Una madre e una figlia.

Mia madre è nata il 14 marzo 1921. In famiglia la chiamano tutti Montse o Montsita. Ha novant’anni quando comincia a rievocare per me la sua giovinezza in quell’idioma misto e transpirenaico in cui è solita esprimersi dacchè, più di settant’anni fa, è stata catapultata in un paesino del sud-ovest della Francia.

Il rapporto, anche linguistico tra la madre che storpia e la figlia che corregge, (e per il quale bisogna applaudire alla vivacità e competenza delle traduttrici italiane, che hanno fatto in modo che in un’altra lingua fosse avvertibile l’impasto linguistico, il “fragnol”, che come loro stesse indicano nell’avvertenza iniziale non è solo motivato da ragioni sentimentali, ma anche musicali, è la cornice metanarrativa, emotiva e di senso in cui Lydia Salvayre in “Non piangere” (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Sala, L’asino d’oro) inserisce il racconto di “quella estate di giovinezza assoluta” che la madre visse in Spagna nel 1936.

…quell’estate del ’36, un’estate, in cui i princìpi, i comportamenti, i sentimenti, tutto viene ribaltato, e i cuori spiccano il volo, figlia mia, ecco così è che mi gusterebbe farti capire e che invece è incomprensible.

Infatuata dalle idee anarchiche del fratello Josè, Montse lascia con lui il triste paese in cui sono nati e si trasferisce nella città catalana in cui hanno trionfato le forze anarchiche. Ma se per il fratello Josè, da un’iniziale pazza gioia quei giorni saranno forieri di una grande delusione, dell’arretramento delle belle idee di fronte alla crudeltà degli uomini, per Montse rimarranno “giorni enfatici”, gli unici per cui sia valsa la pena  vivere. Il resto della vita, quella passata e più ancora quella a venire, è una prigione, un ritorno al vecchio dinnanzi al radioso futuro promesso dal fratello.

Di tutti i suoi ricordi mia madre ha quindi conservato il più bello, vivo come una ferita.

Alla figlia non basta la voce della madre per fare chiarezza in quel delicato e conflittuale periodo storico, e accanto alla testimonianza personale e intima, sentimentale e istintiva della madre affianca la lettura di Bernanos, che dopo un’iniziale simpatia per l’impresa di Franco, prese la sofferta e coraggiosa decisione di denunciare quei “brutti tempi” in “I grandi cimiteri sotto la luna”:

Brutti tempi per tutti quelli che diffidavano di qualsiasi forma di asservimento e che preferivano obbedire alla loro coscienza più che alle dottrine dell’una e dell’altra sponda.

La doppia interpretazione di quel momento complesso e difficile per la Spagna, da una parte i ricordi nostalgici ed enfatici della madre dall’altra la lucidità intellettuale e piena di Bernanos, dona alle pagine di “Non piangere” non solo una profonda originalità di sguardo sulla Storia, ma anche uno stimolante chiaroscuro per il lettore, che si sente continuamente interpellato a prendere parte, a riflettere, a scommettere sulle proprie deduzioni. Una sfida impegnativa, che Lydia Salvayre assolve con straordinaria abilità, regalando un libro che mette in movimento le coscienze e che costringe a fare raffronti e confronti con questo nostro presente così carico e mosso di contraddizioni, brutture e crudezze.

L’esperimento narrativo di “Non piangere” non è semplicemente raccontare la Storia con la maiuscola, quella dei grandi avvenimenti, attraverso una storia personale e familiare e tentare di comprenderla riducendola a microrganismo, e con questa riduzione renderla più chiara:

In effetti alla stessa tavola erano rappresentati tutti o quasi tutti i partiti spagnoli dell’epoca, ognuno convinto della fondatezza della causa per cui lottava, ognuno animato da sentimenti nobilissimi, ognuno sicuro, nei limiti della sua esperienza e dei suoi interessi, che la sua posizione fosse l’unica giusta, e ognuno impegnato a compromettere, se non a demolire, il credito di cui godevano gli altri. C’erano infatti: il padrone di casa don Jaime, sospettato di avere agganci tra i nazionalisti, sua sorella doña Pura che, in cuor suo, stravedeva per Franco e per la Falange, il padre della sposa che faceva parte di un sindacato socialista di piccoli proprietari terrieri, lo sposo convertito da poco alle idee comuniste e Montse, che si era innamorata delle idee libertarie di suo fratello come ci si innamora di una canzone o di un viso, per un infinito desiderio di poesia.

Le grandi correnti politiche della Spagna del ’36 e la loro incapacità di trovare un’intesa, che per certi versi avrebbe portato al disastro finale, erano lì riprodotte in miniatura.

ma in maniera più ardita e spavalda far confluire la storia soggettiva nel flusso strabordante della Grande Storia, delle ideologie e dei fatti che cambiano la rotta delle nazioni, degli stati, dei tempi, attraverso le singolarità delle vicende umane. La storia di Montse, illuminata dalle riflessioni di Bernanos, diventa ben più di un emblema e di un esempio. Diventa la Storia, quella che come un macigno sembra sovrastare le personalità e le vite umili, e che invece  viene contrassegnata e indirizzata dalle azioni dei singoli, per divenire un fiume in piena, in cui la Storia si confonde con le storie fino ad annullarsi in esse,  in un unico organismo. Non è un semplice spostamento di visuale, quello di Lydia Salvayre, dal basso verso l’alto, ma qualcosa di più profondo che rende gli uomini (e i lettori, che nell’esercizio della lettura esplicano in modo pieno e concreto la propria umanità) responsabili del passato e del presente, e ipotecari del futuro. Non è semplicemente un equilibrio perfetto tra intimità (le voci narranti strabordano l’una nell’altra, dalla figlia alla madre, dal passato al presente, senza interruzioni o scossoni) e oggettività, tra ricordo e racconto, ma qualcosa di ben più radicato in una visione storica, in cui i singoli fanno la differenza e lasciano un segno. Forse è per questo senso così nuovo e unico della Storia, che le figure secondarie del romanzo, come il fratello Josè eroe di appassionata tragicità, o quello che diventerà il marito di Montse, Diego con la sua fragile cattiveria mista a invidia e gelosia, a don Jaime, padre di Diego, che incarna la dolcezza dell’autoritarismo, per arrivare a donne irrisolte e infelici come donna Pura e donna Sol, hanno  tratti netti e urgenti che contribuiscono a creare quel senso pieno di umanità che sfugge al tempo e al luogo, alla storia e al momento, e diventa universale, capace di parlare al “noi” fuori dal tempo, pur essendo fortemente invischiata e incistata nel proprio tempo.

Il titolo del romanzo assolve, a suo modo, a questa funzione di ricordare come la Storia non va mai esaminata dentro di essa, ma fuori. È chiave, non serratura. L’immagine da cui scaturisce l’invito a non piangere, con il quale Montse cerca di consolare la figlia Lunita in fasce, e più propriamente di consolare se stessa come madre e come donna, come umanità in fuga, non può che portarci a riflettere e di conseguenza a capire il nostro presente, la nostra fragile condizione di esseri umani che segnati dalla Storia ne segniamo il cammino:

Malgrado la sua giovane età fu una fatica immane, ma ciononostante continuò giorno dopo giorno a mettere un piede davanti all’altro, ADELANTE!, con la mente occupata solo a trovare i mezzi per sopravvivere, gettandosi a terra o in un fossato appena all’orizzonte comparivano gli aerei fascisti, con la faccia schiacciata contro il terreno e la bambina stretta contro il petto, terrorizzata dalla paura e soffocata dai singhiozzi, la bambina a cui sussurrava Non piangere, figlia mia, non piangere pulcino, non piangere tesoro, per poi chiedersi, quando si rialzava tutta sporca di terra, se aveva fatti bene a far subire alla piccina quell’apocalisse.

Ma mia madre aveva diciassette anni e voleva vivere. Così camminò per giorni e giorni con la bambina sulla schiena verso un orizzonte che le sembrava migliore, oltre le montagne. Camminò per giorni e giorni in un paesaggio disseminato di macerie e il 23 febbraio 1939 raggiunse la frontiera di Le Perthus. Rimase quindici giorni nel campo di concentramento di Argèles-sur-Mer nelle condizioni che tutti conoscono, poi fu trasferita nel campo di internamento di Mauzac dove ritrovò Diego, mio padre.

Alla fine, dopo mille peripezie, si stabilì in un paesino della Linguadoca, dove dovette imparare una nuova lingua (che iniziò da subito a strapazzare) e un nuovo modo di vivere e di comportarsi, senza piangere.

Ci vive ancora oggi.

Non piangere