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L’illustrazione in copertina di Manuele Fior rende straordinariamente il senso di desolazione e accecante luminosità che permea “Cleopatra  va in prigione” di Claudia Durastanti (minimum fax).

eef69f4f273216bc3fef3dbd82c0c8c0Cleopatra è Caterina, che voleva fare la ballerina e si ritrova spogliarellista, che ogni giovedì va a trovare Aurelio, il suo ragazzo finito in prigione, non si comprende bene neanche il perché. Come Cesare dai senatori, così Aurelio è stato tradito dal socio, Mario, forse il vero responsabile delle azioni criminose che sono state imputate al locale che gestivano insieme e dove, insieme a Caterina si esibivano altre ragazze. Caterina come Cleopatra vive con facilità l’amore, trascinata da un fortissimo bisogno di accudimento, ma come Cleopatra forse è destinata a un destino di solitudini interiori e forse come l’eroina adombrata dal titolo a una morte giovane, preconizzata da un’aspirante maga in una delle prime uscite con Aurelio.

Caterina geme piano per non farlo svegliare e accende lo schermo al plasma sistemato di fronte al letto; la voce del conduttore di un programma scientifico è un’interferenza a malapena percepibile che descrive piante dei deserti capaci di sopravvivere nel più ostile degli ambienti, arbusti che appena arriva una goccia d’acqua esplodono, oppure si rinsecchiscono in assenza della pioggia e recidono le proprie radici in attesa del primo vento generoso della stagione.

Ecco, Caterina è come una pianta del deserto, alla ricerca di un vento generoso che possa portarla lontana, ma nell’attesa fortemente intenzionata a sopravvivere nell’ostilità delle situazioni che la circondano, pronta a trovare una goccia d’acqua e di refrigerio esistenziale nella diversa umanità che la circonda, che sia il poliziotto che ha arrestato Aurelio, o gli sparuti clienti dell’hotel in cui lavora, o anche le ragazze del night.

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Il romanzo è ambientato nella periferia romana, sulla quale troneggia il carcere di Rebibbia, per il quale il pensiero corre immediato al film  “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani, con il quale Claudia Durastanti si trova a condividere la stessa ossimorica e tragica visione di claustrofobia e di anelito alla libertà, che è una condizione ontologica dei giovani contemporanei, più che immanente dei carcerati.

nuove-periferie-romane-speculazione-palazzinari-102-body-image-1442578777-size_1000La sterminata, desertica periferia descritta da Claudia Durastanti abbaglia e acceca, negando la vista di qualsiasi traiettoria e direzione con l’intensità della luce. Una periferia che non ha confini, appare illimitata e si perde nell’orizzonte del mare, quanto più è geograficamente e toponomasticamente definita.

Una periferia metropolitana in cui perdersi e stentare a riconoscersi, in cui scegliere il vestito da sposa come sguardo al futuro e gesto tradizionale diviene un malinconico, nostalgico, sarcastico gioco con il destino, e con la madre, anaffettiva e infantile, qual è quella di Caterina.

Dentro e fuori, introspezione e descrizione, prima e terza persona che si intrecciano e incrociano, senza mai cambiare la focalizzazione che rimane radicata, limitata, approfondita in Caterina, in quel suo incedere sbilenco ed elegante, che è anche la cifra della scrittura di Durastanti e che attraversa quel pezzo di Roma trasformato in un luogo dell’anima, che nessuno potrà lasciare mai.

Cleopatra va in prigione