Il posto migliore per fare la nostra chiacchierata, sarebbe stato di certo il Lago Trasimeno, che ha l’identico colore degli occhi del Ciclone. – così mi dice Romana Petri.

Con i libri speciali che diventano parte del proprio mondo, il rischio di “affiliazione” è altissimo, e mi viene spontaneo dopo aver letto “Le serenate del Ciclone” (Neri Pozza) sentire Romana Petri come una persona intima e cara, e dunque accettare il suo invito con quella partecipazione emotiva e sentimentale che si riversa a persone amate. E come non amare il Ciclone, dopo averlo vissuto e conosciuto attraverso gli occhi innamorati della figlia?

le_serenateIl titolo del romanzo “Le serenate del Ciclone” è perfetto, incantevole e attraente: dopo poche pagine mostra al lettore che il suo fascino è quello proprio delle cose semplici e naturali. Non poteva che intitolarsi così un libro in cui l’eroe (perché non parlerei semplicemente di protagonista per la figura che ritrai, ma su questo elemento avremo modo di tornare e di approfondire) è Mario Petri. Lascio però al lettore il piacere di scoprirne il perché e la spontaneità che lo caratterizza. Vorrei invece soffermarmi sull’immagine di copertina, che mi sembra racchiuda un dato narrativo profondo e sentimentale del libro. Il Ciclone intento a leggere, di profilo, distratto e noncurante del lettore, e la bimba che sorride spavalda e sicura, cercando un’intesa con il lettore, e stringendo forte la mano del padre.  Quella bambina sei tu, e il lettore scoprirà, nella seconda parte del romanzo, che coincide con l’io narrante, dando finalmente una voce a quell’empatia, a quella carica e partecipazione emotiva che aveva già avvertito nel narratore, apparentemente in terza persona, della prima parte, occupata dalla giovinezza del Ciclone. Uno degli aspetti senza dubbio più fascinosi della struttura narrativa di “Le serenate del Ciclone” è l’uso della voce narrante, con il coup de théâtre tra la prima e la seconda parte.

C’è una foto che ci ritrae insieme. Lui indossa un corpetto di pelle con le squame, stretto in vita da una cinta, ha una calzamaglia e calza degli stivali che gli arrivano a metà coscia. Sta con il copione nella mano sinistra, gli occhi fissi sulle pagine a ripassare forse un dialogo. con la mano destra tiene la mia in una stretta così protettiva che per me è di ferro. Io indosso un pullover fatto a mano dalla mamma, una gonnella scozzese, una calzamaglia di filanca e degli scarponcini che sono molto impolverati. Al fotografo di scena che ci ritrae sorrido felice, sul mio volto è stampato l’orgoglio di avere per babbo quel gigantesco supereoe. Il braccio destro del mio babbo è rilassato, in fondo tiene solo per mano sua figlia. eppure, anche così, è un gran bel braccio pieno di muscoli. E che io sono soddisfatta, si vede da lontano. Se il mio sorriso non ce la fa a trasformarsi in una risata vera, è perchè sono troppo piena di me. Sto provocando, è evidente, guardo l’obiettivo con l’aria di chi pensa: Chi mi tocca muore. 

Non poteva che essere quella bambina l’io narrante dell’epopea del Ciclone, vero?

 

Non poteva che essere quella copertina. Eravamo noi, il “puro” noi di quegli anni. Lui sembra stia leggendo o ripassando un copione, in realtà, in un momento di pausa, deve aver notato il fotografo che si è avvicinato e si è subito messo in posa. Mio padre era un uomo di teatro, di cinema, lui era sempre in posa, anche quando beveva un caffè o un bicchiere d’acqua. Era più forte di lui, era sempre un personaggio di scena. Sono io che, in quella foto, mostro tutta la mia verità di bambina, tutta la spontaneità dell’età. Sono orgogliosa di quel gigante, in parte sembra proprio che io dica: Attenti a voi! Ma poi, a guardare la stretta delle nostre mani (e io benché piccola avevo già mani grandi), si capisce che chi sta stringendo più forte sono io. Perché anche io, a mio modo (onestamente non saprei nemmeno dire quale in quegli anni) lo proteggevo. E molto. Ho sempre avuto un atteggiamento protettivo con tutti. Scherzando, in famiglia, dico sempre che sono l’unico vero uomo che ho conosciuto in vita mia. In parte è anche vero. Non mi sono mai appoggiata a nessuno, ho sempre fatto tutto da me. Mio padre era una roccia d’uomo, sapevo che alla bisogna mi avrebbe difesa fino alla morte (non ho mai pensato che qualcun altro lo avrebbe fatto, morto lui, come ho detto nel libro, ho capito che mai più nessuno mi avrebbe protetta), ma sapevo che l’animo glielo dovevo difendere io. E l’ho sempre fatto. Nella vita, ho continuato ad essere sempre così. Spesso sento che mi piacerebbe potermi affidare a qualcuno, riposare un po’, prendermi una vacanza, ma tanto so che non sarei capace di farlo. Non sono una crocerossina, non ho mai pensato di salvare nessuno, è che faccio miei i pensieri pesanti degli altri. Forse avrei dovuto farlo di mestiere.

 

“Le serenate del Ciclone” hanno il ritmo e il tono dell’epopea. Mi è sembrato che oltre a una felice intuizione narrativa e letteraria, il ricorso al mito sia anche un modo di colorare in maniera originale il dettato biografico e autobiografico, e funzionare come chiave di riconoscimento e di immedesimazione per il lettore e per i personaggi stessi.

Il mito segue due strade complementari nel romanzo: quello classico e fondativo, dall’Iliade all’Odissea con accenni all’Eneide, e quello cinematografico, con il western, che più di ogni altro ha creato una mitologia contemporanea. 

Pagine bellissime, ricche di sentimento sono quelle che dedichi alla “riscrittura” dei poemi greci, e che servono come tessitura letteraria per ordine la trama della relazione tra un padre e una figlia, e dare al loro sentimento una dimensione universale ed epica. 

Ma anche per il western ci sono delle pagine indimenticabili: tanto sul versante più propriamente biografico con il cameo di Sergio Leone che sta per battezzare il western all’italiana con quello che al momento è un perfetto sconosciuto, Clint Eastwood; tanto sul versante più propriamente mitopoietico che è l’identificazione nell’immaginario di Romana di Kid, uno dei migliori amici del Ciclone insieme ad Orlando, con Charles Bronson, mito vero e proprio per la fanciulla. 

Che cosa rappresenta il mito nelle sue varie sfaccettature nella scrittura e nella vita di Romana Petri?

Non so per quale ragione, ma le parole mito e stile le ho sempre messe insieme. Non c’è un vero legame tra di loro, forse sarà perché entrambe determinano anche un atteggiamento verso la vita. Quando si parla di stile (per uno scrittore) non credo ci si possa fermare al modo in cui scrive, perché quel dato scrittore scrive in quel dato modo perché in quel dato modo vive. Dunque, stile artistico e vita li ho sempre visti come una cosa sola. Il mito ha fatto parte della mia vita fin dall’infanzia, di mito mi sono nutrita e dunque, con l’andare del tempo, questa grande affezione, qualcosa del mio stile di vita deve certamente averla marcata. Per certi versi, amare il mito condiziona molto, perché nella vita reale il mito, giustamente, non esiste, e per viverlo bisogna inventarselo, viverlo parallelamente alla propria vita, crearlo fantasticamente. Si finisce sempre col creare delle situazioni mentali dove il mito circola indisturbato, come fosse la cosa più naturale del mondo. Ma un mito non lo è, turba sempre, esalta, sconvolge. Niente di più facile che desiderare di somigliarli un po’. La loro invincibilità, per esempio, come diceva Canetti (uno degli scrittori novecenteschi che ho amato di più) viene anche dal fatto che più “si vince” e più ci si sente invincibili, e più ci si sente tali, più si avranno occasioni di vittoria. Il mito è colui che arriva dal nulla e che rimette in ordine ciò che trova mal messo, è sempre e comunque eroico in ogni suo gesto, che sia Beowulf o Batman. Il fatto che fin dalle origini della narrazione ci sia sempre stato bisogno di un mito (oggi la letteratura l’ha un po’ abbandonato, ma se l’è tenuto saldamente il cinema), significa che la realtà così com’è, sebbene sempre fonte di moltissima ispirazione, per questo stato esaltato del vivere è comunque povera. La creazione del mito la arricchisce. Mio padre, al mito ci somigliava un po’ più del comune. Ne aveva il fisico, lo sguardo dardeggiante, il coraggio, quella completezza del destino che è solo di chi non accetta i compromessi. Però, sia ben inteso, i superpoteri non li aveva, ma li aveva ai miei occhi di bambina. Scrivendo “Il Ciclone”, ho sempre voluto vederlo e descriverlo con gli occhi di allora. Sapevo che quella era un po’ l’unica vera, tangibile e verosimile, occasione per rimettere in circolo il mito in questa letteratura che ormai lo ha decisamente fatto fuori. Ecco, anche  immaginare di essere, per necessario e urgente sfogo, un mito, è un po’ uno strano ma veemente stile di vita.

 

Rimanendo nello stile, ma declinandolo in maniera più formale: la lingua.

La lingua di “Le serenate del Ciclone” è orchestrata secondo un uso sapiente delle variazioni, in cui il dialetto riveste un posto d’onore. Al dialetto sono affidati i dialoghi familiari, quelli delle radici di Mario, che non si perdono mai, anche quando sembrano subire delle fratture, come il lungo allontanamento dalla madre Terzilia e dal fratello Paolo o l’assenza prolungata nei confronti di Kid. Quasi che tu volessi sottolineare con la lingua che alcuni legami, nell’intimo, non si recidono mai. Non è semplice dialetto quello che usi, è più ancora una posizione e articolazione delle parole in senso musicale, armonioso, sonoro, che possano riprodurre l’uso parlato di una lingua che si fa sentimento, di appartenenza di relazione di intimità.

Nell’uso di una lingua di straordinaria ricchezza di suoni, perché il dialetto è solo uno, forse il più importante, dei tanti (come l’americano del soldato pestato dal Ciclone, per fare un esempio) si nasconde un omaggio alla voce del Ciclone, alla sua passione per la musica, alla capacità di far vibrare i suoni, oppure è un elemento che aderisce all’arte di raccontare di Romana Petri?

Direi senz’altro una Romana nata nella musica. Sentire mio padre che studiava accompagnato da una pianista, o semplicemente “accennare” come si dice in gergo, per ripassare un determinato passaggio. Ma anche sentirlo parlare in casa, perché i cantanti lirici hanno una voce “Impostata”, sempre profondamente musicale.  Quando scrivo, ho l’abitudine di approvare o bocciare una frase a seconda della sua musicalità. Se “canta” rimane, altrimenti bisogna trovare il modo di farla “suonare”, a volte basta davvero poco, magari posporre due parole, aggiungere un “proprio”, un “nemmeno”, un “che”, insomma, una parola qualsiasi che crei il consuonare con tutto il resto. Uso molto le assonanze, che in questo senso aiutano. Per quanto riguarda il Ciclone, l’uso del dialetto era indispensabile. Non potevo far parlare il Damino, l’Olimpia, l’Attilio, la Terzilia e molti altri in un italiano corretto. Il romanzo comincia nei primi anni 20 e nella campagna umbra. Ci tenevo a dare il giusto suono. Allora, dopo aver molto riflettuto, ho deciso che forse il dialetto vero e proprio poteva essere difficoltoso alla lettura, non così, invece, ricreare il suono del perugino (in Umbria i dialetti cambiano moltissimo da città a città). E allora ho dovuto creare una scrittura che lo riproducesse. Questo è stato l’ultimo lavoro che ho fatto a libro finito: uniformare tutti quei dialoghi nella lingua appropriata. Se tornassi indietro non lo farei come ultimo lavoro, mi è sembrato quasi di diventare matta, c’era sempre un “di” che sfuggiva al posto di un “de”.

 

downloadParliamo di Romana, coprotagonista di “Le serenate del Ciclone”. Il gigante e la bambina, per continuare a parlare in termini musicali. Il libro è sapientemente ed elegantemente diviso in due parti: con il passaggio da quella che appare come una terza persona alla prima, a segnare i due tempi. Da quel momento tu e il Ciclone camminate affiancati in un personale, contraddittorio, complesso rapporto, fatto di sintonie profonde e profondi contrasti.
È stato difficile tracciare il personaggio di Romana, in modo che potesse stare sulla scena insieme al Ciclone? Perché quello che mi ha incantato del romanzo è che il Ciclone, da grande uomo di spettacolo, pur essendo una presenza eccessiva e titanica, non ruba la scena a Romana che ha spazi e luoghi in cui il confronto con il padre leggendario, ora dolce e pieno di sentimento, ora conflittuale e bellico, si pone sullo stesso piano. Se Mario Petri rimane il protagonista di “Le serenate del Ciclone”, non è di certo un protagonista assoluto, non domina la scena ma la caratterizza.
Era un effetto narrativo voluto, oppure è frutto semplicemente della realtà biografica del romanzo?
Romana Petri voleva che Romana si imponesse sulla scena accanto al Ciclone, o invece se l’è ritrovata inconsapevolmente sotto la luce della ribalta?

Onestamente ho continuato a sentirmi solo la voce narrante di questo romanzo. Per tutto il tempo della scrittura è andata così. La scelta del narratore in terza persona nella prima parte e dell’io autentico nella seconda, è stata una scelta chiara fin dal principio. Volevo che le due parti fossero profondamente diverse. La prima dedicata al Mito che sta sulla scena contornato da altri personaggi a loro volta leggendari, come il Damino e ancora di più il Kid, ma anche la Libellula. Nella seconda volevo che la voce fosse quella di chi ha vissuto, conosciuto da vicino un padre che prima di essere tale è stato un’altra cosa (come per tutti i genitori). Scrivevo e mi sentivo una specie di testimone che raccontava la sua storia, e che cercava di farlo senza sconti, anche se sempre con la grande mancanza e  il senso vuoto, che una presenza simile avevano lasciato. È un po’ un libro sull’incolmabilità, poco in sintonia con i tempi che viviamo che vorrebbero un’intercapedine sempre più ingombrante tra i vivi e i morti. Mi sono accorta di essere stata una coprotagonista solo alla prima rilettura del libro. In fondo, però, è stato un po’ così nella nostra vita, abbiamo vissuto molto all’unisono nel bene e nel male. Il punto di riferimento, per me, era sempre lui. E alla fine, intendo nella vita, mi sono accorta che in un certo senso anche io lo ero stata per lui. Mi sono sempre sentita (felicemente) all’ombra del padre, forse perché figlia e non figlio. A un certo punto ci siamo stati alla pari. Lui era il padre che avrei scelto, ed io la figlia che voleva. Una cosa di una bellezza struggente. Gli devo molto, moltissimo. Credo che senza il Ciclone non avrei mai cominciato a scrivere, perché lui era un grande ispiratore in tutti i sensi. Non si vive in casa con un individuo simile, così straordinario e difettato insieme, senza esserne artisticamente travolti. Mio fratello, per esempio, è diventato un pittore, e nei suoi quadri la presenza di mio padre è costante. Non di lui in modo evidente, ma della “scenità”, se mi si passa l’invenzione del termine. Perché i quadri di mio fratello David sono profondamente teatrali. Al dunque, ho preso parte a questa storia facendo anche di me un personaggio. Come in ogni romanzo, non ogni cosa che ho scritto è vera, ma, paradossalmente, ora che tutto è nero su bianco, la storia che considero vera non è più quella che ho vissuto, ma quella che ho scritto.

 

 

Un libro sull’incolmabilità, mi sembra una definizione perfetta. Motivo pieno di fascino: un romanzo traboccante di vita che non sarebbe immaginabile senza la morte. 

Accenni a tuo fratello David, e “Le serenate del Ciclone” sono anche un bellissimo, straziante, romanzo sui rapporti tra maschi: tra padre e figlio, nella doppia dimensione del Ciclone figlio di un padre violento e padre a sua volta anche di un figlio maschio; tra amici, indimenticabili le relazioni così diverse del Ciclone con Oreste e il Kid, che ben mettono in luce la complessità del suo carattere e del suo essere; tra fratelli, nel rapporto, controverso e mutevole, tra il Ciclone e il fratello minore Paolo; e infine il più dolce e assoluto, il legame stretto tra il Ciclone e il Damino, il nonno materno, che sempre sa leggere nell’animo del nipote.

Ma nel romanzo ci sono anche le madri: Terzilia e Lena, tua madre, travolta dall’esuberanza del Ciclone, silenziosamente presente in ogni momento della sua vita, capace di gestire i suoi repentini quanto bruschi cambi di umore, le sue effervescente, le sue idee folli. 

E infine ci sono “i famosi” che hanno incrociato la loro vita con quella del Ciclone, e alcuni di loro fortemente condizionato la sua esistenza. Buoni e cattivi. 

Soprattutto per questi ultimi, c’è qualcuno di cui ti sei dimenticata? o qualche relazione che hai dovuto sacrificare per esigenze narrative? Chi tra loro non avresti mai potuto omettere dal racconto del Ciclone, ovviamente nei personaggi secondari come la Callas, Karajan, Leone, solo per citare quelli che sono rimasti più impressi a me.

Mi permetterò solo un’ultima piccola domanda conclusiva, Romana, per chiudere, e poi la chiacchierata è terminata con la mia più viva gratitudine.

Un libro che ho amato appassionatamente e del quale tu mi hai fatto ancor più appassionare.

 

Questo è decisamente un romanzo al maschile, ho creduto quasi di cambiare sesso io stessa mentre lo scrivevo. Il mondo degli uomini mi ha sempre affascinata molto. Del resto, ho avuto un padre che non me li ha fatti mai odiare (giusto qualche volta, ma poche). Mentre lo scrivevo, pensavo ai momenti in cui avevo visto mio padre commuoversi. Erano sempre scene di film in cui l’amicizia struggeva fin nelle “midulla”. Oppure erano animali, storie di grande amore tra esseri umani e animali. Aveva un senso della lealtà incredibile. Non saprei nemmeno dire il numero di volte che ha pronunciato questa bellissima parola. Sono convita sia l’elemento fondamentale della vita. Una persona sleale vale poco, un po’ come chi manca di coraggio, un coraggio fatto anche di umana paura, ma capace di superarla. Abbiamo visto tanti film sul tema insieme. E non commentavamo mai, solo ci guardavamo. La sua eccellenza di padre sta principalmente nel fatto che non ha seguito le regole: avere un padre cattivo (usiamola questa parola che non vuole pronunciare più nessuno!) e non esserlo a sua volta. Odiava le ingiustizie, i soprusi dei  più forti sui deboli. Ne aveva patiti tanti  nell’infanzia che di fronte a cose simili era come un pugile suonato quando sente un suono simile al gong: partiva! 

Il libro era molto più lungo di quello che poi è stato pubblicato. I tagli li ho fatti io stessa. Ho eliminato quel che secondo me non era essenziale. Quindi, direi che non ci sono persone o situazioni che non ho nominato. Di sicuro, l’incontro più importante della sua vita è stato quello con Karajan. Io, invece, ho trasmesso maggior emozione per il mio incontro con Sergio Leone e Maria Callas. Sebbene per ragioni diverse, li ho trovati sublimi. Leone mi ha totalmente leonizzata, quei film sono incistati nella mia mente. Ancora oggi, specialmente quando sono triste, al momento di andare a letto mi capita di spegnere la luce e di rivedere proiettate, nel buio della mia stanza, certe indimenticabili scene che conosco alla perfezione, rispettandone addirittura la durata. Sono momenti di grande sollievo, perché quei film erano davvero un inno esasperato al senso di giustizia. Esasperatissimo. Per questa ragione sono indimenticabili e di grande formazione. Ultimamente, la letteratura ha abbandonato la vendetta. Eppure è da quel sentimento che è nata. L’Iliade, L’Odissea, Il Cid Campeador, La Chanson de Roland, si potrebbe andare avanti all’infinito. Il cinema, invece, non l’ha mai trascurata, così come l’idea del super eroe, anche questa totalmente letteraria e oggi, purtroppo in disuso. Dove c’è il mito, a parer mio, si continua sempre a fremere…

Per concludere:
Riesci a immaginare il commento del Ciclone al tuo romanzo? Quale sarebbe stata la sua reazione?

Credo che avrebbe detto uno dei suoi: Me pijasse ‘n colpo. Anzi, credo che ne avrebbe detti parecchi, uno dopo l’altro, durante la lettura. 

Chiacchierando con… Romana Petri
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