L’odore di terra e di marcio che accompagna il disgelo diventa così forte da tenerli svegli entrambi, cane e uomo. La neve su ritrae, espone nell’aria le bestie travolte dalle valanghe o sorprese dalla morte per freddo o per fame. Le lascia a intiepidire al vago sole di primavera, e lascia che i vapori saporosi che si alzano a volute da quelle carcasse partano a suscitare i primi nugoli di insetti. Arrivano ronzando, gli insetti, e si depositano a leccare e succhiare gli arti fumosi delle carcasse. Li seguono gli uccelli, disposti a divorare tutto per sottrarsi alla fame, e i primi carnivori che l’odore ha risvegliato nelle loro tane, le volpi, le donnole. Zampettano fino alle carcasse, annusano a lungo, rapiti, e si concedono un assaggio. Agli ultimi nati fanno provare il gusto. Ai più grandicelli che l’inverno ha risparmiato concedono di scegliere i bocconi.

Capita che un animale si trovi d’improvviso, nel corso della ricerca di cibo emerso dal ghiaccio, dinanzi ai resti di un suo simile. Lo annusa allora in modo diverso, come se vi riconoscesse un amico o un parente, e gli dà dei colpetti con il muso, come a scuoterlo da un letargo troppo profondo. Non lo assaggia, a meno che la fame non lo abbia confuso o reso indifferente ai semplici ma tenaci tabù della natura. A volte quei contatti di muso e di naso sembrano delle conversazioni tra vecchi compagni che non si ritrovano da un pezzo.

Mi sembra che la lunga citazione sia la vera sinossi di “Neve, cane, piede” (com’è musicale questo titolo nominale tripartito dalle virgole) di Claudio Morandini (Exòrma). La vita e la morte che si intrecciano panteisticamente nel cerchio vitale della natura. Il senso olistico dell’umanità, in cui uomini e animali si confondono in un unico moto perpetuo. Il valore di una scrittura che abbraccia tutti i sensi, dolcemente truce, in cui la bellezza e l’orrore si confondono e fondono.

La fonte d’ispirazione è raccontata da Morandini in appendice al breve romanzo, ed è a sua volta un racconto nel racconto, che lascio alla sorpresa e meraviglia del lettore.

Un vecchio montanaro, Adelmo Farandola (il cognome stesso sa di turbinio e bufera)  vive in un isolamento brusco e duro in un vallone scabro delle Alpi. Raramente si concede delle incursioni in paese per fare provviste, ma disabituato al contatto umano la memoria comincia a perdere colpi e a rendere ancora più complicato comunicare con i suoi simili. Più facile dividere il tempo con un cane, che gli si è affezionato nonostante i modi bruschi del vecchio:

Il cane sembra talvolta un’appendice dell’uomo. Gli sta stretto accanto, gli si strofina contro il polpaccio, non perde di vista un suo gesto, al punto che nemmeno con un calcio Adelmo Farandola lo sa allontanare, perché quello uggiolando compie un paio di brevi svolte, per rielaborare il dolore, poi torna a strofinarsi sul fianco del suo compagno.

È il cane che sceglie l’uomo, per un bisogno innato e non solo interessato di comunità. Ed è il cane che sarà tradito dall’uomo, quando questi gli sceglie un altro compagno: un corpo umano ritrovato al momento del disgelo.

Claudio Morandini scrive un racconto corposo, materiale, in cui il silenzio e i pensieri prendono consistenza materica, in cui le sensazioni diventano reali e tangibili.

Foto presa dal blog “Un Antidoto Contro La Solitudine” 

Un romanzo introspettivo, in cui il senso del macabro si collega alla migliore tradizione gotica. Adelmo Farandola è un nuovo mostro di Frankestein, che destinato (anche se per suo volere) alla solitudine, ne paga tutte le conseguenze più estreme: dalla durezza delle condizioni di sopravvivenza alla fame, fino a giungere alla perdita della memoria e alla pazzia. Quello che emerge dalla scrittura tersa e nitida di Morandini è un senso pieno della natura, nella miriade disparata dei suoi aspetti, in cui la ferocia e la dolcezza, la brutalità e l’umanità perdono i loro contorni, per mescolarsi in un medesimo orizzonte.

Lontana e colpevole la civiltà, ma questo aspetto è appena accennato nel romanzo nel ronzio dei cavi elettrici a cui si allude come causa remota della pazzia di Adelmo. Anche la Storia, la vicenda tragica della guerra, rimane chiusa nella memoria di Adelmo, non dato oggettivo ma sentimentale e personale. Sceltae felici a mio avviso, perché lasciano in sordina gli aspetti prettamente umani, perché  sia la natura con la forza dirompente che le è propria a prendere il sopravvento.

“Neve, cane, piede” di Claudio Morandini parla alla parte più oscura di noi, in cui l’umano si perde nel naturale, nell’istintivo e nell’intuitivo, in un miscuglio suggestivo e riuscito degli elementi della favola (come gli animali parlanti e comunicativi) e del gotico, che spesso sconfina nell’horror, fino ad anelare alla letteratura eremitica e spiritualistica. Adelmo Farandola è la parte ancestrale e ferina di ognuno di noi, quella che rifiuta gli elementi civili dell’umanità, per collegarsi a quelli più primordiali e primitivi in cui l’uomo ha imparato il conforto di parlarsi da solo e di immaginare le voci delle bestie e delle cose pronte a rispondergli.

Neve, cane, piede