di Salvatore D’Alessio

Salvatore D'Alessio

 

 

 

 

 

Istanbul non è una città come le altre, forse il suo nome significa “città delle città”, quindici milioni di persone vivono gli stessi spazi, con un biglietto del tram si va da un continente ad un altro, i ponti collegano le strade e le persone.

Secondo alcuni storici la Torre di Babele raccontata nella Bibbia fu eretta qui, in quell’epoca tutta la terra parlava un’unica lingua, le persone si esprimevano con le stesse parole, tutti potevano raccontare e tutti potevano capire le storie degli altri.

L’umanità voleva costruire una torre alta fino al cielo, sarebbe servita per restare vicini, per non disperdersi come imposto da Dio, sfrutttando l’altezza, tutti sarebbero stati più uniti, più forti. Poi la punizione dal cielo, tutti smisero di capirsi, iniziarono a urlare e a piangere in lingue diverse, e come formiche spaventate da un incendio, tutta la comunità si slegò.

Istanbul

“Istanbul Istanbul”, il libro di Burhan Sonmez che arriva nelle librerie italiane il 9 settembre edito da nottetempo (traduzione di Anna Valerio), inizia con un tentativo di ricostruire l’empatia persa col crollo di quella torre.

Tutto inizia in una notte senza tempo, in una cella sotterranea quattro uomini provano a sopravvivere al freddo e alla paura, dormono vicini, rannicchiati come cuccioli di cane. Un dottore, un barbiere, uno studente e un vecchio rivoluzionario, in comune hanno poche cose, solo le colpe politiche per cui sono stati imprigionati e le torture che subiscono, i carcerieri vogliono strappare dal loro inconscio i segreti e incastrare i compagni ancora liberi nella città di sopra.

Un racconto lungo dieci giorni, come il Decamerone, i prigionieri per sopravvivere si raccontano storie, leggende metropolitane, ricordi d’infanzia, aneddoti popolari, sognano di essere altrove. Al buio, senza sapere se sia giorno o notte, si ritrovano in un terrazzo immaginario a bere il raki.

Un ipotetico tramonto allunga la sopravvivenza, immaginano il Bosforo, le barche e le cene di pesce, provano a ricordare il sole che si addormenta dietro le colline, il colore delle nuvole che esiste solo nella città delle città, un po’ arancione e un po’ prugna.

Istanbul tramonto

 

 

 

 

 

 

 

Per sopravvivere tengono vivo il ricordo della loro metropoli carsica, terribile sotto la strada, paradisiaca sopra, lì dove la vita corre al contrario.

Le persone di quel mondo dormivano di giorno e stavano sveglie di notte. Sentivano freddo al caldo e caldo al freddo. Non vedevano alla luce, ma riuscivano a vedere un punto lontano nel buio. Gli uomini di questo mondo erano donne in quello, e le donne uomini. Non prendevano la vita seriamente, ma davano importanza ai sogni, amavano abbracciare gli estranei.

Fa uno strano effetto leggere questo romanzo in questi giorni, quando le immagini e le notizie ci mettono davanti agli occhi un dissidio reale che somiglia a questa finzione letteraria.

Leggere questo romanzo oggi fa un po’ male, ma è un dolore utile, che va condiviso, perché ogni cosa è descritta senza forzature, in modo poetico, onirico e dolce.

Il dolore era il riflesso del mio amore– dice uno dei prigionieri.

Questa storica ci dice che siamo fatti di bisogni primari, che gli umani in solitudine possono soffrire come bestie, ma uniti hanno conquistato il mondo e costruito città.

L’uomo è l’unica creatura che non è contenta di se stessa. L’uccello è solo un uccello, si riproduce e vola. L’albero mette le foglie e dà frutti. L’uomo è un’altra cosa, ha imparato a sognare, non si accontenta di quello che già esiste. La città è la terra dei sogni diceva mio padre, offre infinite possibilità e l’uomo lì non è parte della natura, ma il suo scultore. All’inizio l’uomo era un semplice pezzo di marmo, ma nella città ha trasformato la sua esistenza in una splendida statua.

Nel destino di ognuno degli ostaggi c’è la voglia di tornare a vedere il cielo, ma senza egoismo, i quattro compagni si percepiscono come un’entità unica, un gruppo. Loro sono le cicatrici che collezionano sui corpi ma anche tutti i respiri che tornano a dormire vicini di notte, il pane che masticano e le bende che stringono, le ferite che curano.

Con una narrazione diversa sarebbe stato un racconto terribile, opprimente, cupo e senza via di uscita, invece è un romanzo che il fiato lo toglie, ma poi lo ridà, più caldo di quello che avevamo ceduto.

Questa storia ci fa sentire cittadini di Istanbul, quella città in cui siamo tutti diversi nei riflessi delle vetrine e tutti uguali, col fiatone, alla fine delle salite.

Quella città in cui nelle file dei minimarket tutti aspettano il loro turno, le donne transessuali orgogliose dei corpi e le donne vestite di nero che hanno lasciano fuori soltanto gli occhi, la città in cui convivono le moschee, le chiese e le sinagoghe.

Instabul Mac

La città in cui ognuno è libero di perdersi per strada, nelle costole dei bazar o sulle scale del centro, libero di vivere la bellezza e dimenticare i minareti di riferimento, con la certezza che qualcuno poi ci riporterà al sicuro, a casa, felice di averci aiutato.

Questo è un romanzo sull’empatia, perché Istanbul è eretta su questa sensazione di vulnerabilità che è anche condivisione, perché se è vero che qualcuno dal cielo, in quella città ha rotto la torre che teneva stretti gli umani, in quelle strade qualcosa c’è rimasto. Nostante i fulmini, i colpi di stato, le torture e le epurazioni.

ll nostro passato è il nostro destino, non possiamo fuggire dal nostro passato!

#Piccoligiàgrandi: Istanbul Instabul