Due tazzine, l’odore della familiarità mischiato all’aroma del caffè, il sorriso accogliente e aperto di Caterina Bonvicini. Mi avrebbe invitato nella sua cucina ed è lì che ci dovete immaginare, attorniate da “Tutte le donne di”, a chiacchierare del nuovo romanzo, edito da Garzanti.

Con “Tutte le donne di” a che numero siamo dei tuoi romanzi? La domanda scaturisce dalla sorpresa di leggere un libro narrativamente e strutturalmente così diverso da “Correva l’anno del nostro amore”. Lì il respiro lungo di una vita intera, che si inseriva in una saga familiare, fortemente connotata a livello generazionale, qui il respiro corto della contemporaneità; lì un io narrante unico, qui la frammentazione e moltiplicazione dei punti di vista, con una forte prevalenza del femminile. E potrei continuare ancora, in questo gioco del qui e lì, ma credo che sia sufficiente per sottolineare il diverso approccio narrativo con cui hai deciso di raccontare questa nuova storia. Diversa anche dal resto della tua produzione, o collegata a qualche romanzo precedente? Per “Correva l’anno del nostro amore” (romanzo che ho sentito fortemente mio e di cui mi sono appropriata) nell’intervista a Fahrenheit hai rivendicato il modello dickensiano di “Tempi difficili”, per “Tutte le donne di” hai avuto un modello classico di riferimento?

Mi fa piacere che tu abbia notato questa mia versatilità, perché la considero la mia cifra. Non ho ancora scritto un romanzo uguale a un altro, e spero di non farlo mai. Intanto mi annoierei. Preferisco sfidarmi e scegliere ogni volta qualcosa di nuovo innanzitutto per me. La lingua si deve adattare alle cose che racconti, in questo sta la sfida: trovare in me la voce giusta per ogni storia. Tante storie significano tante voci, e la scrittura deve farsi docile alle esigenze di ciascuna. È la stessa versatilità di una cantante lirica che passa dalla Carmen al jazz, da Berio alla musica brasiliana (l’esempio è costruito su Cristina Zavalloni perché è il mio corrispettivo in musica, siamo uguali e ci siamo riconosciute). Ho quarantun anni e di libri ne ho scritti sette, più due per bambini e quel piccolo saggio con Alberto Garlini. In totale dieci. Credo di essermi ripetuta solo in quelli per bambini, che sono abbastanza simili fra loro. In tutti gli altri no. Poi, certo, ci deve essere sempre una coerenza di fondo. Pensa ai periodi di un pittore, quando cambia e comincia a fare quadri diversissimi dai precedenti, ma la mano si riconosce comunque. In tutte le donne di i modelli sono più contemporanei che classici. Sicuramente c’è dentro il teatro di Yasmina Reza, perché sono rimasta colpitissima da Carnage (Il dio del massacro) ma c’è anche la curiosità stilistica di Jennifer Egan che nel libro con cui ha vinto il Pulitzer, Il tempo è un bastardo, in ogni capitolo s’inventa uno stile diverso.

Caterina, sei meravigliosa.

…e veniamo alle donne. Davvero siamo così terribili? Le tue “voci narranti” sono spigolose, insopportabili, ciniche e dure. Eppure così fragili e sentimentali. L’una diversa dall’altra. Fra tutte mi sembra che la tua simpatia maggiore vada alla madre di Vittorio, donna d’altri tempi, con i suoi difetti e una grande consapevolezza. Mi sembra che questo sia un tratto che in un certo senso accomuni “Tutte le donne di” con “Correva l’anno del nostro amore”. Anche nel precedente la simpatia e l’amore con cui accarezzavi le figure dei nonni, pur non nascondendone i limiti e le rigidità, era palpabile.

C’è un forte legame della scrittrice con la generazione dei nonni, più che con quella dei padri? Cosa hanno i primi che manca ai secondi? Perché una cosa è essere legata a un figlio come Lucrezia, un’altra è essere condizionata da un marito come Cristina, un ex-marito come Ada, e persino da un fratello come Francesca. Non c’è uno scarto generazionale profondo in questo intreccio?

Se mi tocchi il tema delle nonne, parto in quarta. Ho avuto la fortuna di averne due meravigliose, un rapporto fortissimo con entrambe. La nonna materna, Dory, è morta nel 2010 e mi manca follemente. Sicuramente in Correva l’anno il lavoro del lutto ha condizionato la creatività, avevo bisogno di raccontarla per tenerla ancora con me. Con l’altra, Miranda, la nonna paterna, ci sentiamo tutti i giorni. Ma non sono telefonate di rito, abbiamo tutte le nostre cose da raccontarci, parlo con lei come con un’amica del cuore. Sai, nonna, è successo questo e quello. Sa tutto della mia vita, conosce uno per uno i miei amici o le persone con cui lavoro, anche se non li ha mai incontrati. La vedo ogni due settimane, quando passo da Bologna, e andiamo a pranzo sempre nello stesso ristorante. Esiste proprio il nostro tavolo. Guai se ce ne danno un altro. Restiamo lì anche tre ore e parliamo fitto come due innamorati. Il personaggio di Lucrezia però non assomiglia a nessuna delle due. La descrivo con più tenerezza solo perché se c’è una nonna in giro, subito la preferisco. Le ho regalato alcuni dettagli di Miranda, però. Per esempio quando viene borseggiata e insegue il borseggiatore. Oppure la sua volontà di indipendenza. Pensa che l’estate scorsa mio padre le ha telefonato e le ha detto: Mamma, per favore, almeno non andare in bicicletta. Se cadi… Risposta: Sicuramente se pedalo con una mano sola perché  con l’altra tengo il cellulare, come sto facendo adesso, rischio di più. Capito il tipo? 

Per quel che riguarda i conflitti generazionali, nel romanzo il tema è presente, certo. Non a caso ho scelto di raccontare donne di età diverse, che vanno dagli 89 ai 16. Ma credo di aver affrontato la questione con uno spirito molto risolto. Senza quelle rabbie che in fondo appartengono solo alla giovinezza (di chi racconta). Trovo magnifico avere quarant’anni. Non tornerei indietro neanche se mi pagassero. Ho un rapporto molto più sereno con i miei genitori e la mia visione del mondo non ruota certo intorno a loro, non sono condizionata da conflitti privati. Anzi, finalmente li capisco. Al massimo mi guardo intorno, e adesso lo faccio sicuramente con più libertà. 

Ah, le donne di una volta, come la tua nonna! Vogliamo parlare delle figlie? Potremmo dire che nel tuo libro ce ne sono tre: Giulia, la figlia minore, forse la più irrisolta e fragile, con la tendenza pericolosa a nascondere la solitudine dietro una maschera spessa di spavalderia; Paoletta, la figlia maggiore, (cattivo quel diminutivo che vezzeggia per una giovane donna obesa!) che della solitudine ha fatto un’arma di difesa, una corazza per non urlare il suo bisogno di affetto; ma anche Camilla, la giovane amante, ha più le sembianze di una figlia, a cui riservare quella tenerezza piena di sollecitudine che Vittorio non è stato mai in grado di dare a Paoletta e che è diventata maniera con Giulia.

Mi sembra quasi che tu voglia tracciare una “orfanitudine” dei tuoi personaggi: da parte di madre come di padre, ma per ragioni del tutto differenti. Un’orfanitudine fatta di mancanza di attenzioni o di eccessive intromissioni, di indifferenza e di assenze. 

Anche in questo caso, mi sembra che la scrittrice prenda sottilmente le parti dei figli, mi sbaglio?

Ti prego di non tagliare nulla dalle tue domande. In fondo il bello del web è lo spazio, non si contano i caratteri come nei giornali. E forse questo spazio ha senso, se qualcuno ha pazienza. In fondo perché non scrivere per chi ha pazienza? Siamo tutti costretti a 140 caratteri, ma ogni tanto si può esagerare. Resto ogni volta più scossa da te, credo per il modo delicato con cui riesci ad arrivare alle cose più profonde. Mi ha molto colpita la lettura di mio padre. Ha detto: Finalmente un libro in cui non parli di me. Effettivamente non parlo di lui, non riesco a immaginare un uomo più distante da Vittorio. Non hanno proprio niente in comune. Eppure questo romanzo nasce proprio da un periodo di silenzio fra noi. Dovevo riempire in qualche modo quel silenzio, allora mi sono inventata una storia. Ci si sente invincibili a inventare. Quindi mi sono trasformata in una figlia obesa (Paoletta) e in un’amante che cerca un genitore qualsiasi (Camilla). Non mi sono mai davvero trasformata in un’adolescente viziata perché Giulia ha solo tutta la mia invidia e tutta la mia compassione. E’ sfacciatamente fortunata ad avere un padre vicino a lei, e nemmeno capisce questa fortuna. Potevo anche scegliere la tragedia, ma avevo voglia di riscatto. La commedia, con la sua ferocia e la sua felicità, è un genere che si addice di più al riscatto. Pensavo: Se scrivo, vinco io. Sulla vita, magari.

Caterina, grazie grazie grazie. Per tante ragioni: per quello che dici sul mio sguardo, per l’interpretazione del Chiacchierando che è proprio uno spazio disteso in cui non ci sono tempi come non ci sono caratteri, ma più e oltre questo per l’immediatezza sentimentale della tua risposta.

Mi hai toccato il cuore e di questo non so come ringraziarti.

Gli uomini. La domanda la lascio aperta, senza indicare nulla degli uomini (pochi) che si aggirano nelle pagine di “Tutte le donne di”, per non dare indicazioni inavvertite al lettore che voglia conoscerli. Perché tu in questo inganni: sembra che stai parlando di donne e invece è proprio all’uomo che riservi la tua maggiore attenzione. All’essere uomo. Agli stereotipi sul maschile, per poi capovolgerli. Proprio chi sembrava assente, in realtà lo era per garantire una presenza necessaria, fondamentale, ineludibile. 

Esiste la “mascolinità”? perché su questo elemento mi sembra che il tuo gioco sia sottile. Gli uomini non hanno la tempra delle donne. Tendono a sparire più che a risolvere. Non mi riferisco solo a Vittorio, ma anche al marito di Francesca, la sorella di.

Molto sottile anche questa domanda. Talmente sottile che la risposta è già dentro. È  vero, è un romanzo che parla di donne ma che si interroga sulla natura del maschio. Sul marito della Chicca (quanto mi odierebbe perché uso questo soprannome!) non so cosa dire. È un personaggio inesistente che mi serviva solo per far capire il suo dramma. Anche il povero tenente Cardini è abbastanza inesistente, ma la sua inesistenza è molto ragionata, mi serviva a mettere in luce il carattere di quelle sette donne, che schiavizzano  persino il poliziotto. Lui è lì per fare delle indagini, ma loro lo mandano a cambiare una lampadina in cantina, gli fanno aggiustare la lavastoviglie, si fanno accompagnare dal cardiologo o al pronto soccorso per un attacco di panico. Per quel che riguarda Vittorio, il grande inesistente, l’inesistente per eccellenza, credo di averlo liberato dandogli finalmente una voce, nell’ultimo capitolo. Tutte le scrittrici che hanno letto il libro, mi hanno detto che l’ultimo capitolo per loro è il più bello. Invece la maggior parte dei critici me lo ha stroncato. Non so chi abbia ragione. E nemmeno quali siano davvero i due schieramenti (critici contro scrittori o maschi contro femmine?). Ma sono rimasta affascinata da questa evidenza. In ogni caso, al di là di ogni giudizio di valore, per me l’ultimo è il capitolo più importante, quello che dà senso a tutto. Al lettore chiedo una cosa sola: di leggere il romanzo fino in fondo o di non leggerlo affatto. Vie di mezzo, in questo caso, non esistono. Anche se non è un giallo. 

Non lo so, Caterina, se sono del tutto d’accordo con la tua indicazione di lettura. Sono una lettrice diligente, e anche pignola, non salto le pagine, leggo tutte le righe, ma credo che la felicità di un libro strutturato come “Tutte le donne di” lasci aperte tutte le modalità di lettura. Chi non arriva alla fine, non saprà mai chi è Vittorio e la sua storia, ma cosa toglie alla storia delle tue donne? L’ultima parte è un romanzo nel romanzo, che premia il lettore che ti ha seguito fino alla fine, in modo sorprendente, ma io credo che il tuo libro regali molto sin dalle prime pagine e quindi lasci qualcosa anche al lettore svogliato che non voglia proseguire il cammino. 

Ma ci sarà un lettore che non voglia giungere alla conclusione con curiosità? Anche perché l’invito che tu gli rivolgi mi sembra racchiuso in una bellissima riflessione di Vittorio:

Camminare insieme, per esempio, è un dialogo.

I monologhi delle protagoniste, come anche quello finale di Vittorio, sono un dialogo vero e proprio con il lettore, come una camminata lungo le esistenze e i comportamenti, in cui ci si specchia o si prende le distanze, ma sempre si riflette.

A proposito del capitolo più bello. Il mio è senza dubbio quello dedicato ad Ada, nell’ultima parte, e datato 14 agosto 2015. Il personaggio forse più spigoloso del gruppo femminile, si confessa senza reticenze, smettendo quella corazza da donna arrivata e artificiosa che aveva indossato per resistere al tempo e ai tempi.

Prima devi imparare a piacere, poi devi imparare a non piacere – solo dopo impari a fregartene, ma è tardi, hai già fatto un sacco di fatica per niente. Intanto hai perso di vista le cose veramente importanti. Tipo tua figlia.

Per chiudere questa nostra chiacchierata, allora, la domanda riguarda più strettamente la tua officina di scrittura: come ha scritto Caterina Bonvicini “Tutte le donne di”? Per capitoli, dando voce ora all’una ora all’altra figura? Per personaggio? Partendo da Vittorio o arrivando a Vittorio? Scrive o riscrive, Caterina Bonvicini?

Anch’io voglio bene a Ada. È un po’ un carro armato, ma è una donna capace di mettersi in discussione. Secondo me, troverà presto un amore, me lo sento. Sai cosa ha di diverso questo romanzo? Che penso ai personaggi come se fossero degli amici. Gente che non smette di vivere con le mie pagine. Li percepisco come autonomi da me, come se li avessi incontrati e avessi passato tante serate con loro nella mia cucina (cosa che in effetti ho fatto, anche se non sporcavano piatti e non finivano il vino). 

Tutte le donne di mi è apparso intero nell’estate del 2012. Compreso il titolo. Anzi, sono proprio partita da lì. Ero in Sardegna e guardavo il mare. A settembre, sono tornata a Milano e l’ho subito raccontato al mio agente, Piergiorgio Nicolazzini, che è anche uno dei miei migliori amici. La struttura mi era chiarissima, dall’inizio alla fine. Come una partitura. Cinque capitoli, divisi per feste comandate. I primi quattro divisi in sette parti, una voce diversa per ogni donna. E l’ultimo, il più difficile, affidato solo a Vittorio. Ricordo ancora la risposta di Pier: Ma è un film di Trouffaut! Beh, magari.

Scriverlo però è stata tutta un’altra cosa. Era talmente difficile realizzare quello che avevo in mente che ho dato al romanzo un soprannome: “il cagnino rognoso” (con tutto il rispetto per i cani piccoli: ho una bassotta, Lola, che è tutta la mia vita). Insomma era piccolo, ma ringhiava e mordeva. Ci ho lavorato fino al settembre del 2015 (all’inizio mentre finivo Correva l’anno del nostro amore, quindi per un totale di tre anni). Per due anni mi sono occupata solo dei primi quattro capitoli. Avevo il terrore di cominciare l’ultimo. Mi ha sbloccata una chiacchierata in cucina con Vittorio Lingiardi. Sapevo che solo lui poteva aiutarmi a capire l’altro Vittorio, infatti è successo. A un certo punto, il famigerato ultimo capitolo, l’ho scritto di getto. E non mi succede mai di scrivere di getto, io sono una scrittrice da venticinque stesure, arrivo alle cose per gradi. Tutto quel tempo passato avanti e indietro sui primi quattro capitoli però, mi è servito. Non tutte le voci mi sono uscite subito, e anche quelle che mi sono venute più naturali (come quella di Lucrezia, che parlava quasi da sola) andavano molto lavorate. A volte dedicavo settimane a un solo personaggio, riscrivendo il libro in diagonale. Con alcune è stato faticosissimo, non sono donne facili. Per esempio con la Chicca sono impazzita. Non riuscivo ad amarla (e amare i personaggi per me è una conditio sine qua non) e così a un certo punto sono stata costretta a inventarmi una studentessa innamorata di lei, la povera Frida Cannavò, per guardarla attraverso altri occhi, possibilmente pieni di tenerezza. 

Questa lunga convivenza con loro, che ha richiesto anche molta pazienza da parte mia, alla fine mi ha dato quella sensazione di autonomia di cui ti parlavo. Ogni tanto le incontro ancora. Per esempio, qualche sera fa, al ristorante, mio marito (quasi marito: per ora abbiamo fatto solo le pubblicazioni) ha indicato un tavolo: Guarda, sono le donne di Vittorio! Abbiamo riso. Ogni tanto ci capita. Devo dire che Ric ha capito meglio di chiunque altro il mio mestiere. Un giorno mi ha detto: Sei sempre chiusa in una stanza con della gente che non conosco. E’ una definizione perfetta del mio lavoro. Certo, può far pensare anche a una escort. Ma pazienza. 

Il caffè nel frattempo si è freddato e Lola ci guarda nell’impazienza di avere Caterina tutta per sè… mentre noi ne prepariamo un altro e coccoliamo la cagnolina, voi, se non lo avete ancora fatto, leggete “Tutte le donne di”: cosa aspettate?

 

Chiacchierando con… Caterina Bonvicini