; i gemelli Songi – Songi e Tala – Tala; Robin il Terribile, incubo del Grand Marchè messo a tacere dai gemelli con cattiveria e crudeltà; il sindaco di Pointe-Noire François Makélé, una parodia dissacrante e aspra della politica. Quanto più sono crudeli e malvagi, quanto più le loro azioni sono riprovevoli e orribili, tanto più Mabanckou riesce con un capovolgimento salace e geniale a renderli piccoli e meschini, conservando un tocco di divertimento e straniamento nel raccontare fatti atroci e atteggiamenti gretti.

congoLa stessa Rivoluzione congolese che fa da sfondo all’infanzia di Peperoncino è descritta con toni stranianti, sia perché vissuta in un luogo marginale e isolato come l’orfanotrofio di Loango, sia perché filtrata dallo sguardo di due tredicenni, Peperoncino e Bonaventure, che nulla sanno del mondo e della realtà, ma la intuiscono dai gesti, i capricci, le contraddizioni degli adulti che li circondano, e dalla sparizione delle persone a loro più vicine, come Papà Moupelo o il professore Doukou Daka. L’orfanotrofio diventa microcosmo in cui intervengono tutte le forze rivoluzionarie e controrivoluzionarie, fino ad assurgere a metafora dell’intera nazione, e forse dell’Africa tutta:

A dire il vero, fin quando la Rivoluzione non ci era piombata addosso come una pioggia che nemmeno i nostri più osannati stregoni avevano saputo prevedere, io credevo che l’orfanotrofio di Loango non fosse un istituto per minorenni senza genitori, o vittime di maltrattamenti, oppure nati in famiglie in difficoltà, ma una scuola per bambini prodigio.

Il portento di Mabanckou è nello straniamento e spiazzamento. Così il lettore cambia pelle a ogni riga, ma non perde mai la sua vera natura e nel guazzabuglio ironico, colto e irreverente riesce sempre a trovare la verità, insieme a Peperoncino, che pur apparendo confuso e refrattario, conserva sempre vivo e brillante il senso e il valore della verità, anche quando questa sembra cozzare con la realtà, anzi forse proprio nei momenti in cui perde la lucidità e ogni cosa sfuma nell’oblio.

Alain Mabanckou non perde mai il sorriso, disteso e aperto, e insieme a lui non lo perde Peperoncino, e con loro non lo perdono i lettori, che nel seguire le tante figure del romanzo, con una leggerezza di spirito dettata dal motto:

non serve farne una tragedia greca in salsa africana

si commuovono e si intristiscono, si adirano e si tormentano, conservando una visione spensierata e allegra, che tutto capovolge in un carnevale infinito.

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Grande, grande narratore Alain Mabanckou, capace di far vivere tante vite ai lettori, ma soprattutto vite sorprendenti, nel bene e nel male, imprevedibili e non scontate, e di lasciarli ricchi di esperienze e di visioni, che da soli non avrebbero mai concepito. Un modo nuovo, colto, geniale di raccontare l’Africa e i suoi dolori, le occasioni mancate e gli sfruttamenti, senza fare tragedie ma trovando nella commedia e nel sogno, nei desideri e nelle speranze la chiave interpretativa delle vite e della Storia.

Non mi restavano che poche ore per decidere. Rischiare e seguire i gemelli o rimanere accanto alla persona per la quale nutrivo un affetto profondo? Non mi ci vedevo ad andarmene senza di lui. E se un giorno un aereo fosse davvero atterrato davanti all’orfanotrofio?

Peperoncino