di Antonello Saiz

Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”
Libraio a Parma con Alice Pisu di “Libreria Diari di bordo”

 

 

 

 

 

 

 

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La cultura deve essere élitaria e destinata a persone autorevoli o deve partire dal basso? Io non ho mai avuto dubbi. Durante il Festival di Sanremo da sempre partecipo a Gruppi di ascolto molto divertenti. Quest’ anno nella prima serata, a casa di amici, il più burlone di tutti, discutendo animatamente sul rossetto rosso giungla di Giusy Ferreri, mi ha apostrofato dicendo: “parli tu e il tuo Zaino da parrucchiera”. Ho tanto riso ma anche riflettuto. Io ho sempre amato molto andare dal parrucchiere: avevo uno zio che faceva il barbiere e pure il mio nonno materno lo era. Da bambino consideravo un privilegio poter accompagnare mia madre dalla parrucchiera. Andare dalla parrucchiera una volta al mese era un’esperienza fondamentale e formante: mi permetteva infatti di entrare in contatto con un mondo a me del tutto sconosciuto e popolato di personaggi a me ignoti. Un punto di vista interessante di una piazza diversa dal punto di vista antropologico. Guardavo sempre con meraviglia i giornali e le riviste che si trovavano e ascoltavo voci e argomenti nuovi e i segreti più inconfessabili mi si schiudevano davanti agli occhi. Quello che deve fare la Cultura per come la intendo io. Veicolare libri con un approccio diverso, fresco, giovane, lontano dalla polvere che allontana. Per questo ho scelto con piacere l’invito di un Blog molto Pop, quello di Giuditta non per fare recensioni, ma per Veicolare informazioni, libri vecchi e nuovi. E se un Sabato mattino una cliente mi arriva in libreria con una lista intera di libri suggeriti dal Blog di Giuditta, lo Zaino della parrucchiera è felice. Non ho mai considerato il mestiere di shampista con discriminazione, neanche nel gergo gay tanto abusato e dove si crede erroneamente che parlare con un parrucchiere sia parlare con una persona priva di cultura, priva di conoscenza, con qualcuno che non ha avuto voglia di studiare o approfondire. Non ho mai visto i saloni da parrucchiera come punto di ritrovo per i pettegolezzi (…se vuoi sapere qualcosa, vai dal parrucchiere, lì si sa tutto..), ma sempre come piccoli locali di scambio di idee e condivisioni. E questo proprio si propone il mio Zaino. Vidal Sassoon e Christian Dior, sono nati in quei piccoli saloni, da soli, dal nulla, con le loro mani e le loro idee si sono fatti. Nell’arco delle evoluzioni, nonostante giudizi e pregiudizi la figura del parrucchiere può essere fondamentale e indispensabile. Una parrucchiera col suo zainetto può entrare in contatto con perfetti estranei, e creare rapporti che, nell’evolversi quasi naturale, diventano sottili legami, meritando fiducia e instaurando confidenza. Attraverso lo Zaino della parrucchiera ci proponiamo di far passare titoli non facili e altre Letterature ed ecco perché a noi che piace la Cultura dal basso, oggi, zaino in spalla e andiamo in Artico. 16507479_10212569456420037_1832659194_n

Ciascuno porta dentro di sè la sua idea del Nord.

Sabato 4 Febbraio in libreria abbiamo presentato il libro di Matteo Meschiari, “Artico Nero”, Exòrma Edizioni, attraverso letture estratte dal libro. Un viaggio dentro i segreti del Nord e del ghiaccio.

Oggi parto da questo libro per fare un viaggio proprio verso il Nord.

“Il Nord è un punto sulla mappa grazie al quale ci orientiamo. E’ la direzione intrapresa nel corso della storia dagli avventurieri , dai curiosi, dai solitari, dai temerari. Il Nord è una sensazione, un senso, una tentazione. Il Nord non è solo una rotta che termina nel ghiaccio, negli avamposti più remoti e nella desolazione del Circolo Polare Artico. Il Nord è più una meta che un luogo: scompare sempre all’orizzonte prima che sia possibile raggiungerlo, passato l’ultimo villaggio, fuori dal bordo più estremo della mappa. Il nord è irraggiungibile, rimanda sempre a un nord ulteriore, a un altrove. Ognuno può circoscrivere la propria immagine del Nord, per incorniciare il luogo che per lui è il Nord: villaggi di arenaria nei recessi delle brughiere; striature di neve, simili a vene di quarzo, che percorrono i lati in ombra dei muri; case in legno assiepate intorno al porto sotto spogli dirupi; il rosa e il bel grigio delle nuvole cariche di neve battute dal vento, colori delicati che anticipano freddo intenso e tempesta.
Il nord è sempre un’idea cangiante, un concetto relativo e sempre elusivo. Il nord si sottrae sempre ad ogni tentativo di raggiungerlo,ritraendosi verso la notte polare, o verso l’aurora di mezzanotte nel cielo estivo.
Ciascuno porta dentro di sè la sua idea del nord. In Gran Bretagna, l’ombra a mezzoggiorno si allunga verso i pendii rocciosi del Derbyshire, le città scoscese del West Yorkhire, i remoti insediamenti in calcare di Allendale. Punta verso gli estuari fluviali nelle pianure scozzesi, le ripide roccaforti di montagne, i campi color ardesia di Caithness, delle Orcadi, delle Shetland e, ancora oltre dove il vento risospinge verso l’alto la spuma delle cascate. Questo è l’itinerario delle spedizioni sull’Artico, un itinerario non sempre ripercorso a ritroso: Kirkwall, Trondhem, Tromso, poi il ghiaccio.
Ciascuno porta dentro di sè la sua idea del nord. Dire”questa notte partiamo per il Nord” evoca immediati pensieri di un luogo più aspro, un luogo di privazioni: alture, tempo avverso, lontananza dai centri abitati. Un viaggio volontario verso il nord presuppone un desiderio di confrontarsi con gli aspetti difficili del clima, della topografia, dell’umanità. In un contesto narrativo anglofono la battuta ‘questa notte partiamo per il nord’ troverebbe spazio in un thriller, in un film d’azione o d’avventura, o di conquita di una terra selvaggia. Dire invece ‘questa notte partiamo per il Sud’ rinvia piuttosto a viaggi di piacere, esili di svago nel mondo pre-bellico: clima gradevole, agio, riposo, limoni, fontane, soffitti affrescati. Sarebbe troppo facile attribuire un genere alla direzione: il sud è femmina, il nord è maschio. E troppo spesso il nord distruttivo è rappresentato sotto le sembianze della Regina delle Nevi, della strega dei ghiacci.
Ciascuno porta dentro di sè la sua idea del nord… ”

Sono parole estratte dal libro edito da Donzelli “L’idea di Nord ” di Peter Davidson.

16558815_10212569456540040_1907299599_n“Artico Nero – La lunga notte dei popoli dei ghiacci” è un libro ambientato tra i ghiacci del Canada, della Norvegia settentrionale, della Siberia, della Groenlandia e in cui si raccontano sette storie inventate, immaginate, ma verosimili e sicuramente accadute a qualcuno in un tempo passato. Ci troviamo all’estremo nord del mondo, in luoghi dove la distruzione di una cultura non fa che anticipare scenari peggiori. Si parla di interi popoli annientati, di culture venute dal Paleolitico che si dissolvono come i ghiacci per il surriscaldamento globale; come quella dei Saami, o degli Inuit avvelenati dall’uranio americano. O degli Inupiat, inebetiti dentro scatole di lamiera chiamate case, scacciati dalle società petrolifere. O degli Jakuti che diventano i nuovi schiavi del commercio dell’avorio di mammut.
Un’analisi politica e sociale quella di Meschiari incassata nel modello romanzo-saggio. Un modo nuovo di raccontare e fare antropologia, con una scrittura precisa, essenziale, tagliente come un bisturi. Un affascinante intreccio di realtà e narrazione, dove il saggio si unisce alla narrativa,un genere che si definisce antropofiction. “Artico nero”, del resto, si colloca nella collana Scritti traversi, nella quale il viaggio rappresenta allo stesso tempo il tema principale dei libri ma anche un pretesto da cui partire per raccontare storie, raccogliere fotografie, parlare d’arte, di storia o di antropologia. Ed è proprio di antropologia che parla Meschiari nelle storie contenute nel suo libro, storie di popolazioni che vivono nell’artico e che nel tempo vengono minacciate e spesso annientate da chi è più forte e più organizzato o semplicemente dai cambiamenti climatici. Un viaggio interessantissimo, anche, soprattutto, tra i segreti più pericolosi che si nascondono tra i ghiacci in questo libro che non è un volume di saggistica, in senso stretto e non annoia mai.
L’atmosfera ghiacciata che il libro racconta mi ha dato il pretesto per pensare a quella idea del Nord che ciascuna porta con sè ma anche a letterature ambientate verso il Nord o a quei viaggi avventurosi o spedizioni fatte pensando al Nord come direzione.
Uno di questi reportage è sempre edito da Exòrma e si intitola “In Vespa a Capo Nord” di Filippo Logli. Un giovane toscano racconta la sua folle avventura da Pontedera a Capo Nord, in due a cavallo della mitica Vespa. Una PX del 1982, 125 di cilindrata, che dopo anni a riposo in cantina percorre 9.680 chilometri in 34 giorni e nel mezzo si fa anche una crociera sui mari del Nord in barcastop…
«Non è un hobby, non è soltanto una passione. Viaggio perché non potrei fare altrimenti», scrive Filippo nel prologo al libro. Filippo Logli nato nel 1985 vive a Pontedera e parla cinque lingue. Ha trascorso quattro anni viaggiando da solo, andando dal Venezuela alla Terra del Fuoco in autostop e nel 2010 ha affrontato una traversata oceanica in barca a vela.
Nel suo progetto di un viaggio in Vespa a Capo Nord per prima cosa cerca degli sponsor e ne trova parecchie con il supporto anche del Vespa Club di Pontedera,si cerca un compagno di viaggio, e sceglie Alessandro, routard giramondo come lui e poi si prepara a partire. In questo diario di viaggio ogni pagina è un’avventura. Dalla ricerca di finanziatori e sponsor, perché questo è un viaggio a costo zero, alle prime brevi uscite sulle strade di casa; dalle scalate estreme nella terra dei troll all’incontro con chi, tramite Couchsurfing, offre ospitalità sul proprio divano anche al Polo Nord.
Tappa dopo tappa, chilometro dopo chilometro, Filippo Logli ci racconta il piacere di guardare il mondo con lentezza, di farsi sorprendere da scenari mozzafiato, da incontri singolari, e dalle pieghe inattese che un imprevisto, per esempio un guasto meccanico o un banale fuori programma, può far prendere al viaggio.
Senza dimenticare l’affetto e l’aiuto di tutti i Vespa Club incontrati, e lo stupore e l’ammirazione di chi in giro per l’Europa ha incrociato il cammino dei due temerari vespisti e si è fatto incantare dal fascino di questo mezzo storico e immortale.

Tra i titoli che mi richiamano le asprezze del ghiaccio, il freddo e il congelamento, i viaggi verso Nord mi viene in mente questo libro da poco uscito per NN Editore e scritto da Rupert Thomson e dal titolo
“Katherine”. Tradotto slpendidamente da Federica Aceto racconta di questa ragazza, Katherine, nata da una fecondazione in vitro dopo essere stata congelata per otto anni. A diciannove anni Katherine vive a Roma, da sola: la madre è mancata dopo una malattia e il padre è spesso lontano per lavoro. Così un giorno decide di seguire i segni del destino. E scappa facendo perdere le sue tracce. Il viaggio, che la porta da Berlino fino ai confini estremi della Russia, è l’occasione per prendere consapevolezza delle sue origini e per venire a patti con l’assenza del padre e la morte della madre.
Un’amica dei Diari, Ilaria Benassi, grande e attenta lettrice ha fatto alcuni mesi fa per la nostra pagina facebook una bellissima e attenta analisi che vado a riportarvi:

“Certe volte immagino di essere stata scolpita nel ghiaccio(…) e che il mio cuore sia visibile: di un meraviglioso rosso scarlatto ma immobile, intrappolato, incapace di battere o di provare emozioni.”

Il motivo del viaggio come fuga in avanti alla ricerca della propria identità non è un elemento nuovo nella letteratura occidentale, ma qui è diverso. Katherine è stata concepita in vitro, è nata prima. E’ nata prima di nascere perché il suo embrione, prima di essere iniettato nel ventre materno, è rimasto congelato per otto anni. Otto anni di limbo, di vita non consapevole e tuttavia di esistenza che rimangono in sospeso per sempre nella sua coscienza. Un fatto inquietante, a volerlo analizzare: un numero di anni conteggiati con precisione ma destinati ad essere cancellati dalla data di inizio della sua vita. E Karherine porta con sè questo fardello mentre cresce, ama, sperimenta delusioni e dolore. Un senso di perenne incompletezza e di non-vissuto, un debito con la memoria, uno spazio temporale che le crea un vuoto perpetuo: un vuoto, lei dice, scritto nel suo DNA. E Katherine parte, anzi fugge, per trovare la sua risposta. Da Roma a Berlino fino al grande gelido Nord. Inseguendo indizi apparentemente casuali che per lei diventano messaggi in codice da decifrare. Per arrivare dove? Alle origini del tutto. Ed ecco che il lettore insegue affannato questa ragazza in una serie di fughe e avventure quasi rocambolesche, a volte drammatiche, spesso un po’ surreali, dove azione e riflessione si riequilibrano. Il passato si svela attraverso flash-back che raccontano un’adolescenza complicata, la morte di una madre amatissima, il senso di colpa, l’inadeguatezza di un padre sempre assente. Per questo Katherine si relaziona soprattutto con sconosciuti ( …”è solo tra gli sconosciuti che esisto”), che costituiscono una serie di incontri e ritratti umani indimenticabili. Per questo Katherine si affida all’immaginazione, ma un’immaginazione analitica che vuole precorrere la realtà e che diventa la voce della sua coscienza. Il romanzo è scritto benissimo, con un’incisività e immediatezza da linguaggio cinematografico, con dissolvenze improvvise sui diversi piani narrativi e meravigliose fotografie di paesaggi urbani e innevati. Immagini suggestive come lo schizzo di un bar berlinese o un fantasmagorico orso bianco spiato dalla finestra. E’ raccontato in prima persona, Katherine è protagonista e regista e dev’essere così. Vi sono pagine di struggente commozione, in particolare quelle che evocano i momenti trascorsi con la madre, attimi che inseriscono una pausa di intimità in una narrazione che ribadisce la paura delle emozioni. E Katherine porta al collo un medaglione che contiene le ciocche dei capelli di sua madre, come un’eroina dell’Ottocento, ma che qui hanno il significato di un talismano. Ha un grande freddo dentro, e per annullarlo lo cerca fuori, nel gelo che si trova ai confini del mondo. Troverà la risposta? Katherine-Alice entra nello specchio, in questo caso una piscina che ci ricorda il grembo materno, la sua corsa in avanti coincide con l’estremo opposto, il passato remoto. Un viaggio che ci tiene avvinti fino all’ultima tappa,alla ricerca del tempo perduto. E per concludere, la copertina: la foto di una ragazza dormente. E la scritta: does it change anything to analyze dreams?
Mi piace l’idea di coinvolgere nello Zaino recensioni di Lettori veri e appassionati forti di libri. Persone lontano mille miglia da certe dinamiche eitoriali. Secondo il mio modesto parere attraverso recensioni autentiche e spontanee e suggerimenti e segnalazioni di belle storie si può dare aria nuova al mercato editoriale. Ecco, quindi, che anche questo libro ambientato al Nord lo faccio suggerire da un’altra grande Lettrice, Francesca Maccani. Ognuno di noi, per affinità e sentimento, si trova i suoi suggeritori di fiducia. Francesca è uno dei miei. Il libro che ci segnala Francesca è “La Casa di rosa”, uscito nel 2007 grazie alla lungimiranza dell’editore Keller,è un romanzo passato ingiustamente inosservato e scritto da Hubert Klimko-Dobrzaniecki che ha firmato questa accattivante storia ambientata in Islanda.

“La casa di Rosa è un libro molto particolare diviso in due parti. Non ha la quarta di copertina perché in realtà entrambi i lati coincidono con l’inizio di una storia.
Non sapendo da quale iniziare mi sono affidata alla fascetta e mi sono trovata catapultata in Islanda, in una casa di riposo, dove il giovane protagonista trova lavoro dopo essersi trasferito dalla Polonia. Dall’altro lato, quello che io chiamo il B SIDE, ho incontrato una storia decisamente notevole. 70 pagine di poesia in prosa.Qui si narra una storia d’amore d’altri tempi, intensa e ricca di bellezza. Talmente bella da sembrare una favola nordica. È bene iniziare la lettura da questo lato.
Rovesciando il libro infatti inizia tutt’altra vicenda, apparentemente senza legami con la precedente.
Il protagonista, immigrato in Islanda, trova lavoro in una casa di riposo e qui si scontra quotidianamente con il decadimento fisico e mentale degli ospiti.
A differenza dei suoi colleghi però resiste e non si lamenta mai delle sue mansioni, anzi cerca sempre di apprendere cose nuove e si dimostra sempre molto umano nei confronti degli ospiti, anche dei casi più gravi.
Col tempo però riesce a guadagnarsi un impiego nel Tetto, la parte “vip” dell’ospizio e qui incontrerà Rosa, un’insolita signora raffinata e dalla sensibilità molto spiccata. Una figura quasi mistica che ricollegherà i fili delle due vicende in modo inaspettato. Rosa è cieca dalla nascita ma ha i sensi talmente sviluppati da far dubitare a tutti di essere non vedente.
La accompagna un profumo delicato di essenza di rose.
Scopriremo poi che Rosa è l’anello di congiunzione fra le due storie narrate anche se sfalsate sul piano temporale.
Ho amato moltissimo il lato della storia d’amore del romanzo e ho faticato un poco leggendo il lato “principale”. Ho proseguito su consiglio di Roberto Keller solo dopo aver gustato appieno la vicenda condensata nelle 70 paginette sul retro. Premesso che se non ci fosse stata la fascetta sul lato che io chiamo A, quello ambientato nella casa di riposo, probabilmente avrei iniziato la lettura dal lato giusto.
Del lato B ho amato la scrittura che è pazzesca, quasi più della storia, mi ha ricordato certa letteratura americana alla Caldwell de “Il piccolo campo”. Se non avessi avuto la certezza che il tutto si svolge in Islanda avrei tranquillamente pensato ad un’ambientazione nord americana, tanto è pulita e asciutta la scrittura e soprattutto per quanto nitida traspaia l’inellutabilità degli eventi.Veramente l’ennesima chicca targata Keller.”

C’è una case editrice milanese che si è prefissato come obiettivo quello di far conoscere esclusivamente la letteratura del Nord-Europa, esplorandola in maniera sistematica e facendo ricadere le sue scelte sempre su una produzione originale e di alta qualità. Voci di punta della narrativa contemporanea e testi riproposti in nuove, brillanti, traduzioni è quello che si respira sfogliando il colorato catalogo di Iperborea, dietro la bella forma peculiare dei libri, lunghi e stretti. Uno dei titoli più belli di Iperborea è “Anime Baltiche” di Jan Brokken. Si tratta di ben dodici racconti tutti immersi nei tramonti, nella neve, nelle strade e nei boschi di Lituania, Estonia, Lettoni. Jan Brokken ricostruisce le vite straordinarie di personaggi celebri e persone comuni, per riscoprire la vitalità di una terra da sempre invasa e contesa, dove la violenza della Storia è stata combattuta con l’arte, la poesia e la musica. Tra le case con il tetto spiovente, distrutte dai bombardamenti e ricostruite, i palazzi Jugendstil di Riga e le mura di Tallinn, tra i vicoli ebraici di Vilnius, i castelli della Curlandia e la Königsberg di Kant, oggi Kaliningrad, rivivono i film di Ėjzenštejn figlio, che si unì ai bolscevichi contro il padre zarista per ritrovarsi come lui chiuso in un’ossessione di grandezza; le mille vite di Romain Gary, che nella letteratura trovò rifugio dai campi nazisti senza mai riuscire a perdonarsi di essere un sopravvissuto; quella frattura che attraversa tutte le tele del pittore Marck Rothko, strappato dai rossi tramonti della sua Daugavpils;la fuga di Hannah Arendt dai bombardamenti della città di Königsberg, in cui ha vissuto gran parte della sua infanzia; la storia di Jane Roze, del suo lavoro di libraio interrotto dalle rivoluzioni russe del 1905 che tentarono la presa del palazzo d’inverno a San Pietroburgo per poi essere imprigionato e poi liberato, e poi fuggire a Riga dove fonda un casa editrice e una libreria (l’incontro di Jan Brokken con Ainars Roze, il nipote dà vita ad uno dei più bei racconti del libro, pieno di passione, non solo amorosa, nei confronti della resistenza, dei libri, della cultura); ma anche la Rivoluzione cantata della giovane Loreta contro i carri armati sovietici, o la segreta diaspora dei baroni baltici, tra cui la moglie di Tomasi di Lampedusa, prima psicanalista donna in Italia. Passato e presente si richiamano come in una sinfonia in cui ogni dettaglio racconta una passione, un’illusione infranta, o una profonda nostalgia. Un viaggiare in queste terre capace di far riemergere in ogni incontro, in ogni palazzo, in ogni strada, la storia di un popolo e il suo il desiderio di indipendenza dalle invasioni. Viaggio in un cruciale ma dimenticato pezzo d’Europa, “Anime baltiche” lascia il segno di un grande romanzo per capire il XX secolo, perché “viaggiare, insieme a leggere e ascoltare, è la via più breve per arrivare a se stessi”.

16650248_10212569456500039_1643480318_nC’è poi una bella casa editrice romana che insieme ad una narrativa parecchio raffinata e alla saggistica di attualità ha dedicato fin dall’inizio una parte significativa della propria produzione al viaggio, all’avventura, al mare, settore in cui si colloca ormai tra gli editori di riferimento in Italia. Si chiama Nutrimenti ed nella collana di letteratura del mare, chiamata Nautilus, ha pubblicato “L’uomo che inventò il polo Nord “di Philipp Felsch.

Parlando di Nord e artico e segreti dei ghiacciai non si può non ricordare la biografia di questo geografo e cartografo tedesco, August Heinrich Petermann,responsabile di tanti naufragi, navi scomparse, rotte smarrite in mezzo ai ghiacci.
La conquista del Polo Nord avviene nel 1909 con l’americano Robert Edwin Peary. Prima di quella data ci sono decine di spedizioni fallite, promosse per decenni proprio da Petermann, studioso tedesco ossessionato dall’idea di una conquista per mare del Polo Nord. Ma Petermann era soltanto uno studioso, un esploratore da salotto. Nella seconda metà dell’Ottocento numerose spedizioni partite alla conquista del polo Nord andarono alla deriva sulla base delle teorie e delle mappe immaginarie di questo signore che fu anche il motore dell’esplorazione dell’Artico. Per il cartografo di Gotha il polo Nord era l’ombelico del mondo e la conquista di questo ombelico il compito più importante dell’umanità. Julius Payer, l’esploratore austriaco che scoprì la Terra di Francesco Giuseppe, chiamò Petermann “padre di tutte le spedizioni”. Jules Verne lo trasformò in una figura romanzesca. Eppure, benché all’epoca appartenesse all’aristocrazia internazionale delle esplorazioni polari, dopo la morte Petermann fu presto dimenticato.
Il perché è evidente: non era uno di quegli eroi che finivano congelati sul pack. Era un armchair explorer, come si diceva con scherno in Inghilterra, un esploratore da salotto. Petermann dirigeva l’impresa dell’esplorazione polare da una cittadina della provincia tedesca e di persona non si era mai spinto più a nord di Edimburgo. Ecco perché un’ombra di dubbio aleggiò sempre sulla sua reputazione. Per gli uni era il grande teorico, per gli altri lo svitato dell’Artico.
Sulla base delle sue teorie e delle sue cartografie immaginarie, velieri percorsero i mari ghiacciati del circolo polare artico nell’infruttuosa ricerca di una corrente d’acqua tiepida che consentisse di raggiungere il novantesimo parallelo Nord. Inutilmente cercarono le tracce della spedizione di John Franklin, perduta nella ricerca del passaggio a Nord Ovest; molti smarrirono la rotta e naufragarono tra i ghiacci come la Admiral Tegetthoff di Julius Payer.
Nel settembre del 1878 Petermann si sparò un colpo alla tempia, forse deluso dai suoi fallimenti, forse semplicemente depresso d’indole. L’anno successivo l’ufficiale americano George Washington De Long a bordo della Jeannette tentò un ultimo assalto al polo Nord, ancora una volta facendo affidamento sulle carte di Petermann. Quello che ne seguì fu un ulteriore tragico fallimento e una vicenda tra le più avventurose e drammatiche dell’epopea artica.

I DIMENTICATI

16522769_10212569456260033_645211252_nC’è un libro edito da Voland, “Oltre Capo Nord. Viaggio di una donna allo Spitzberg” che consegna alla modernità una scrittrice purtroppo dimenticata, si tratta di Léonie d’Aunet.

Estate 1839: dopo un lungo viaggio attraverso Olanda, Danimarca, Svezia e Norvegia, Léonie d’Aunet è la prima donna a oltrepassare il Circolo Polare Artico, giungendo allo Spitzberg, nelle isole Svalbard, in pieno mar Glaciale Artico; scampata alla morsa dei ghiacci, Léonie si lancia al ritorno in un’avventurosa traversata della Lapponia, tra paludi infestate di zanzare e popolazioni incuriosite da questa inaspettata presenza femminile. Con uno stile lucido e ricco di humor Léonie descrive le curiosità e le caratteristiche delle culture incontrate durante il suo straordinario viaggio. Nel suo sguardo sulle estreme regioni del Nord si alterna la civetteria della parigina e l’attenzione della cronista, il tutto spruzzato di una frizzante e penetrante ironia.
«Che follia! Tornerete imbruttita». Ma cosa può importare la bruttezza a una fresca fanciulla francese di diciannove anni, già maritata, il cui sogno è fare il giro del mondo? È il 1839: Léonie Thévenot d’Aunet, parigina, istruita in convento, che conosce la musica, l’arte, la letteratura e parla correntemente l’inglese, vive da un anno in Place Vendome 8, nell’atelier del pittore François-Auguste Biard, che ormai la presenta in pubblico come sua moglie.
Una follia per una donna di soli 19 anni decidere di intraprendere un viaggio di quasi un anno per arrivare oltre il Circolo Polare Artico. E’ il 1839 e Léonie Thévenot d’Aunet, parigina, istruita in convento, che conosce la musica, l’arte, la letteratura e parla correntemente l’inglese, si imbarca con il marito, il pittore François-Auguste Biard, quando era vietato per una donna salire su imbarcazioni di Stato. Nel salotto di casa incontra Paul Gaimard, botanico, scienziato, capo della Commissione Scientifica del Nord: sta organizzando una spedizione alle isole Svalbard, quasi al Polo Nord e cerca un pittore che documenti l’evento. Léonie è disposta a tutto per unirsi a quell’impresa e propone a Gaimard un elegante ricatto: convincerà il marito Biard ad esserne il pittore ufficiale se lei verrà accolta a bordo. Questo è uno dei segreti che svelerà il libro. La sua cultura, la sua intelligenza trasformano quel viaggio in un un grande affresco. Infatti l’avventura viene descritta in nove lunghissime lettere pubblicate per la prima volta in estratto nel numero di agosto del 1852 della Revue de Paris, che ospita tra gli altri testi di Gautier, Lamartine, Baudelaire, Balzac e George Sand. Le lettere, pretesto letterario indirizzato al fratello Léon de Boynest all’epoca dodicenne, vengono raccolte in volume nel 1854, volume riedito in Francia ben sette volte nei successivi trent’anni, e poi anche finalmente in Italia in una traduzione di Alessandra Grillo per Voland.
Descrizioni non prive di emozionanti sensazioni portano alla luce una scrittrice forse a lungo dimenticata. Conosciuta perché fu l’amante di Victor Hugo, diviene assidua frequentatrice di salotti aristocratici parigini. Le cronache l’hanno portata alla ribalta per l’arresto e per i mesi di forzato soggiorno trascorsi in convento. Ai primi di agosto del 1845, un commissario di polizia accompagnato da François Biard irrompe in una camera ammobiliata e sorprende una coppia in flagrante adulterio. Lei, Léonie, verrà arrestata, rinchiusa a Saint-Lazare, carcere destinato alle prostitute e alle donne di malaffare, subirà un processo per adulterio e perderà la tutela dei figli e ogni aiuto economico. Lui, il galante visconte Victor Hugo, benché sorpreso «in conversazione criminale con la moglie di un pittore» e benché colpevole quanto lei, in virtù dell’inviolabilità di cui gode per costituzione viene subito rilasciato, evita la fuga di notizie che avrebbe provocato anche la rottura con la sua amante ufficiale Juliette Drouet e rimane a Parigi in incognito, per proseguire indisturbato la sua scalata in corso al potere politico.Dopo averla cacciata dall’atelier nonostante sia appena nato il loro secondo figlio, Biard è riuscito ad evitare, con lo scandalo, di dover mantenere la giovane moglie. A favore di Léonie interverrà la duchessa d’Orléans, che sollecita Biard a chiedere per lei una riduzione della pena in cambio di cospicue commissioni. La fanciulla lascerà Saint-Lazare per entrare in convento, da dove a dicembre uscirà per rifugiarsi da una zia. E vendicarsi, inviando alla Drouet tutte le appassionanti lettere scambiate con Hugo. «Avevo trentanove anni quando vidi quella donna./ Dal suo sguardo pieno d’ombra usciva una fiamma,/ e l’amai»: così Hugo ricorderà Léonie, molti anni dopo averla amata, molti anni dopo averla conosciuta nei salotti parigini e averle dedicato una copia del Rhin, su cui scrisse «A madame Léonie: on voit en vous, pur rayon, la grace a la force unie…». Anni nei quali, intanto, era diventata giornalista e scrittrice: articoli di moda e costume per riviste letterarie, il resoconto del viaggio alle Svalbard e poi romanzi, racconti, drammi. Tutti lavori che si nutrono della sua storia personale e che narrano la sofferenza provata dalle donne private dei figli, tradite dai mariti, costrette a subire violenze. Donne alle quali, in fondo, le lapponi dell’estremo Nord, unite ai compagni nell’affrontare le asprezze dei ghiacci in un rapporto semplice ma cristallino quanto mai, assomigliano davvero poco.
La sua fama supera quelle notizie per farne meritevole studiosa e autrice. Le sue pagine sulla descrizione dei Lapponi e sull’esperienza tra ghiacci alle Spitzberg, trasformano i luoghi da lei visitati in mondi nuovi per tutti e ancora moderni. Spesso si avvale di un umorismo arguto per darci il quadro di avvenimenti quotidiani avversi e tragici, libera la sua fantasia nell’interpretare linguaggi e situazioni inspiegabili, accetta con disinvoltura l’incontro con cibi e cucina sconosciuti. La sua prosa diventa poesia dinnanzi a certe meraviglie della natutra, dotta nelle descrizioni etnografiche, saggia nel comportamento quotidiano da tenere in un viaggio di queste proporzioni, scientifica nella visita di miniere e luoghi inconsueti.

Nello zaino questa settimana assieme a

"Artico Nero" di Matteo Meschiari, Exòrma Edizioni
“Artico Nero” di Matteo Meschiari, Exòrma Edizioni

bisogna aggiungere:

"L'idea di Nord " di Peter Davidson, Donzelli editore.
“L’idea di Nord ” di Peter Davidson, Donzelli editore.
"In Vespa a Capo Nord" di Filippo Logli, Exòrma Edizioni.
“In Vespa a Capo Nord” di Filippo Logli, Exòrma Edizioni.
"Katherine" di Rupert Thomson, NN editore
“Katherine” di Rupert Thomson, NN editore
"La casa di Rosa" di Hubert Klimko-Dobrzaniecki, Keller. edizioni.
“La casa di Rosa” di Hubert Klimko-Dobrzaniecki, Keller.
edizioni.
"Anime Baltiche" di Jan Brokken, Iperborea edizioni.
“Anime Baltiche” di Jan Brokken, Iperborea edizioni.
"L'uomo che inventò il polo Nord" di Philipp Felsch, Nutrimenti.
“L’uomo che inventò il polo Nord” di Philipp Felsch, Nutrimenti.
"Oltre Capo Nord. Viaggio di una donna allo Spitzberg" di Léonie d'Aunet, Voland
“Oltre Capo Nord. Viaggio di una donna allo Spitzberg” di Léonie d’Aunet, Voland
Nello Zaino di Antonello: la parrucchiera va in Artico