Io credevo che ci saremmo dati appuntamento a Sant’Anna di Stazzema, in cui è ambientato il romanzo “Cuore inquieto” (Edizioni Forme Libere) che me lo ha fatto conoscere, e invece Claudio Vergati mi spiazza con questo invito:

– Nel comune in cui vivo (Frascati) c’è il parco archeologico del Tuscolo. In cima ad un monte, con vista su tutte le valli circostanti, spuntano ruderi romani tra i quali spicca un antico teatro. Ecco, direi che la nostra chiacchierata è avvenuta là, seduti su quei gradoni, in una fresca (ma non fredda), limpida mattinata d’autunno.

E allora immaginateci lì, dove Claudio vuole!

Parto con la prima domanda…

Cominciamo dall’esergo, per il quale ho una passione patologica.

Una citazione da Sofocle: Dolcissima è la vita nella completa assenza di senno.

Mi sembra che sia questo il punto di partenza della tua storia: il motivo della pazzia. Uno dei temi più felici e originali di “Cuore inquieto”. L’assenza di senno come rifugio dinnanzi alle brutture della guerra; ordine nel caos; isola felice in mezzo alla catastrofe della seconda guerra mondiale, nel momento più complesso e difficile che è quello dell’occupazione nazista. L’Ospedale, come lo chiamano nel paese da cui è fuggito Corrado dopo un rastrellamento tedesco, è il male. Eppure la guerra si ferma dinnanzi ai suoi cancelli. Capovolgimento, ma anche spiazzamento ardito tra la pazzia patologica e quella della situazione politica in Italia in quel momento.

C’è questo confronto serrato tra diverse pazzie? o il tema proviene da altro?

Corretto, Giuditta.

Tutto parte dal confronto tra la pazzia istituzionalizzata dei manicomi (come poteva esserlo negli anni ’30) e la pazzia incondizionata e insensata della guerra (nella sua forma più bieca di strage immotivata di vecchi, donne e bambini). Di fronte all’orrore della strage di Sant’Anna di Stazzema i riferimenti del giovane tredicenne protagonista della storia si azzerano. L’Ospedale, che per i paesani era considerato il male perché abitato da persone “diverse”, per Corrado diventa un’ancora di salvezza. Una nuova famiglia che, per quanto strana e surreale, è comunque meglio del mondo reale che lo circonda e che non riesce più a decifrare. Se vuoi, poi, c’è anche una riflessione sul fatto che nelle situazioni tragiche l’aiuto può arrivare nella maniera più inaspettata e dalle persone più insospettabili, come sono appunto un gruppo di matti che, lasciati abbandonati a loro stessi, hanno saputo ricostituire una micro società efficiente e autosufficiente. Per questo mi sono basato sugli studi sull’ergoterapia (o terapia del lavoro) che, fin dal 18° secolo, utilizza il lavoro manuale per riabilitare i pazienti degli ospedali o dei manicomi affetti da determinate patologie fisiche o psichiche.

E nel tuo romanzo lasci traccia di questa attenzione documentaria, interrompendo la narrazione con dei documenti, definiamoli “ufficiali”, riguardo gli ospiti dell’Ospedale. Schede specialistiche che presentano i personaggi nella loro patologia e che mettono ancora più in evidenza l’insensatezza di certe pratiche curative. In questo modo l’andamento di “Cuore inquieto” procede a singhiozzo. Qual è la valenza dei referti all’interno della tua narrazione?

   

La prendo alla lontana. Io adoro scrivere libri strutturati in maniera complessa (deve essere un retaggio della mia laurea in ingegneria). I miei primi due romanzi, “In Memoria di Me” e “L’Ingannevole Apparenza Delle Cose“, sono ricchi di sottotrame, raccontati da molteplici punti di vista e da diverse voci narranti e pieni di flashback. Un giorno Giulio Mozzi, consulente per la Marsilio, a cui mando i miei manoscritti in lettura e che ha la pazienza e la cortesia di commentarli, mi disse che avrei dovuto provare a scrivere qualcosa di più semplice, di lineare. Per me è necessario che un romanzo sia divertente non solo da leggere, ma anche da scrivere. Per cui affrontai la questione seriamente e mi chiesi quale fosse la struttura più semplice e lineare per raccontare una storia. Naturalmente la risposta è una struttura diretta, continua, senza interruzione, senza divisione in capitoli, che fosse, per dirla in termini cinematografici, come un unico piano sequenza. Quando mi accinsi a raccontare i sei giorni passati da Corrado nell’Ospedale mi accorsi che dare un ritmo a una struttura del genere è difficilissimo perché non si può chiudere un paragrafo ricominciando con “Il giorno dopo…”. Avevo bisogno di dare respiro ai miei personaggi e al lettore. Per farlo ho usato due “trucchi”. Uno è la narcolessia del protagonista, che mi consente di accelerare lo scorrere del tempo per il lettore. L’altro stratagemma sono appunto le cartelle cliniche dei malati dell’Ospedale che sopperiscono alla mancanza della divisione in capitoli. Studiando le cartelle cliniche risalenti alla prima guerra mondiale (che essendo trascorsi i termini di legge sono diventati documenti pubblici) mi sono reso conto che si trattava di veri e propri faldoni in cui, oltre alle cartelle mediche vere e proprie, erano conservate le lettere dei malati, le relazioni delle autorità di polizia, i verbali di arresto. Allora le ho utilizzate per raccontare un po’ della storia passata dei malati dell’Ospedale inserendo anche un piccolo gioco con il lettore. Infatti ci sono tante cartelle cliniche quanti sono i pazzi (meno uno) ma non è indicata l’associazione tra il malato e la sua cartella in maniera tale che il lettore deve ricavare da solo questa informazione traendone il vantaggio di conoscere il background di quel particolare personaggio e le motivazioni più o meno evidenti che lo hanno portato ad essere rinchiuso in manicomio.

Ingegnoso, mi viene da dire… (non a caso sei un ingegnere!)

Per Corrado, il protagonista di “Cuore inquieto”, l’accostamento a Pin dei “Sentieri di nido di ragno” è scontato. C’era nei tuoi orizzonti il modello calviniano? Perché mi sembra che uno degli aspetti più interessanti del romanzo sia proprio la variazione e l’innovazione del romanzo novecentesco. Quasi a mostrare una nuova prospettiva: cosa sarebbe successo se Pin invece di trovare “rifugio” tra i partigiani, si fosse inserito in una comunità di pazzi? Questo è Corrado.

(Ad una mia alunna ho dato da leggere il tuo romanzo, indicandole una possibile trilogia: Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, Evelina e le fate di Simona Baldelli e il tuo. Resti come possibile traccia per i lettori che ci stanno accompagnando in questa chiacchierata).

(foto presa dal blog di Federico Novaro)

Grazie per l’accostamento a Calvino, che è un autore che amo molto. Considera che “Se una notte d’inverno un viaggiatore” è nella decina di quelli che io definisco “libri leggendo i quali capisci quanto sei distante dal diventare un bravo scrittore”. Inoltre in una delle cartelle cliniche di cui parlavamo prima (ma non dirò quale) c’è la citazione di uno dei racconti di “Ultimo viene il corvo”. Da adolescente divoratore di romanzi di fantascienza sono stato sempre affascinato dalle ucronie, cioè le storie alternative. Spesso in quello che scrivo si parte da un fatto reale (per Cuore Inquieto è la strage di Sant’Anna di Stazzema) e poi ci si domanda come sarebbe andata la vicenda se…Trovo un sottile piacere nel “riempire” i buchi lasciato dai cronisti storici (anche per realtà vicine ai nostri tempi) con le mie interpretazioni dei fatti. L’aggancio alla realtà della Storia con la maiuscola (con tutta la fatica documentale che comporta) mi aiuta a dare credibilità alla parte inventata della storia con la minuscola.

La strage di Sant’Anna di Stazzema. Un altro elemento su cui vale soffermarsi. La Storia nel tuo romanzo irrompe con tragicità nella vita personale e nei destini singoli. In questo “Cuore inquieto” mi sembra che sia un romanzo storico molto particolare. Uno sguardo accurato e preciso, su eventi di portata minima nel quadro generale della Seconda Guerra Mondiale con le sue indicibili efferatezze, dal genocidio degli ebrei alla bomba atomica, ma che invece hanno una portata devastante sulla piccola comunità e sulle vite degli uomini nella loro individualità.

Mi è sembrato che dietro questa attenzione ai margini delle vicende storiche, ai dettagli minimi di una guerra crudele, alla scelta di scenari “secondari” ci fosse un disegno chiaro e consapevole. Il tuo romanzo pur potendosi ben inserire nella letteratura resistenziale, perché nell’Ospedale si propone e si fa resistenza, anche con azioni dimostrative e con missioni pericolose, non ha come protagonisti i partigiani (se non in scene marginali), né inserisce i personaggi nel flusso della Storia, ma li lascia con profonda empatia nella marginalità del loro alveo. (Devo confessarti che io avrei tagliato le ultime due-tre pagine, e avrei lasciato che il romanzo si concludesse con la scena dei saluti, così perfetta umana piena).

In che rapporto si pone “Cuore inquieto” con la Storia? Da che parte sta? Alla maniera di Manzoni con gli umili e i vinti? In quella di Primo Levi dei sommersi e dei salvati? Oppure hai tentato coscientemente una via alternativa, tutta tua?

La strage di Sant’Anna è la seconda per numero di vittime (dopo Marzabotto) avvenuta nella seconda guerra mondiale in Italia. Ma paradossalmente è poco conosciuta. E lo è perché Sant’Anna di Stazzema ancora oggi è un paese sperduto in un bosco difficile da raggiungere anche con i moderni GPS. E all’epoca non c’era neanche la strada asfaltata ma si usava una mulattiera per salire al paese. Tutto questo rende ancora più assurda e atroce la strage in cui, è bene ricordarlo, morirono donne, vecchi e bambini (perché gli uomini, avvisati dell’arrivo dei tedeschi erano fuggiti temendo un rastrellamento). Il mio non è un romanzo resistenziale. Non elogia la lotta partigiana. Anzi, da parte degli abitanti dell’Ospedale, i partigiani vengono vissuti come un’imposizione, persone disperate come loro con le quali era necessario dividersi il poco disponibile per mangiare e sopravvivere. Nei miei romanzi raramente ci sono buoni e cattivi assoluti. Ognuno porta dentro di sé valori positivi e negativi. In Cuore Inquieto non sono buoni (ovviamente) i nazisti. Ma per quanto riguarda i malati dell’Ospedale (o della Colonia, come la chiamano loro) non sono alleati neanche i partigiani, né gli anglo americani, né gli abitanti del villaggio. Per loro, diversi da tutti, l’unica via di fuga è scomparire agli occhi del mondo. In Cuore Inquieto la Storia (quella della seconda guerra mondiale) è solo un pretesto per raccontare la storia (con la minuscola) di un piccolo gruppo di disperati, come potrebbe esserlo oggi una qualsiasi comunità di persone “diverse” secondo la sensibilità culturale attuale.

Con minimi intendevo proprio quello che tu sottolinei con grande acribia: una strage che mostra l’insensatezza di ogni guerra, senza nessuna strategia militare e senza la possibilità di modificare il quadro complessivo della guerra. Crudeltà e violenza, null’altro.

Tu mostri questo aspetto con grande partecipazione calando il racconto dal punto di vista di Corrado, personalmente e affettivamente implicato nella strage.

Ultima domanda: per chi hai scritto “Cuore inquieto”? C’è un lettore particolare a cui pensavi? O un lettore ideale nelle cui mani lo affidi?

E ancora, il cuore inquieto del titolo è una caratteristica di alcuni personaggi, di uno solo, oppure è una metafora universale?

Che peccato. Già l’ultima domanda. Noi scrittori parleremmo per ore dei nostri libri, specie quando le domande sono attente e circostanziate come in questo caso. Rispetto al titolo: il cuore inquieto è quello di Corrado, che si trova a vivere una situazione estrema che lo costringerà a diventare adulto in brevissimo tempo. Ma il cuore inquieto è anche quello dei malati della Colonia, ultimi tra gli ultimi, costretti a sopravvivere, abbandonati da tutti, in un ambiente ostile. Infine, il cuore inquieto è quello del lettore, a cui chiedo lo sforzo di ritornare ad un periodo della nostra Storia che forse si preferirebbe dimenticare. E proprio il discorso della memoria mi porta al lettore ideale. C’è un’intervista ad uno dei sopravvissuti della strage di Sant’Anna a cui il giornalista chiede se, dopo tanto tempo, ha ancora senso cercare un colpevole oppure se è meglio dimenticare e perdonare. L’anziano guarda il cronista per qualche secondo e poi gli risponde che per assolvere qualcuno lui ha bisogno di sapere chi perdonare e quindi vuole conoscere i responsabili dell’eccidio. Mi pare una risposta perfetta. Perdonare è possibile, ma ricordare per imparare dagli sbagli propri e altrui è un dovere morale, uno dei pochi insegnamenti che insisto a trasmettere ai miei figli. Nel mio piccolo, in un’epoca in cui le troppe informazioni rischiano di cancellarci la memoria, ho voluto raccontare questa storia perché non venga dimenticata.

Anche io, Claudio, continuerei ad oltranza con le domande e “Cuore inquieto” si presterebbe a tanti altri spunti di riflessione.

Lascio ai lettori, che mi auguro numerosi, il piacere di ritrovare nel libro le suggestioni condivise e quelle rimaste inespresse.

Chiacchierando con… Claudio Vergati