A Kalamet, di arabo era rimasto anche il nome. Situata all’estremità occidentale della nazione e al centro del mediterraneo, tra Gibilterra e Cipro, pure il fascismo si era dimenticato di cambiarlo. L’ipotesi più verosimile è che volesse dire Il porto delle parole perché era uno scalo, un mercato, un luogo abitato dalle voci.

È un’emozione grande come lettrice tornare al primo romanzo di Fabio Stassi: Fumisteria (ripubblicato da Sellerio, 2015). Non un semplice ritorno al passato, perché l’edizione Sellerio è corredata e impreziosita da un’appendice, intitolata “I muli della vergogna” che è una conferenza tenuta a Viterbo il 21 febbraio 2015 in occasione del convegno “Portella della Ginestra, un processo in mostra” che racconta tra le righe cosa è ancora oggi per lui quel primo romanzo.

Immaginateci passeggiare insieme per Kalamet, lungo il reticolo di strade che calavano a mare, l’intreccio di scale, camminamenti, varchi, e ogni tanto fermarci, posare lo sguardo e chiacchierare dei temi che riaffiorano nei suoi libri.

Leggere “Fumisteria” dopo “Come un respiro interrotto” è un ritorno anche per i lettori appassionati come me, che hanno zigzagato in tutti i tuoi libri. Perché mi sembra che tra il primo e l’ultimo romanzo in ordine di tempo ci sia una continuità molto forte, tale che gli altri tre che stanno nel mezzo (mi riferisco esclusivamente alla tua opera “romanzesca” e non a quella saggistica o varia) possano essere considerati al momento una parentesi tale che in una nostra chiacchierata tu li intendevi come una sorta di trilogia: È finito il nostro carnevale, La rivincita di Capablanca, L’ultimo ballo di Charlot.

A disegnare il ritorno, la Sicilia: da lì sei partito con Fumisteria e lì ritorni con Come un respiro interrotto, che è ambientato tra Roma e Palermo.

Cosa speri che sia Fumisteria oggi per quanti come me non lessero il romanzo nel 2006 e lo leggono con un’immagine più nitida e dettagliata di Stassi scrittore rispetto ai lettori di allora?

Fabio stassiCara Giuditta, è una gioia anche per me riprendere la nostra conversazione. Come un discorso ininterrotto che parte dai libri e li travalica sempre. Mi accorgo sempre di più quanto tutte le pagine che ho scritto siano legate tra loro. Ma forse è sempre così: si scrive un solo libro, una parte per volta, una frase per volta. La cosa curiosa è che ciò che si è scritto prima acquista senso quasi per ultimo e si chiarisce grazie a quello che viene dopo. Uno strano fenomeno di messa a fuoco a ritroso.

“Fumisteria” è stata la prima storia che ho pubblicato. Averla riletta adesso, e ricorretto le bozze, a distanza di anni e di tutto quello che in questi anni mi è accaduto, è stato come tornare in una casa di quelle dove si andava d’estate, in vacanza, e che non veniva più aperta da molto tempo, entrarci e spalancare le finestre e improvvisamente riconoscere che gli oggetti che la arredavano sono gli stessi che abbiamo ancora con noi. E’ stato per questo che non ho voluto ristrutturarla, modificarne gli spazi, passarci un nuovo strato di vernice. Al contrario mi è parsa più vera adesso, con i suoi muri visibilmente un poco scrostati, e l’impianto che ha sempre avuto, senza trucchi. Con la sua memoria trattenuta di certe stagioni andate, ma necessarie. E questa casa per me non poteva che essere in Sicilia.

Non potevo sapere, quando scrivevo quel romanzo, che stavo dando a un balbuziente la mia prima voce pubblica, e che questo avrebbe avuto una forte conseguenza letteraria. Non potevo sapere che altri uomini e altre donne pieni di mancanze sarebbero seguiti. Che, come in una partita a scacchi, avevo appena scelto di condurre il gioco della narrazione secondo uno schema binario che sarebbe ritornato. E infine che nella morte, o nell’agonia, di un animale – in questo caso dei muli di Portella – avrei cercato sempre una metafora durevole per rappresentare il destino e la natura dei miei personaggi. Ecco perché piuttosto che manipolare il romanzo con quel poco di tecnica in più che ho appreso attraverso gli altri libri ho preferito aggiungere questa piccola conferenza sui muli della vergogna. Per non perdere la bella occasione che Antonio Sellerio mi ha offerto, ripubblicando Fumisteria, di fermarmi a riflettere su quanto ho fatto sinora, cercando di capire e di annodare insieme alcuni fili. Ma questo lo si può fare soltanto attraverso i lettori. Un lettore è sempre uno specchio e una chiave. Mi auguro che per loro sopravviva il piacere del racconto; per me, tante osservazioni ricevute, tanti giudizi, annotazioni, sottolineature, sono stati decisivi per unire i punti della mappa che vado disegnando da tanto tempo e che ancora non so cosa mostrerà, alla fine.

Leggerti è sempre una cosa stupenda che ha del miracoloso. Sei sempre perfettamente riconoscibile per il lettore affezionato, ma nello stesso tempo riesci a sorprenderlo. Come le due cose stiano insieme e in equilibrio è il miracoloso.

Fumisteria, seppure in maniera del tutto originale, si inserisce nel filone della letteratura di genere, il giallo. Non rispetta però nessun cliché del genere, se non l’attenzione per la società, che però tu innesti in una tradizione più tipicamente letteraria e siciliana. Mi sembra che, in questo primo, tu sia più legato o più visibilmente legato alla tradizione letteraria siciliana. Forse un affinamento che verrà nei libri successivi è il nascondere i tuoi modelli letterari?

Nella tua produzione il genere è completamente abbandonato, anche se il mistero con lo svelamento finale rimane tra le pieghe del tuo ritmo narrativo.

Mi sembra che non ti sia trovato a tuo agio in un giallo classico, sbaglio? O forse non hai mai voluto scrivere un giallo?

Fabio stassiGiuditta, sì, questa è una domanda che continuo a ripetermi. Ho appena terminato di scrivere una storia che come Fumisteria mi ha costretto di nuovo, a distanza di anni, a confrontarmi con questo tema. E’ vero, non mi trovo a mio agio con le divisioni e i generi, amo i romanzi che li saltano e li riassumono, ma credo che bisogna misurarsi con umiltà con ogni forma narrativa e con le sue regole, e cercare di imparare. Nel mio continuo apprendistato, Sciascia, Durrenmatt e Chandler sono stati e sono ancora delle stelle polari, soprattutto per il taglio della scrittura prima che per la costruzione. Mi hanno insegnato l’importanza della chiusa. Un po’ come nel gioco degli scacchi. Prima di sederti e iniziare ad affrontare una partita, devi conoscere le mosse finali. Pensa che in Russia ai bambini insegnano gli scacchi a partire dalla fine, dal re solitario a cui bisogna dare scacco matto. Poi mi piacciono le storie che contengono una certa dose di ambiguità: sembrano dire una cosa, ma possono indicarne anche un’altra; sono un apologo della finzione, eppure cercano il vero. Per me, l’indagine più avvincente è quella sull’infelicità di un personaggio, sul perché del suo disamore o della sua disperazione. Il primo romanzo che scrissi lo avevo intitolato L’istruttoria del giudice Savonà. Scrivere è sempre aprire un’istruttoria, un fascicolo. E chiusa, ambiguità e mistero del personaggio sono i primi elementi che mi vengono in mente, pensando a cosa diamo il nome di giallo. Con Fumisteria volevo simulare una commedia gialla all’italiana. Adoperare alcuni cliché o funzioni ricorrenti: la femmina fatale, i baffi di Mastroianni, l’isola dello scirocco, il delitto d’onore. Per dimostrare come tutto questo non sia che un velo di nebbia e di fumo buono solo per coprire altre e ben più gravi manipolazioni e ingiustizie. È il fondo dell’ingiustizia che non si riesce mai a toccare, la terra smossa dall’aratro. Le storie sono lì sotto. Forse raccontare è solo quella voglia, quel desiderio, di smuovere la terra.

Non potevi di certo immaginare che oggi quel fumo di Fumisteria suoni anche come omaggio a un siciliano, considerato il maestro del giallo: Camilleri! Ci hai pensato al momento della pubblicazione?

Fabio stassiOgni libro, Giuditta, è un omaggio al lavoro di quelli che ti hanno preceduto. La letteratura, soprattutto quella siciliana, fa parte di un discorso comune. I siciliani non credono nella Storia perché sanno che la storia la scrivono i potenti e gli eserciti invasori. Gli scrittori non possono che tentare di edificare una controstoria, e in Sicilia da un secolo e mezzo i libri più importanti sono stati i capitoli di un unico romanzo più grande, una inesausta riflessione su come sono andate le cose. E’ così dalla novella La libertà di Verga. Poi sono venuti I viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello, Rubè di Borgese, Il Bell’Antonio di Brancati e il Gattopardo di Tomasi, Horcynus Orca di D’Arrigo e Il quarantotto e Il giudizio d’Egitto di Sciascia, il Sorriso dell’ignoto marinaio di Consolo e Le menzogne della notte di Bufalino, fino ai romanzi storici di Andrea Camilleri, che ha ereditato questa tradizione. Messi tutti in fila, questi titoli, sono uno straordinario manuale di storia italiana dal Risorgimento a oggi. Sollevano infinite questioni e parafrasando quello che diceva Cortazar per la letteratura sudamericana, mi piacerebbe dire che da noi la letteratura siciliana è la domanda più formidabile di cui si abbia memoria.

Un narratore balbuziente che scrive perché, mentre scrive, nessuno lo interrompe o si mette a ridere. Sembra che ci sia una discrepanza tra l’esigenza della scrittura e il significato quasi “salvifico” che ha all’inizio, almeno personalmente per il narratore, e il senso che le viene affidato alla fine.

Le storie non sono come un aratro e non appartengono ai contadini.

Da Fumisteria a Come un respiro interrotto, cos’è la scrittura per Fabio Stassi? è ancora d’accordo, o lo è mai stato, con il narratore balbuziente di Fumisteria che le storie sono così:

Levano solo la terra che c’è sopra; quasi mai toccano quello che nasconde.

Perché a me sembra invece che i tuoi personaggi si avvicino sempre molto a scoprire quel seme nascosto nella terra dell’esistenza e che lo facciano proprio in virtù delle storie che raccontano, in prima o per interposta persona.

Fabio stassiSì, Giuditta, da Fumisteria in poi, di terra ne ho smossa tanta, cercando di affondare sempre di più le mani. La scrittura è un po’ questo, la terra che ti entra sotto le unghie, nel tentativo di riportare alla luce una scheggia di verità o il reperto di un ricordo che si era dimenticato, o che forse avevamo soltanto inventato, non importa. A tratti, in Come un respiro, lo scavo emotivo è stato così intollerabile che quel romanzo mi aveva lasciato quasi senza fiato per molti mesi. Il fatto è che, per quanto si possa scavare, non mi ha ancora abbandonato l’impressione che le storie sfuggano sempre, e non si riescano quasi mai a toccare, come sosteneva il mio primo narratore. Anche se ora so che tra la sua balbuzie e la voce di Soledad, che è venuta dopo, c’è lo stesso filo e che forse è verso quella parola muta e segreta o pronunciata a fatica che mi sono sempre mosso, per quanto lentamente. Verso quell’aspirazione al canto, nonostante tutto. Verso quella reticenza e quel centro nodoso dell’esistenza.

C’è una frase che Foscolo scrive dal suo esilio a Londra e che porto con me da quando ero ragazzo. In una lettera, Foscolo diceva di “sentirsi più disingannato che rinsavito”. Ecco, ho sempre amato questa definizione, e mi sembra di capirla ancora meglio adesso. Per questo continuo a cercare di tirare fuori quello che posso. E anche se so che lo dovrei fare con maggiore distanza, che un certo distacco aiuta e perfeziona qualsiasi racconto, non ho smesso di preferire il tatto alla vista e di inseguire una narrazione che sia un affare di mani prima che di testa. Qualcosa che somigli a un’opera dei pupi. Le storie sono ancora il mio contrabbando. Come le parole. Prima di quel personaggio balbuziente, c’era stato solo un puparo che non sapeva leggere e per cui le parole avevano la mobilità di una marionetta, un’ossatura invisibile di legno e di fil di ferro, come se fossero sostenute anche loro da chiodi e cordicelle. Per lui vi erano parole che si potevano appendere a una bacchetta e altre che sembravano arabeschi su uno scudo, alcune lucide e altre da lucidare, parole di rame e di acciaio, di noce, di faggio, parole di stoffa e di piume verdi, parole a mezzaluna e a pinna di martello, parole disarmate e parole per parare i colpi, per inginocchiarsi o per tremare di rabbia, parole di pelle d’asina e parole traforate, parole impazienti e parole nascoste dietro una visiera o chiuse in una conchiglia, parole che si spaccavano orizzontalmente e lasciavano uscire un liquido rosso…

Adesso, però, hai acceso la mia curiosità di sapere come e dove anche noi lettori possiamo incontrare il tuo puparo.

Quel puparo lo chiamavano Lo Spagnolo. Anche se non sapeva leggere amava i libri, parlava una lingua mista, simile a quella di Nonna Lupe in Come un respiro, e raccontava una strana favola su Dio e le tartarughe. Spero di potertelo fare incontrare presto. Mi piacerebbe mettere questo testo in scena con un vero puparo e delle vere marionette e ci stiamo lavorando.

Rocco ed Ester e la loro guerra.

E sentì che, in qualche modo, la guerra di Rocco poteva, forse doveva, essere anche la sua…

Non voglio svelare nulla della storia che riguarda i due personaggi, ma solo parlare con te delle loro esistenze e delle loro scelte personali. La fine di Rocco tu la sveli subito al lettore:

Rocco fu ucciso che beveva dalla fontana di via Verdi.

Ma Ester, che fine fa Ester?

Fabio stassiAnche l’amore di Rocco ed Ester è un sentimento balbuziente. Non trova mai la propria voce, se non una volta sola, in una sacrestia. Ma si nutre della sua incompiutezza. E’ un amore che appartiene al territorio del possibile e non a quello del reale. E’ letterario soprattutto in questo. Ha una natura inconsistente, occupa il lato delle visioni, delle insicurezze, delle parole non dette, è impaccio e dubbio di non essere corrisposti, ma anche desiderio esclusivo e incondizionato. Un amore così si può vivere soltanto nella propria fantasia. Se genera una guerra è una guerra civile all’interno di ciascuno di loro, la guerra tra la voglia di rivelarsi e quella di restare segreti. Una sofferenza acuta, una difficoltà invalicabile, un’impossibilità di esprimersi, che riproduce appunto quella del narratore.

L’unica pace è fuori da sé stessi. Nella lotta contro le ingiustizie della società. Quasi un risarcimento di fronte alla propria infelicità. Rocco sopporta per sé questo destino, questa consegna alla solitudine, ma non tollera altre iniquità, e il mondo che lo circonda ne è pieno. La sua morale è semplice, quasi infantile.

Mostrare in prima pagina il suo corpo riverso sulla fontana di via Verdi, partendo così dalla fine della sua storia, non è stata una scelta. Anche se può sembrare strano, quella scena l’ho vista. Una mattina ero andato a comprare il pane a un forno di via Verdi, a Kalamet (il nome è inventato, ma il paese esiste). Era mattina presto. Nessuno per le strade, l’aria ancora indistinta. Dalla fontana scorreva l’acqua, come sempre. Ho guardato in quella direzione, e mi è parso di vedere un uomo, steso per terra. Di riconoscere la sua schiena. Di capire che lo avevano ucciso. E’ stato un inganno della luce mattinale, ma ti assicuro che sono tornato a casa con quell’immagine negli occhi. Mi sono sempre fidato di queste visioni: so che sono solo una specie di abbaglio, ma in fondo il romanzo non è che un errore ottico. Così, quella mattina stessa, ho saputo subito che avevo incontrato l’inizio di una storia.

Ester non lo so, dov’è andata. Al nord, credo. So che ha continuato a vivere, con lo spirito di Rocco. Ma credo che almeno una volta sia tornata.

Kalamet è vera, più ancora che reale. Vera e reale è invece la strage di Portella della Ginestra, che è l’ispirazione potente della narrazione. Volutamente non ti faccio domande in proposito, perché il lettore possa godersi l’appendice in calce al romanzo, che è straordinaria.

E l’avvocato Licata? Chiuso nel suo silenzio ostinato. In che rapporto sta il suo silenzio con il balbettare del narratore? Arriverà mai ad immaginare la verità o non vuole saperla, la verità, e si accontenta di quella che gli appare come tale, senza indagare oltre?

Fabio stassiSì, Kalamet è vera più ancora che reale. E di Portella ti dico soltanto che ci sono passato quest’estate, a mezzanotte, di ritorno da una cena a Piana degli albanesi. Ho spento il motore, e sono sceso. Le pietre erano illuminate dalla luna. E anche il monte Kumeta. Sembrava un luogo di dolmen millenari, un ossario, una necropoli. Il silenzio che lo avvolgeva mi ha sconcertato. Poi ho pensato che un po’ lo è, un santuario. E mi è parso di trovarmi al centro di un’area archeologica della nostra memoria. Immerso nella luce chimica di una fotografia che non possiamo ancora archiviare. Tutto il resto, come mi fu raccontata quella giornata dai miei antenati, l’ho scritto nell’appendice.

In fondo, pure l’ostinato silenzio dell’avvocato Licata fa parte di questo pendolo continuo tra la necessità di trovare una voce e il rischio di perderla per sempre, che sono i poli tra i quali si muovono tutti i personaggi di Fumisteria, anche se ognuno a suo modo e ognuno per motivi diversi. Mi pare adesso che tutto il libro nasca da questa tensione e riproduca il nostro muoverci tra il silenzio di una Storia nazionale lacunosa e falsata e lo stesso desiderio di giustizia che provava Rocco. L’avvocato Licata, per il suo stesso mestiere, è la quintessenza della voce e del suo potere. È colui che parla, manipola, convince, persuade, incita, suggerisce, consiglia, induce e alla fine difende il privilegio dei latifondisti siciliani nel dopoguerra e su questa difesa, sulla parlantina di cui è capace, sulla sua disinvoltura a corrompere e a essere corrotto, costruisce tutta la sua fortuna.

C’è una certa spietata coerenza nel fatto che sarà proprio una diceria, un pettegolezzo messo in circolo inavvertitamente proprio da lui stesso, a distruggere la sua vita. Eppure la sua autocondanna al mutismo, non sappiamo se consapevole o no, non fa parte di un processo di espiazione. Il silenzio, per lui, non è un deserto da attraversare per ridiscutere il suo passato. È solo l’effetto di una sorpresa. L’avvocato non riesce a capire perché a tradirlo è stata proprio la lingua, la grande e unica divinità della sua esistenza.

Il suo silenzio è una domanda inesplosa sulle labbra. Perché? Com’è possibile? si chiede. Quello che salva i mediocri, ma li smarrisce, è che non possono rendersi conto della loro mediocrità. Alla fine, l’avvocato Licata è solo un piccolo uomo ossessionato dall’igiene a cui tocca il contrappasso di una cella sporca e promiscua e la logorrea notturna di un contrabbandiere incapace di pronunciare una sola parola fino all’ultima sillaba. La sua balbuzie è forse d’altro genere: affettiva o sessuale, come malignavano in paese. Il matrimonio con Ester aveva dato solo l’impressione di rimettere le cose a posto. Ma questo almeno ce lo rende un poco più umano. No, non arriverà mai a intuire la verità. Gli difetta l’immaginazione. Non ne ha che per sé e per le sue sventure. L’esito della sua vicenda è l’estremo ribaltamento della realtà, una mistificazione che dopo di lui dalle nostre parti si perfezionerà a dismisura: l’ingannatore che si fa vittima. Ma in un breve giro di anni, anche l’avvocato riprenderà il suo ruolo e i suoi privilegi tra i notabili del villaggio, rientrando nel consueto e meschino gioco di maldicenze e finzioni.

Come diceva il mio bisnonno, esistono due tipi di muli, diversi nella dignità e nella soma: quelli che portano la frutta e festeggiano la vita, caricando su di sé tutti i pesi e le fatiche quotidiane, e quelli che portano i fucili e la morte, sotto le coperte, e si mettono al servizio dei potenti di turno. Mi è sempre più chiaro, come ti dicevo all’inizio, che alle similitudini con gli animali ho quasi sempre affidato il senso delle storie che ho scritto. Un mio fraterno amico una volta mi ha detto che ho una visione agonizzante della natura. E forse è vero. In Come un respiro c’era una cicala prigioniera nella scanalatura del neon di un sottopasso della stazione Termini dove transita Soledad che non smette di cantare, anche se la sua voce è destinata a spegnersi. In La rivincita di Capablanca, un ragno tenta di uscire dalla vasca del bagno in cui è caduto, scivolando ogni volta all’indietro. In un lungo racconto sul lavoro avevo descritto invece dei tonni spiaggiati che si dibattevano sulla riva e Nell’Ultimo ballo di Charlot Arléquin disegnava un cavallo con le zampe che scalpitavano e si impennavano verso l’alto, e poi finivano, incompiute e lasciate a metà. E infine, in un sogno, ancora Soledad vede una tartaruga sottosopra, riversa sul dorso, che tenta inutilmente di rigirarsi. Per quanto il loro sforzo possa apparire vano e indirizzato a una sconfitta senza rimedio, forse non ho fatto altro sinora che cercare di raccontare la lotta di questi animali per cambiare la propria sorte.

Come sempre, mi devi indicare un posto in cui ci saremmo incontrati.

Non può che essere quello da dove questa volta hai fatto cominciare la nostra conversazione: il porto di Kalamet. Grazie, Giuditta.

A questo punto, non mi resta che lasciare Kalamet, con la dolce malinconia che sempre mi invade nelle parole di Fabio Stassi:

Appena il treno ripartì, s’intravide il golfo. Nell’aria limpidissima l’azzurro del mare stupiva gli occhi per la sua intensità. Ora, per lei, anche quel golfo si chiudeva. Come un abbraccio non dissimile da quello con cui aveva congedato Santo Cicala. La Chiesa Madre di Kalamet era ormai piccolissima, nel fondo della costa. Rapidamente scolorivano la piccola foce del fiume, più avanti, e la campagna che circondava il paese, e la spiaggia.

Chiacchierando (per la terza volta) con… Fabio Stassi