Risuona nella sala un applauso immediato, che si sopisce perché non abituale al cinema alla fine di una normale proiezione, per poi riaccendersi con maggiore convinzione. Questa è stata la reazione degli spettatori, a cui ho assistito al termine di “Non essere cattivo” di Claudio Caligari.

Mano sapiente quella del regista che accarezza i suoi personaggi, con primi piani tagliati con visione poetica e introspettiva. Potrei commentare ogni singola scena tanta è la cura e la perfezione che le permea tutte. Un solo esempio: mani che si passano la roba, solo mani che si intrecciano si toccano si chiudono nel prendere l’illecito, che sia la droga o i soldi. Non persone, ma mani. L’universalità dei gesti, che racchiude il senso dell’umanità raccontata nel film, la paradigmaticità dei sentimenti, delle frustrazioni, dei sogni e delle velleità, l’introspezione che assurge a universalità.

In una borgata pasoliniana, ma resa più calda e accogliente dai colori che virano in preferenza dal celeste al rosso, dal mare e dalla spiaggia, la storia di un’amicizia tra due ragazzi che stentano a trovare un posto in cui entrare senza fare a botte, senza ricorrere a imbrogli e mezzucci per guadagnare la giornata. Quando il posto lo trovano, o è frutto di sacrifici e rinunce ( – per oggi non mi paghi- dice Vittorio al capomastro che non vuole farlo lavorare) o è una casa diroccata, ai limiti della decenza. In entrambi i casi quello che Vittorio e Cesare non sottraggono mai alla vita è il loro atto d’amore, la forza di abbandonarsi alla passione, di riconoscersi un futuro, ma anche lo sberleffo alla vita stessa che vuole azzannarli.

Nei loro occhi allucinati, nello sballo della cocaina non c’è mai la rinuncia e la viltà, ma un eccesso di vitalità, il grido non disperato ma titanico di fronteggiare l’esistenza di periferia, dove sembra che non ci sia altra via tra lo spaccio e l’arrabattarsi.

Caligari li ama i suoi personaggi, e non trovo parole per elogiare l’interpretazione di Vittorio e Cesare, Alessandro Borghi e Luca Marinelli, ne accarezza le pieghe e gli spigoli, ci mostra tutta la potenza della loro umanità strabordante. In questo senz’altro ragazzi di vita.

Ma tanti sono i riecheggiamenti e gli omaggi, in un film colto senza essere erudito. Non solo Pasolini, inevitabile specchio per Caligari, che però proprio nel confronto mostra la diversa umanità e il diverso sentire, in un intreccio di rimandi che sono sempre contestualizzati  dall’interno della visione del mondo e della borgata caligariana e mai fini a se stessi, infittendo l’ordito e moltiplicandolo.

I ragazzi di Caligari sono donchisciotteschi, sia nel sentire lo smarrimento della propria esistenza che nel cercare di crearsi, attraverso la droga, un mondo parallelo in cui far vivere gli ideali e i sogni che vorrebbero realizzare, nella piena consapevolezza della loro vanità. Come Don Chisciotte e Sancho Panza i loro ruoli spesso si invertono e scambiano. L’impossibilità di riconoscere il vero dal fittizio, il reale dalla creazione allucinata della propria mente è il perno di una scena felliniana, che mi sembra sottolinei un’affermazione di poetica, un lascito e un avvertimento: Vittorio vede un circo coloratissimo, Cesare sa che è il frutto dell’immaginazione stimolata dalla cocaina, ma non può giurare che non sia vera, per il solo fatto che non la vede, perché anche il suo non vedere potrebbe essere l’effetto della cocaina sniffata in abbondanza. Anche in questo i due ragazzi sono eccessivi, traboccanti, esagerati e per questo tanto più veri. Dinnanzi al dubbio sull’esistenza o meno del circo, l’unica cosa che Cesare può fare è sostituirsi all’amico. Tante volte nel film questa sostituzione avrà luogo, ed è il senso profondo del rapporto tra i due, sempre pronti a mettersi l’uno nei panni dell’altro, a venirsi incontro e persino accapigliarsi in una rissa che è contro la parte più vera di sé incarnata dall’amico. La visione onirica e allucinata si conclude con un colpo di pistola contro una sirena, metafora perfetta del significato profondo del film. Non è casuale che quell’uccisione metafisica la veda solo Vittorio, e non Cesare. Come un profezia o una rivelazione.

La bellezza di “Non essere cattivo” è nei dettagli e nella visione d’insieme. Un film che è miracoloso nell’equilibrio tra la dolcezza dei piccoli gesti e la durezza di alcune reazioni, tra l’esuberanza di determinati atteggiamenti e la malinconia degli sguardi, tra il senso di vuoto di alcune scelte e la pienezza di vita che pullula dentro e fuori i personaggi, tra l’intimismo di alcune scene fondamentali e la coralità dell’impianto narrativo, tra la malinconia e la sofferenza e la leggerezza e l’ironia.

Quello che fa di “Non essere cattivo” un grande, grandissimo film è la capacità straordinaria di raccontare una storia con immediatezza e sincerità, servendosi di dialoghi senza sbavature, pienamente aderenti al contesto e alle intenzioni, e la perfezione commovente delle scene, sia nella loro narrazione che nella loro inquadratura. La madre addolorata, la bimba febbricitante, il peluche con la maglietta rossa, l’adolescente che svolge i compiti sul tavolo della cucina, mentre la madre e il compagno litigano, il ballo alla luce dei fari di una macchina rubata con cui Cesare e Viviana, la sensuale e semplice Silvia D’amico, cominciano  a intrecciare i loro destini. A mio avviso, la perfezione di un film si registra nella precisione con cui le singole scene, avulse dal loro contesto narrativo, riescono a far battere il cuore, a riempirsi di senso e sentimento, a mano a mano che lo spettatore si allontana dal momento della visione. Questa è la misura di come un film non racconti semplicemente, ma ci racconti, pur rimanendo nello stesso tempo la descrizione precisa di un fenomeno e di una realtà. “Non essere cattivo” è nella mia percezione uno di quei film destinati a durare nelle sensazioni dello spettatore per sempre con una serie di sequenze nitide, piene, pregnanti.

Non essere cattivo è la raccomandazione che la piccola Debora (interpretata con straordinaria semplicità da Alice Clementi) e con lei Caligari, affida all’orso di peluche, ultimo dono dello zio Cesare. Una raccomandazione che sembra rivolta allo spettatore, nei facili giudizi con cui si additano alcune vite allo sbaraglio nella ricerca di senso e direzione.  “Io non sono cattivo”: possiamo immaginare sia la risposta di Cesare, e dei tanti come lui. “Nessuno è cattivo” sembra volerci dire Caligari e la sceneggiatura firmata con Francesca Serafini e Giordano Meacci ne persegue l’intuito nella profonda empatia verso i personaggi e con gli spettatori. Per questo non potremo mai dimenticare Claudio Caligari, e quel senso di pienezza che ha regalato a ciascuno che sia entrato in sala. Credo che sia questa la ragione dell’applauso che si leva alla fine del film come gesto spontaneo e genuino: la riconoscenza per averci regalato tanta pienezza di vita in un film dolente di sofferenza.

Non essere cattivo, con applauso in sala