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Ci sono degli inviti pieni di grazia, come quello che mi avrebbe rivolto Viola Ardone, alla proposta di un incontro per chiacchierare del nuovo libro, “Una rivoluzione sentimentale” (Salani).

Sicuramente spulciando tra le bancarelle dei libri usati, in cerca di tesori nascosti! Ma, poiché sono innamorata di Parigi, ci saremmo incontrate ai bouquinistes del lungo Senna, all’ora del tramonto, giusto in tempo per andare a berci un bicchiere di bianco a un tavolino del cafè de Flore…

Disegnateci, così, nella vostra mente: i barbagli di un bicchiere al tramonto, le teste vicine, il lungo Senna alle spalle.

9788869183102_una_rivoluzione_sentimentale“Il personale è politico” è uno degli slogan fondamentali del femminismo degli anni Settanta, il tempo delle nostre mamme in cui rifletterci e scontrarci come donne degli anni Duemila. L’ho visto adombrato fin dal bellissimo titolo del tuo romanzo: Una (straordinario l’uso dell’indeterminato, che indica una strada tra le tante possibili da percorrere e che si pone in dialettica con il lettore) rivoluzione sentimentale. E specificato nel sottotitolo: Un romanzo d’amore e di rivolta con tre quarti di fantasia e uno di realtà.

L’impressione a romanzo terminato è che tu abbia voluto giocare con la fantasia, spingendo a tratti sul grottesco e caricaturale, per mostrare con maggiore evidenza quella percentuale minore di realtà, in cui risiede l’invito vero a “sporcarsi le mani” e sentire la necessità di una rivoluzione.

Ci può essere una rivoluzione politica (intendendo con l’aggettivo la versione più pura di politica, quella che riguarda la nostra essenza di cittadini e dunque di uomini e donne) senza che essa passi attraverso il sentimento? Da quale esigenza, comunicativa o narrativa, nasce la presenza dell’aggettivo “sentimentale” accostato quasi in contrapposizione al termine “rivoluzione” in una posizione privilegiata com’è il titolo del romanzo?

 

9788867155088_la_ricetta_del_cuore_in_subbuglioDopo il mio primo romanzo, “La ricetta del cuore in subbuglio”, che era una storia familiare molto intima e delicata, volevo scrivere una storia politica. Un po’ per smarcarmi dall’etichetta di “scrittrice di storie femminili” e un po’ per il senso di colpa che mi prende ogni volta che mi dedico troppo a me, alle mie riflessioni, ai miei tic intellettuali e troppo poco al concreto, al reale. 

Quindi mi sono inventata il paesino di Scogliano e la sua discarica abusiva. E, al centro, Zelda, una donna bella, intelligente, ma un po’ freddina, rigida. Man mano che la storia procedeva, però, altre voci, altri personaggi si sono intrufolati, fino a prendere talvolta il sopravvento. Prima di tutto, Donnie Tammaro, l’amico immaginario di uno degli alunni di Zelda, che diventa il simbolo della “Rivoluzione dei cassonetti”, e poi Nadia, l’amica del cuore, Giacomo, l’uomo che fa tornare Zelda ad amare. E mi sono detta: ci risiamo, di nuovo l’amore, di nuovo la fantasia che si mescola alla realtà. 

Che fare? I sentimenti uscivano dalla porta e rientravano dalla finestra!

Mi sono presa una pausa e, come spesso faccio in questi casi, mi sono rifugiata nella mia biblioteca. Mi sono dedicata, chiaramente (perché sono un po’ secchiona), a saggi e trattati sulle rivoluzioni. E mi sono segnata delle frasi sul mio taccuino degli appunti:

“Ogni rivoluzione è fatta per tre quarti di fantasia e per uno di realtà”: l’aveva detto Bakunin rivoluzionario e padre dell’anarchismo russo… Evidentemente quello della fantasia era solo un mio scrupolo!

“Bisogna essere duri senza perdere la tenerezza”: questa è facile, è di Che Guevara… E se poteva essere tenero lui, figuriamoci la mia Zelda…

“Consiglierei una rivoluzione sentimentale. Di tutte le rivoluzioni o riforme, plebee o aristocratiche, proletarie o borghesi, culturali o morali, nessuna è mai stata progettata come sentimentale”, parola di Luigi Pintor, fondatore del “Manifesto”… Quindi, i sentimenti e la Rivoluzione non sono nemici, anzi!

Confortata dalle mie letture ho proseguito nella mia storia, mischiando rivoluzione e sentimento, realtà e fantasia, senza mai perdere la tenerezza… e ho trovato anche un titolo, anzi “il” titolo, l’unico possibile, per la mia storia.

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Sì, l’unico titolo possibile, hai ragione, ma soprattutto pieno di implicazioni che sviluppi nel romanzo con poliedricità e ricerca della polifonia.

Un altro tema fondamentale è la scuola, che attinge alla tua sfera personale. Anche qui mi sembra che l’obiettivo sia stato quello di mescolare realtà e fantasia. Tanto nel rendere Zelda una docente, con tutte le sue stravaganze e lo sguardo obliquo e decentrato con cui vive le aule e gli alunni, sia nella Preside e nei colleghi, in cui convergono gli aspetti caricaturali, sia nelle vicende e negli alunni in cui la realtà, l’attualità, la finzione e il romanzesco si mescolano così che l’incredulità e l’indignazione, il sorriso e il riso, la lacrima e il dolore si registrano nella stessa pagina, nello stesso giro di frase, nella medesima reazione del personaggio.

Quale elemento più fantasioso della scuola di Scogliano o dell’insegnamento di Zelda piacerebbe attuare nella propria scuola a Viola Ardone? Quali sono invece le caratteristiche della scuola “vera” che la scrittrice non ha potuto trascurare nello scrivere dell’esperienza di una giovane insegnante alle prime armi, o cosa hai prestato della tua esperienza a Zelda? E infine la scuola è luogo privilegiato di ogni possibile rivoluzione sentimentale, o invece semplicemente un’ambientazione possibile?

 

img_8582-3-768x1024Stamattina, proprio nel momento in cui ti scrivo, vengo a sapere che il liceo in cui insegno è occupato, proprio come nel mio romanzo. L’occupazione delle scuole nel mese di novembre è ormai quasi entrata a pieno titolo nel calendario scolastico, pausa attesa dagli alunni e (mal) tollerata da insegnanti e dirigenti, tra il ponte dei morti e quello dell’Immacolata.

Nel mio romanzo gli studenti decidono di occupare la loro scuola perché il vento della rivoluzione inizia a soffiare nelle loro coscienze. Vogliono ribellarsi contro la discarica abusiva che infesta il paese, ma nessuno li prende sul serio, nemmeno Zelda, la loro professoressa, troppo impegnata a preparare le sue lezioni cattedratiche e a sbrogliare i nodi della sua vita personale. Eppure loro la Rivoluzione la fanno lo stesso. 

Quello che distingue gli adolescenti tratteggiati nel mio libro e quelli delle “occupazioni novembrine” è probabilmente la mancanza di fantasia, di rischio, di spericolatezza che caratterizza gli alunni della scuola “vera”. Per immaginare una scuola diversa, un mondo diverso, un finale diverso della storia che ci hanno raccontato sempre uguale, c’è bisogno di fantasia. Ed è questo che la scuola dovrebbe fare. Educazione all’immaginazione: questa è la materia di studio che istituirei nelle scuole di ogni ordine e grado, a partire dalla primaria. Quella frase dei bambini che preparano il campo di gioco con le parole “facciamo che…”, quella frase, poi, col passare degli anni non viene più pronunciata. Si perde. L’ultima moda della didattica ‘a la page’ è assegnare agli alunni un “compito di realtà”. La trovo una aberrazione! Assegniamo invece compiti di fantasia, di utopia, di immaginazione selvaggia e di sentimenti. Perché poi con la realtà avranno tempo e modo di fare i conti. E infine (a mo’ di slogan): solo una robusta educazione sentimentale permetterà ai ragazzi di intervenire, poi, sulla realtà che li circonda.

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Un altro elemento “rivoluzionario” del romanzo è l’assenza e la carenza di adulti, a partire dai genitori. Forse solo Giacomo potrebbe aspirare a tale definizione, ma in parte è lui stesso ancora all’interno di un percorso di crescita, non professionale, ma certamente sentimentale.

Gli adulti hanno deposto le armi? Non hanno più nulla da insegnare ai ragazzi? Anzi sembra quasi che tra i migliori insegnanti tu voglia additare quelli come Nadia che sono rimasti giovani, dentro e anche fuori, perché quel colore dei capelli che altro è se non un segno della propria appartenenza al mondo giovanile?

Sembra però che gli adulti non abbiamo abdicato al loro ruolo di guida, ma piuttosto si siano ritirati, come in seguito a una disfatta. Questo mi sembra il tratto più pessimistico del romanzo. Una generazione, quella dei genitori di Zelda e Nadia, ormai scomparsa, e una generazione, quella dei nostri coetanei, che non sa porsi come valida alternativa, lasciando quella di Zelda e Nadia scoperta e fragile, alla ricerca di risposte dai nostri silenzi.

C’è del pessimismo in “Una rivoluzione sentimentale”? oppure i rivoluzionari devono essere sempre ottimisti?

 

hidetomo-kimura-art-aquarium-milano-103-12Il mondo dei ragazzi e quello degli adulti sono come due acquari separati, che non comunicano. Gli adulti sono troppo occupati a capire se sono ancora giovani o se ormai per loro è tempo di dichiararsi “cresciuti” e di desiderare, a loro volta, di diventare genitori, realmente o anche solo metaforicamente. 

Di fronte a questo interrogativo tutti scappano: Marcello, Giacomo, Zelda… Solo Nadia risponde di sì. Ma il suo desiderio di maternità è un desiderio monco, perché prescinde dalla presenza di un uomo. Vuole diventare madre ma non moglie o compagna di un uomo. La famiglia è un’idea che li turba e li respinge, forse perché in ciascuno di loro l’esperienza familiare si è sedimentata in un grumo di dolore o di malinconia. 

Poi c’è l’acquario dei giovani. I quali, paradossalmente, sembrano avere le idee più chiare. O forse hanno solo meno pregiudizi, meno idee preconcette, e sono più disposti a dare alla vita una possibilità di sorprenderli. 

È una cosa che noi adulti abbiamo perso. La fiducia. La capacità di aspettarci un finale migliore di quello che sembra già scritto.

A un certo punto della storia i due acquari entrano in contatto e, come tra vasi comunicanti, le loro acque iniziano a mescolarsi. E qui si innesca la rivoluzione. I giovani sono ottimisti, semplicemente perché hanno dietro di sé più vittorie che sconfitte. E la rivoluzione è dei giovani. Anche di quelli anagraficamente vecchi.

 

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Nel tuo romanzo affastelli tanti temi diversi, e alla diversità dei temi corrisponde una lingua fluida, flessibile, che si piega con maestria alla commozione e al riso, alla riflessione e alla battuta, per arrivare alle esercitazioni scolastiche sotto forma di saggi brevi elaborati dagli alunni di Zelda, che scandiscono i momenti della narrazione e propongono uno sguardo a suo modo rivoluzionario sugli alunni stessi che si svelano come individui pensanti in testi che la scuola giudica scadenti e che invece conservano una carica esplosiva di sentimenti, emozioni, visione critica e approccio alla realtà, come a suo tempo mi sembrò che fosse l’intento di “Io speriamo che me la cavo” di D’Orta.

Insieme ai saggi brevi, i dialoghi, in cui la tua scrittura mostra il meglio di sé e che trova piena rappresentazione in un personaggio come Marcello, il migliore amico di Zelda, e oltre ai saggi e ai dialoghi, l’uso del dialetto, non ostentato ma che con grande naturalezza si scambia con l’italiano, in quei momenti narrativi in cui serve uno scarto dalla normalità, che viene così evidenziato dalla lingua:

il dialetto napoletano, annotò Zelda mentalmente, funzionava come un’arma crudelmente precisa che squagliava le geometrie della sintassi occidentale in una lingua raggrumata da un’aggettivazione frenetica e puntuale.

La lingua e l’ironia mi sembrano le tue armi migliori, e sono armi, a mio avviso, imprescindibili nella scrittura. Non tutti gli scrittori li posseggono, forse se ne può fare a meno se sopperiti da altri elementi, ma quando ci sono fanno la differenza.

Quanta differenza fanno per Viola Ardone e quanta cura vi dedica, o sono invece frutto di un talento naturale che non necessita di nessuna cura?

valeriaparrella-982x540Dalla fascetta che si accompagna al libro, Valeria Parrella mi sembra che accompagni “Una rivoluzione sentimentale” con una particolare attenzione: cosa hanno in comune, oltre alla comune origine napoletana e all’età, le vostre voci di scrittrici (se c’è qualcosa che vi accomuna)? Senti di appartenere a una tradizione letteraria legata alla “napoletanità”?

 

 

Hai toccato uno degli aspetti della scrittura che mi sta più a cuore: quello del linguaggio, o meglio dei linguaggi. Credo che la pagina scritta debba essere come una partitura per orchestra, avere una tonalità ben definita ma poi dare voce a tanti strumenti: il comico, l’umoristico, il drammatico, il sentimentale, il retorico, il dialettale e il letterario. Per me la scrittura è una continua scoperta degli infiniti e inaspettati modi in cui una stessa cosa può essere detta.

Pensiamo ai romanzi più famosi di sempre o a quelli che ci stanno più a cuore, e immaginiamo di doverne sintetizzare la trama in due frasi: che esercizio triste! 

“Anna Karenina”: una giovane e bella donna tradisce il marito e abbandona la famiglia per un uomo che poi alla fine non la ama più. Finale tragico.

“Il giovane Holden”: un ragazzino saccente si fa espellere dalla scuola per l’ennesima volta, vaga per la città, si becca un malanno, guarisce, ma continua a chiedersi per tutto il tempo: che fine fanno d’inverno le anatre del laghetto del Central Park?

“I promessi sposi”: durante la dominazione spagnola due ragazzotti lombardi desiderano sposarsi ma un cattivone glielo impedisce. Ci riescono, alla fine, 720 pagine dopo. Il “sugo della storia” è che chi si fa i fatti suoi  vive tranquillo. Se poi lo stesso gli capita qualche guaio tra capo e collo, si rivolga alla Provvidenza.

Questo per dire che le storie, in fin dei conti, si equivalgono tutte. I cattivi sono tutti più o meno cattivi e gli eroi (o antieroi) sono quelli per i quali il lettore fa il tifo per tutto il tempo. Quello che fa la differenza è il “come” una storia viene raccontata. La storia sono le parole che servono per trasformarla in racconto. Le vicende dell’Odissea erano arcinote nel mondo antico, venivano raccontate di corte in corte dai cantori, gli aedi, che ne recitavano a memoria interi brani. Ma ci fu solo un Omero (qualunque fosse la sua identità) che trovò, scelse, distillò le parole giuste per trasformare quelle storie in un racconto senza tempo.

Mi chiedi di Valeria Parrella. Oltre a essere colta, intelligente, generosa, è una scrittrice autentica. Amo i suoi libri, in particolare i racconti. La sua scrittura è sempre originale, sorprendente. In ogni sua pagina c’è sempre un colpo di genio.

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Siamo alla fine di questa nostra chiacchierata. Ultima domanda, sempre la più difficile, perché bisogna selezionarla tra le tante che vorrei ancora farti.

L’attualità: Scogliano, la scuola, i personaggi di “Una rivoluzione sentimentale” non hanno tempo. Vivono in quel mondo sospeso dell’universalità che tutto contiene. Ma all’interno di questo mondo di ogni tempo, tu lasci irrompere la contemporaneità con uno dei suoi problemi più gravi, a lungo sottaciuto e misconosciuto, che proprio nel meridione ha assunto toni drammatici: i rifiuti e le discariche.

Sono due poli, ulteriori, su cui hai voluto costruire il romanzo: l’universale e il contemporaneo? E questa dicotomia non è la cifra narrativa di quello che, in fondo, è forse il protagonista “invisibile” del romanzo, e anche, probabilmente, il narratore nascosto della storia? Donnie Tammaro.

 

una-rivoluzione-sentimentale-apert-255x154In ogni narrazione capita questo: il reale diventa metaforico, e quindi universale, e l’immaginario, il fantasioso (o fantastico) vengono proposti come reale, da chi narra, e accettati come plausibile da chi scrive. Se il narratore mi dice che un burattino di legno a un certo punto si mette a camminare da solo e inizia a parlare, io lettore devo crederci, se voglio continuare a leggere la storia. Questa sorta di “patto di correità” tra chi scrive e chi legge è il prezzo da pagare per poter appagare un bisogno, uno dei  più antichi, forse, il bisogno di conoscere storie, di sapere che cosa succede, a chi, perché e per come e, soprattutto, come andrà a finire. Allo stesso tempo il contesto, il dato di realtà della storia (e in ogni storia ce n’è uno) finisce per ampliare i suoi confini. Nel caso del mio libro, Scogliano (luogo immaginario ma non troppo), la discarica, l’inquinamento, la gestione camorristica del business rifiuti sono in parte un problema dolorosamente reale di molte zone del nostro Paese, ma contemporaneamente diventano simbolo di un’ingiustizia contro cui ribellarsi, di un male oscuro che sembra invincibile ma che invece forse non lo è.

Il mio è un romanzo di speranza. Speranza per queste terre che hanno subito una vera e propria devastazione, di cui si è venuto a sapere proprio grazie alla parola scritta, come il memorabile romanzo-inchiesta di Saviano che è stato letto da milioni di persone.

Anche Gomorra è uno strano, e riuscitissimo, mélange tra realtà documentata e realtà narrata. “Tre quarti di fantasia e un quarto di realtà”, come sosteneva Bakunin. 

E per concludere, mi affascina profondamente la tua visione: forse il vero narratore “nascosto” di tutta la storia è proprio Donnie Tammaro!

 

Metto in fresco una bottiglia di vino bianco per il 30 gennaio in cui Valeria Ardone sarà nella mia città, Potenza, e nella mia scuola, l’Istituto Alberghiero, per chiacchierare con i lettori e convincerli che “sporcarsi le mani” è meglio di tenerle in tasca: parola di Donnie Tammaro!

Chiacchierando con… Viola Ardone
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