C’è un’intima soddisfazione nel riporre i libri letti nello scaffale della propria libreria. Un gesto che suggella il riconoscimento dell’appartenenza: sei mio e sarai sempre con me, fisicamente e interiormente. Un rito che suggella un rapporto sentimentale:

Un rito è un segnale di riconoscimento reciproco

Eppure Chirù di Michela Murgia (Einaudi), da cui è presa la precedente citazione, è un romanzo che si fa fatica a lasciar andare, seppure ben custodito nello scaffale della libreria, e si sente la necessità, struggente e violenta, di tenerlo sempre a portata di mano, per specchiarsi nelle righe sottolineate, nelle frecce a margine, nelle pagine senza segni, e ritrovarsi e riconoscersi uguale e diversa a se stessa.

Una storia-specchio, appunto, in cui i personaggi sono ritratti attraverso i gesti, le sensazioni, i sentimenti, le reazioni e in cui ciascuno può ritrovare una parte intima di sé. Una storia in cui le vicende, seppure avvolgenti nella loro spirale narrativa che porta a un epilogo non scontato e nello stesso tempo preparato e coerente alle premesse esistenziali dei personaggi, sono raccontate attraverso una costante introspezione che trascende i personaggi stessi per diventare visione del cuore umano e delle relazioni di potere tra persone.

Chirù sceglie come maestra, di vita, Eleonora, un’attrice fascinosa che ha già avuto altre relazioni simili con giovani fanciulli alla ricerca di diventare uomini. Chirù è il meno giovane, e questo è un motivo di iniziale imbarazzo e perplessità per Eleonora. L’attrazione tra i due è palpabile, viscerale, olfattiva: Eleonora ha da subito riconosciuto nel giovane un sentore di cose marcite, che ero lo stesso suo.

La cosa che il sardo sa dire meglio non è l’amore. È la nostalgia.

Chirù è infatti il racconto sulla nostalgia dell’amore, sulla perdita delle verginità, sul potere violento dei sentimenti, sulle relazioni e sul rapporto tra discente e docente:

un ragazzo come quello nella vita poteva brillare, mi disse serio, solo se sostenuto con passione. A me invece pareva adesso che a brillare fosse lui. Era bello guardarlo nei suoi gesti lenti, nell’occhiata che di quando in quando lanciava oltre il vetro, al suo allievo.

E sul riconoscimento, basato non solo sul sentimento, sulla fascinazione, ma anche sulla comune solitudine. Sembra quasi che è proprio la solitudine ad affascinare Eleonora e a rendersi calamita irresistibile delle relazioni con gli altri, in particolare con gli uomini. Forse perché Eleonora fin da bambina ha imparato a farsi felice da sola, a differenza del resto della sua famiglia. Sarà proprio Chirù, nell’apparente fragile ingenuità del suo apprendistato, con un sottile e perverso gioco di potere a travolgere Eleonora nella solitudine, che fino a quel momento per lei era stata “un’autarchia” del cuore.

Ero stata una bambina allegra, soggetta solo a malumori di circostanza. A differenza di tutta la mia famiglia, a otto anni sapevo farmi felice da sola e a trentotto difendevo tutti i giorni il diritto di riavere quell’autarchia del cuore senza essere costretta a chiamarla solitudine. Ero stata capace di mandare in pezzi rapporti consolidati per dimostrare a me stessa che non avevo bisogno di nessuno per sentirmi intera. Eppure, se c’è stato un momento nella vita in cui ho consegnato la mia felicità in mano a qualcun altro in modo assoluto, irresponsabile e perfetto, è stato in quella vigilia di Natale, nell’istante in cui quel ragazzo di diciotto anni mi ha guardata negli occhi prima di mettersi a piangere di gioia davanti a una boccetta di olio essenziale di lavanda.

La bellezza (s)travolgente di Chirù è nello sguardo di Michela Murgia che è di cristallina profondità, viscerale e denudante, e nella scrittura nitida e sublime. La straordinaria capacità, che ritorna dopo Accabadora con maggiore consapevolezza, di saper raccontare l’intimità e l’essenza delle cose con parole esatte, che nella loro esattezza non perdono in ricchezza e vivacità. Un lessico essenziale, senza ridondanze, in equilibrio perfetto con la misura del racconto. Dialoghi tra anime che si incontrano e scontrano, che si riconoscono per disconoscersi. Quella di Michela Murgia è una scrittura universale, di chi non possiede solo la stoffa, ma anche quel qualcosa di più che vela, svela e rivela:

E come si fa a farlo senza che sembri finto?

Non lo so, Chirù. Finendo per somigliare a quello che si finge di essere, penso. Stando attenti che la stoffa sia tagliata bene.

Starò attento, allora. Mi taglierò solo dove serve.

Sorrisi anch’io e ripresi a camminare verso il porto, scintillante di vento e sole come un cristallo umido. Glielo avrei detto un’altra volta, che a decidere i tagli non è la stoffa.

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