Bomen langs een weg (Trees on a country road)

Sai che non lo so dove avremmo potuto incontrarci? Magari avremmo potuto passeggiare lungo un sentiero che attraversa un bosco (niente di pauroso, una bella giornata di sole!). O in un posto davanti al mare (per noi persone di terra, il mare è il grande desiderio).

Se Elena Varvello non ha chiaro il luogo, io invece ho chiaro il modo: tale è l’empatia e la profondità affabulatoria della scrittrice, che sicuramente l’avrei presa sottobraccio per rendere più fitta e sommessa la nostra chiacchierata. Quindi o bosco o mare, seguiteci.

Mi permetto di darle subito del tu per una ragione sentimentale:  è  una scrittrice dalla voce molto particolare e particolarmente impressa nel mio cuore e dunque a tal punto familiare, che non potrei che rivolgermi a lei con confidenza.

Elena Varvello. Foto di Federico Botta. Dal blog "Hounlibrointesta"
Elena Varvello. Foto di Federico Botta. Dal blog “hounlibrointesta”

Cominciamo a sfogliare le pagine di “La vita felice” (Einaudi). Ma prima ancora di inoltrarmi nel testo, vorrei soffermarmi sulla copertina: un ossimoro immediato tra il titolo e l’immagine, perfetta e filologica rispetto alla trama del romanzo. Abbagliata dai fari di un furgoncino la vista, pur essendo al buio, è annullata dall’eccesso di luce e non ci permette di osservare e comprendere con chiarezza, quindi rimane una percezione istintuale, inconscia di ciò che avremmo potuto vedere. Non sono vite felici quelle raccontate nel romanzo. Nessuna, non solo quella del protagonista. Come va letto dunque il titolo? è ironico, antifrastico, augurale? Il connubio di titolo e immagine è davvero felice, perché il lettore ha subito la percezione che qualcosa di tragico si nasconda sotto un titolo così roseo. Era quello l’effetto voluto? Il titolo e la copertina rispecchiano la tua idea del romanzo e soprattutto l’idea che avresti voluto trasmettere al primo sguardo del lettore?

Il titolo su quell’immagine è proprio ciò che volevo. La mia speranza è che, insieme, l’uno sull’altro, pongano una domanda: che senso ha l’aggettivo “felice” su tutto quel buio, quel sentiero in un bosco, quei fari che sembrano venirci incontro? Cosa significa “La vita felice” dentro un’immagine tanto inquietante? 

È questa domanda a contare, per me: cosa vuol dire davvero essere felici, sperare di esserlo e a volte pretenderlo, quando la vita può farci paura e ferirci, e troppo spesso lo fa. È  questo che si chiede Elia, dopo quella notte d’estate: è possibile? Impiega trent’anni a rispondere ma credo che la sua risposta sia: sì. Bisogna arrivare alla fine, però. In parte ha a che fare con la compassione e il perdono: saper perdonare e perdonarsi.

Forse è davvero un augurio, chissà. Oppure un modo per guardare a fondo qualcosa che sfugge o che sembra scontato, e, come ha scritto Alice Munro, uscirne vivi. Le cose sono sempre così: mescolate. Il bene e il male. Sarebbe più facile, se non lo fossero. Ma in fondo, come dice Anna, siamo soltanto persone.

Spero d’averti risposto…

La-vita-felice-cover

Non mi hai risposto, ma illuminata. Quando leggo delle risposte come le tue, da lettrice sondo la natura essenziale dello scrittore: quel vedere fino in fondo, lì dove gli altri scorgono solo il buio, e la capacità di gettare il fascio di luce proprio nel punto che importa.

Il bene e il male, aggrovigliati. Il desiderio di non vedere. La forza, a tratti irresponsabile, dell’amore e della devozione. Il non detto. Ecco, “La vita felice” mi sembra uno straordinario romanzo sul “non detto” che sostanzia l’esistenza e ci impone, con l’istinto più ancora che con la ragione, a fare delle scelte. Come l’amicizia tra Elia e Stefano, o l’attrazione tra Elia e Anna. La stessa madre di Elia prova debolmente a frapporsi in queste relazioni, ma poi comprende che il figlio è spinto da una forza più grande, imbattibile, perché irrazionale e istintiva. Vicende che sembrano segnate da una forza illogica, da una fatalità inesorabile, che il lettore percepisce più che comprendere.

Stefano e Anna sono due personaggi fondamentali, che mi sembra abbiano lo scopo di saldare la figura paterna con quella del mostro, senza spiegazioni ma con la forza delle percezioni.  Nulla sappiamo di loro, se non sporadici frammenti esistenziali e quel tempo presente che si trovano a condividere con Elia.

In che modo fanno parte del mistero di “La vita felice”? e soprattutto c’è un mistero alla base del romanzo, o invece  il mistero è la vita stessa?

Ho sempre pensato che quello che teniamo per noi valga quanto ciò che diciamo ad alta voce. Forse di più. Non si tratta di non voler dire, quanto piuttosto di non poterlo fare (non essere in grado, non trovare le parole, non capire il come ma soprattutto il cosa). Questa reticenza fa parte del modo in cui scrivo. Non c’entra la tecnica, non è una questione di calcolo o di stile. È che è così che mi sembra che vada la vita.

Di Stefano e Anna conosco soltanto quello che ho scritto, dico sul serio. La loro comparsa è un mistero anche per me, e resta un mistero il loro andarsene e ciò che in seguito gli è capitato. Arrivano e poi se ne vanno, e però hanno un peso enorme. Così come ha un peso Santo Trabuio.

Sai che cos’è? Sappiamo poco gli uni degli altri (sappiamo poco persino di noi stessi), eppure ci sosteniamo a vicenda. E’ quello che Anna dice a Elia, il giorno dopo: “Io sono qui”. Una cosa talmente bella. E’ anche per questo che Elia va da lei.

La vita è il mistero – un fiume che continua a scorrere, un vento che continua a soffiare. La mia speranza è che si possa provare a raccontarlo.

Claude Monet, “Pioppi sulla riva del fiume Epte”
Claude Monet, “Pioppi sulla riva del fiume Epte”

Tu, Elena, lo stai raccontando benissimo questo mistero che è la vita…

Un peso enorme nella tua scrittura mi pare abbia anche la natura. Sia intesa come elementi naturali: alberi, radure, campi coltivati, etc.; che come ambientazione. In particolare quella di “La vita felice” riecheggia, come ha notato Michela Murgia in un post su Fb in cui invitava a leggere il tuo romanzo, la provincia americana, e dunque la grande letteratura americana dal Novecento in poi.

Già nel precedente romanzo, la natura si faceva portavoce dell’inquietudine dei personaggi ed era emblema di un disagio universale, di cui i personaggi facevano parte in una visione panteistica, ma nello stesso tempo deteneva la chiave del mistero e della verità, a cui l’uomo non aveva accesso. In “La luce perfetta del giorno” (Fandango), poche abitazioni, discoste dal centro cittadino, immerse nella natura, con un bosco che lambiva le case e dunque l’intimità e quotidianità delle vite. Anche in questo nuovo, tu affidi alla natura il compito di raccontare il dentro, il mistero e la sua verità. Raccontare e non svelare, questo mi sembra un elemento fondamentale del valore del paesaggio nei tuoi romanzi.

A quali luoghi pensavi mentre scrivevi “La vita felice”?

I paesaggi sono sempre stati importanti, per me. Non riuscirei a raccontare una storia, se ancora prima d’incominciare io non riuscissi a vederli, come se fossero loro a raccontarla.

“La vita felice” è un insieme di posti lontani tra loro. Esiste lo stabilimento, esiste il torrente, esistono le cascate, la casa di Elia, il prato davanti alla casa e la stazione di servizio. Esiste quel bosco. Mi è bastato soltanto stringerli insieme: ecco com’è nato Ponte.

Hai ragione tu: la natura racconta il mistero e la verità, senza svelarli. Racconta l’inquietudine dei personaggi, così come racconta la nostra inquietudine, i nostri momenti più belli, la noia, la disperazione, la felicità. E’ un personaggio a sua volta: si muove, parla e respira. E’ quello che riesco a vedere, ancora oggi, quando ripenso a “La vita felice”.

In questo senso, ormai il mondo è più grande, ai miei occhi, perché comprende anche Ponte. Così come comprende Croci, dove vivono i personaggi de “La luce perfetta del giorno”.

Ti mando una fotografia…

FOTO10

Elia vive in quell’età in bilico, in cui non si sa bene a chi credere. Non si ha piena fiducia in se stessi, ma non si nutre più fiducia cieca negli adulti, inclusi i genitori.
La formazione di Elia passa per la presa di distanza dai genitori, che paradossalmente è anche un avvicinamento al mondo degli adulti.
Nella figura di Elia tu hai saputo attingere alla profondità di figure mitiche, come Edipo o Antigone, che devono trovare in loro stessi la forza e la volontà per giungere alla consapevolezza di sé, che vuol anche dire una presa di distanza dalle persone che amano. La necessità di una scelta.
“La vita felice” potrebbe essere inteso come un romanzo di formazione, che si incista in un’indagine edipica necessaria e fatale come lo sono tutte quelle che riguardano la parte più profonda dell’essere umano?
E in relazione a Elia, mi ha colpito l’umana compassione, che non è indiscriminata giustificazione, con cui tracci e definisci la figura del padre. La tua scrittura sfiora il tema del mostro, con mille umanissime e passionevoli sfumature.
Quale rapporto tra Elia e il padre ti interessava mettere a fuoco? Cosa Elia vede di sé nella figura paterna? E quale posizione occupa la madre nella geometria dei sentimenti? Perché mi sembra che sia in questo triangolo sentimentale che si gioca la scommessa letteraria del romanzo.

Quella che Elia sta attraversando è la sua linea d’ombra. Cammina su un crinale, prendendo le distanze dalla casa in cui è cresciuto per prepararsi al lungo viaggio degli adulti. In questo senso “La vita felice” è un romanzo di formazione, una ricerca.

Ma ciò che penso è che dobbiamo allontanarci per tornare. Forse dobbiamo giudicare i nostri genitori, da ragazzi, per poter smettere di farlo, per arrivare a quella che chiamiamo compassione. E’ ciò che gli succede, in fondo, quando ripete di suo padre: “Io lo odio”, e poi, trent’anni dopo, lo vede entrare nella sua camera da letto e prova a dirgli certe cose. 

Che cosa vede Elia nella figura di quell’uomo? La sola persona al mondo che gli abbia suggerito di dare un’occhiata “laggiù”. E’ quel “laggiù” a essere importante. Riguarda tutti noi: è ciò che non mostriamo, quello che non possiamo dire. Ciò che sua madre ha già capito.

Ed è per questo che amo Marta con tutta me stessa: per la sua compassione – non è rassegnazione. Cosa potrebbe fare, amandolo, se non restare accanto a un uomo che è malato?

Ma, come sempre, sono soltanto ipotesi.

I personaggi sono di più di quello che un autore può saperne.

 

Forse, Elena, il senso della Letteratura è proprio creare delle ipotesi, in cui il lettore possa affondare alla ricerca di sé. Grazie a Elia anche io come lettrice mi sono addentrata in quel “laggiù” e attraverso Marta mi sono chiesta tante volte: – Come fa? Io non ce la farei – pur presupponendo e valutando che la sua forza era in quel resistere, e continuare a rimanere fedele.

La tua scrittura è piena di grazia e di nitore, direi “poetica” se l’aggettivo non fosse abusato. Sento molto forte in essa l’essenzialità della poesia, la capacità di “sintetizzare” in una parola, di non eccedere nelle descrizioni, pur risultando dettagliata e precisa. Di far parlare le cose, i gesti, i singoli movimenti. Di scolpire e cesellare.

Mi chiedevo, inoltre, se la scrittura cambia dal racconto al romanzo, o se invece la differenza tra i due generi sia posta in altro. Esordisci con una raccolta di racconti, “L’economia delle cose” (Fandango 2007) con cui sei selezionata per il Premio Strega 2008, e prosegui con due romanzi: “La luce perfetta del giorno” (quanta poesia c’è in questo titolo) e “La vita felice”.

Mi pare che tu con il secondo romanzo sia tornata in una strada intermedia, soprattutto in merito al tempo: nel primo romanzo accompagnavi i personaggi per quasi tutta la loro vita, in questo nuovo, invece, la narrazione è ferma in un tempo ridotto e nulla sappiamo di Elia, che non sia quel ragazzo sedicenne, che ricompare dopo trent’anni a raccontarci di un tempo, una stagione precisa della sua vita.

Cosa spinge una scrittrice a scrivere un racconto, e cosa invece le fa capire che il respiro della propria storia si adatta meglio alla forma del romanzo? O forse per te non esistono differenze di genere?

Economia cose 

Non credo che a cambiare sia tanto la scrittura, quanto piuttosto il movimento, il passo, l’ampiezza dello sguardo. 

Da un po’ di tempo, da quando ho terminato “La vita felice”, mi viene spesso da pensare al fiume e al torrente, e immagino un racconto come quel torrente (e soprattutto le cascate), e poi un romanzo come il fiume. Elia conosce entrambi, ma preferisce le cascate. Probabilmente, adesso, mi sento più legata al fiume. Eppure è sempre acqua e sono sempre storie.

Ma è vero che “La vita felice” si trova in un punto intermedio: non tutta la vita di ogni personaggio e un tempo dilatato, ma un’unica estate, pochissime notizie riguardo a ciò che è stato prima e poi un salto temporale di trent’anni.

Quello che sto cercando è l’essenzialità anche in un passo lungo, credo. Andare dritto al cuore (quel che succede in un racconto, e ancor di più in una poesia), dire soltanto ciò che è necessario. E non riguarda solo la scrittura ma proprio la vita, il modo in cui mi sembra giusto raccontarla. Il solo modo.

Per me non sono più cose diverse, la vita e la scrittura. Lo sono state, forse, da principio, quando muovevo i primi passi, ma non lo sono più. L’una scivola nell’altra e viceversa. E’ sempre acqua, e sono sempre storie.

 

Ti ringrazio, Elena, di tutto il tempo e della tua generosa attenzione. Tu sei arrivata diritta al mio cuore… sia con i tuoi libri (ricordare a perfezione non solo nella storia ma soprattutto nelle suggestioni un libro letto anni fa, come per me “La perfetta luce del giorno”, nella mia semplice e soggettiva percezione di lettrice, è sintomo e sinonimo dell’importanza che quella scrittura ha assunto nel mio universo esistenziale, a cui ora si unisce Elia con il suo universo sentimentale.) sia con questa chiacchierata fortemente empatica e di grande consapevolezza.

Non sai quanto sia bello, per me, sentirti dire queste cose…

Soprattutto perché “La luce perfetta del giorno” ha ormai sei anni! Secoli, quando parliamo di libri…

Sono io a ringraziare te, per tutto il tempo che mi hai dedicato e per la tua attenzione. Sono regali rari e indescrivibili, mi devi credere…

Chiacchierando con… Elena Varvello
Tag: