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Tra i giochi del conscio e dell’inconscio, del detto e del sentito, non so più rendermi conto se ciò che accade, accade perché io lo vedo accadere, o se invece avviene nella realtà, fingo di dormire e non intervengo in alcun modo.

Questa è la sensazione del lettore, che perdura a lettura ultimata, e che rappresenta il vero fascino della narrazione: il ritmo onirico, in cui la realtà si rarefà, i contorni tra la veglia e il sonno si assottigliano, e la scrittura non vuole rivelare verità, ma dare corpo a uno stato d’animo di incertezza e indeterminazione, come se fosse l’unica arma per sopravvivere a un grande dolore e affrontare le conseguenze tragiche che ne derivano.

Con una scrittura cristallina, chiara e pulita Anna Giurickovic Dato con “La figlia femmina” (Fazi) esordisce nel romanzo dopo essersi segnalata con il primo posto  al concorso Io, Massenzio in seno al Festival Internazionale delle Letterature di Roma e al Premio Chiara Giovani come finalista.

Maria, bambina di cinque anni e poi adolescente di tredici in pieno rigoglio, è “La figlia femmina” di Giorgio e Silvia:

Maria è assorta in un pensiero. È l’unica figlia di suo padre. Se un giorno lui la legasse e la stendesse su un altare accanto a legna da ardere, lei non si stupirebbe. Pensa che lui lo farebbe fissandola con gli occhi neri e severi, attraverso le ciglia ramate. Lei gli accarezzerebbe un riccio della criniera arancione che ha sempre voglia e timore di toccare. Penserebbe che se lo fa papà è giusto. Le piace ascoltare la sua voce mentre tiene la mano alla mamma, e si sente protetta. Ha una voce profonda, senza mai un’esitazione.

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Giorgio è un uomo a suo modo carismatico, soprattutto all’interno della famiglia: la moglie molto più giovane di lui, sposata non appena aveva compiuto diciotto anni, mentre lui a ventisette già ha un lavoro di prestigio. Si trasferiscono in Marocco, ed è lì che Maria trascorre quella che in apparenza è un’infanzia felice e privilegiata, con due genitori che la amano, il benessere economico a rendere piacevole lo scorrere del tempo e le occasioni di svago; la nonna paterna, Adele, che con le sue visite in Marocco rende la casa tutta una festa. Eppure qualcosa turba e sconvolge la bambina, tanto da allertare le maestre e la psicologa della scuola. Ma la madre non vuole sentire ragioni, non vuole vedere, e preferisce fingere di non sapere. Solo a posteriori, quando la tragedia si è ormai consumata, e Silvia e Maria si sono trasferite in Italia con la speranza di rifarsi una vita e di chiudere il passato in un vecchio baule dimenticato, la madre riflette su tante piccole grandi verità su cui avrebbe dovuto tenere gli occhi aperti.

co-sleeping“La figlia femmina” non vuole essere una caccia a streghe e stregoni. Una requisitoria su colpevoli e carnefici. Lo svelamento del mostro e dei suoi complici. Vuole, al contrario, posare uno sguardo affilato di dolcezza, che spesso indulge al perturbante e all’ossessivo, per svelare l’interiorità dei personaggi, i loro limiti e la mancanza di coraggio, le paure e le provocazioni. Ci riesce sia attraverso una scrittura che è sempre lieve e onirica, che ammanta i momenti più duri con il velo del sogno, del dormiveglia, dell’ubriachezza, sia attraverso l’alternarsi del racconto in terza e in prima persona. A un narratore esterno, onnisciente ma non implacabile, si avvicenda la narrazione in prima persona di Silvia, che guarda alla “figlia femmina” Maria con molteplici sentimenti, spesso contrastanti. Quella di Silvia è una voce a posteriori, di chi è stata travolta dalle vicende, e per non rischiare di perdersi ha preferito non chiudere gli occhi, ma socchiuderli, abbassare le luci, creare penombra, relegarsi in un angolo e non intervenire. Anche quando la storia sembra ripetersi, quando il suo sentirsi amata da un uomo tenero e serio come Antonio, si scontra con la precocità di Maria, la sua carica sensuale, a cui Antonio in un primo tempo resiste con distacco, per poi essere sempre più coinvolto e partecipe, la reazione di Silvia assomiglia al torpore e a una interdetta, stanca incredulità.

download (1) Anna Giurickovic Dato lascia che il trio, così carico di contrapposti sentimenti, in cui i ruoli tra cacciatore e preda si sono talmente aggrovigliati da essere indistricabili, si sfaldi nella banalità quotidiana dei gesti: un invito al cinema, una porta che si chiude, un nome pronunciato a fior di labbra.

Un esordio pieno di speranze quello di Anna Giurickovic Dato, non senza qualche cedimento narrativo, soprattutto nella seconda parte ambientata a Roma, in cui i sentimenti e le reazioni dei personaggi sfiorano la stereotipia e la leziosità, al contrario della prima parte in Marocco che è perfettamente riuscita sia nel rendere la suggestione esotica dei luoghi, sia nel ritrarre gli stati d’animo e le contraddizioni dei personaggi e delle situazioni.  E se a tratti prevale un sentore di acerbo, che a mio avviso dovrebbe essere proprio di ogni esordio autentico, la scrittrice dimostra di padroneggiare con fascinosa coerenza una materia che lei stessa vuole labile e rarefatta, in cui lo sguardo è volto all’introspezione e alla psicologia dei personaggi, con l’intento, riuscito, di porre il lettore dentro le vicende, intimamente partecipe dei turbamenti che si agitano nei cuori, e non come semplice, esterno spettatore. Compito arduo, perché da sempre è più semplice ergersi a giudici, che non vestire panni, scomodi e disagevoli, fino a diventare disapprovabili e disdicevoli. La catarsi aristotelica passava per una immedesimazione simile, ma Anna Giurickovic Dato complica il suo compito, rimpicciolendo i personaggi, togliendo loro tutta l’aura mitica ed eroica, e facendoli simili al lettore.

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