Di solito è la scrittrice del Chiacchierando a scegliere il luogo dell’incontro, con Rossella Milone invece per la scelta dello scenario ideale in cui immaginarci chiacchierare ho sentito l’urgenza di poter indicare io il posto in cui incontrarsi: sulla spiaggia calabrese di Praia a mare, l’ambientazione di uno dei racconti del libro, lo sguardo rivolto al profilo roccioso dell’isola di Dino, un pachiderma di pietra che ha segnato i contorni delle mie vacanze estive fino all’adolescenza e che ha avuto sempre per me un fascino particolare per quel suo nome che è l’ultimo atto d’amore, disperante e inane, di un padre nei confronti del figlio, Dino Ferrari, tragicamente perduto come un eroe mitologico.

In una specie di piccolo golfo che dava sul mare. Si trovava più a sud rispetto all’uliveto, di fronte si intravedeva il profilo roccioso dell’isola di Dino. Quegli anfratti erano insoliti lungo la costa: in genere s’incontravano chilometri e chilometri di sabbia che accompagnavano la riva, con docili pinete a sorvegliare i confini. Ma qui e lì si potevano scorgere piccole cavità a forma di ferro di cavallo scavate nella sabbia, soprattutto dove si ergevano sporadiche pareti di scogli bianchi.

 

Il silenzio del Lottatore” (minimum fax, 2015)  ha messo a soqquadro la mia anima, dopo averla centrifugata a velocità variabile.

Struttura complessa nella tua raccolta di racconti. Intanto un andamento che in apertura e chiusura con la loro geometria temporale fa pensare alla volontà di raccontare una vita nella sua “formazione”, dalla giovinezza con la scoperta maldestra e inconsapevole del sesso, alla vecchiaia in cui il corpo è quello da accudire e curare della moglie in stato vegetativo accanto all’ex moglie, divenuta amante e confidente. In entrambi i casi il desiderio è silente, come se tu volessi indicare una zona d’ombra naturale in cui si possa fare a meno di esso, rispetto alla forza esplosiva che lo stesso assume in altre età. Nel mezzo racconti che potrebbero tracciare una linea temporale del tutto congruente con la protagonista del primo e dell’ultimo racconto, ma in maniera sfumata, senza forzature. 

Allo stesso modo il lettore rimane nel dubbio se si tratti di una protagonista che tenga uniti i vari racconti per dare loro il respiro lungo del romanzo, o se invece siano donne diverse, diseguali, simmetricamente asimmetriche. La ricorrenza di alcuni nomi sembra sottolineare questa continuità e contiguità delle narrazioni, ma i nomi sono cosa fievole e fragile, pur nella loro concretezza e fisicità. L’indeterminatezza, che appare di grande consapevolezza e maturità narrativa, a mio avviso, enfatizza la perfezione dei racconti, singolarmente. Sembra quasi che tu da una parte voglia forzare il racconto in un andamento romanzesco e dall’altra ottenga una perfezione essenziale nel racconto in sé. 

Non so esprimere forse con chiarezza la mia sensazione, ma è come se nell’illudere (perché secondo me è un’illusione quella che tu attui) il lettore che si potrebbe trattare anche di un romanzo a singhiozzi e a frammenti di una sola, complessa, intrigata personalità protagonista, mostrassi con genio la grande forza del racconto che racchiude in sé e non fuori di sé quello che vuole dire. Uno sfuggire dal romanzo, pur tentandone alcuni elementi, per ribadire la tua vocazione al racconto.

Cosa voleva scrivere Rossella Milone con “Il silenzio del lottatore”?  una raccolta di racconti che avesse all’interno un andamento chiaro per il lettore, una serie di racconti che nella loro linearità aspirassero al respiro lungo del romanzo, pur conservando il proprio vitale tempo selettivo, oppure semplici racconti, perfetti in sé in cui la ricorrenza di nomi, figure, situazioni, atteggiamenti è solo illusione e finzione?

La tua lettura è assolutamente aderente alle intenzioni del libro. Quando mi sono messa a scrivere non sapevo, ovviamente, come sarebbe venuto fuori l’intero libro, né che i racconti avrebbero avuto questa forma a mosaico. Sapevo solo una cosa: che volevo scrivere dei racconti. E che, cosa ancora più importante, volevo scrivere un libro di racconti. Mi spiego: non mi piacciono molto quelle raccolte in cui lo scrittore mette insieme i racconti migliori che ha, magari anche già pubblicati altrove, e poi ne scrive giusto un altro o altri due per cercare forzatamente un tema che li unisca tutti. Una raccolta ha un senso perché  realizza il senso del libro: cioè raccontare una storia (o più storie). Nel caso del mio libro, la storia si articola attraverso più episodi in differenti tappe generazionali delle protagoniste (che potrebbe essere anche la stessa). La forma del racconto – oltre a essere quella che più preferisco – in questo caso si adattava alla perfezione, perché mi permetteva di entrare dentro ognuna di queste tappe, scavarle, scandagliarle, senza preoccuparmi di una macrostoria che tenesse insieme tutto, ma soltanto andando a osservare ciò che più mi interessava raccontare del personaggio in quel particolare momento della sua vita. Il racconto, in questo modo, acquisisce una forza potentissima, cosa che se avessi scritto la stessa storia con un romanzo forse si sarebbe persa.

Della tua protagonista, come mi piace credere che sia nella soggettività che contraddistingue la libertà di essere una semplice lettrice, affascina la possibilità che in essa si affaccino e riconoscano diverse protagoniste, o meglio differenti personalità di se stessa. Come se nella limitatezza spaziale e temporale del racconto si aprissero per la stessa donna la possibilità di essere donne diverse o diversamente se stessa. Ho pensato a “Cicatrici” di Saer con la sua percezione dell’esistenza come cerchi in cui ci siano infinite possibilità dell’essere.

Alla fine alzai la testa e lo fissai in volto. Vidi il mio stesso volto. Era così identico a me che dubitai di essere io, lì davanti a lui, che fossero mie la carne e le ossa che circondavano il debole bagliore dello sguardo fisso su di lui. Mai prima di allora i nostri cerchi si erano mescolati tanto, e capii che non dovevo temere che lui stesse vivendo una vita a me preclusa, una vita più ricca e più elevata. Qualunque fosse il suo cerchio, lo spazio a lui destinato, che la sua coscienza attraversava come una luce errabonda e tremula, non differiva tanto dal mio da impedirgli di arrivare a un punto nel quale non poteva alzare nella pioggerella di maggio altro che una faccia spaurita, piena di quelle cicatrici premature frutto delle prime ferite della comprensione e dello stupore.

(traduzione di Gina Maneri, La Nuova Frontiera)

 

L’amore è una forza dirompente nei tuoi racconti. Non sempre facile da contenere. L’amore è spazio e silenzio. Una sola volta la protagonista di un tuo racconto grida, ma quel grido non è reale né realistico, anzi te ne servi per svelare al lettore l’illusione di realtà in cui l’hai accompagnato. L’amore è anche paura.

Quei due letti soli, composti, abbandonati nel caldo delle singole trapunte, separati da una sedia di vimini su cui nessuno si siederà mai e che soltanto una statuetta di plastica guarderà con garbo e noncuranza.

è questo il posto che mi fa più paura, e sorrido di questa paura che, finalmente, colma tutto quanto.

Nei tuoi racconti la protagonista preferisce sempre i letti scomposti e a soqquadro, pur anelando alla compostezza di un letto rifatto.

Si è vittime dell’amore o non se può fare a meno? Oppure si è vittime dell’amore perché non se ne può fare a meno?

Sembri adombrare una certa dicotomia tra maschile e femminile, lui e lei sono sempre all’opposto, per poi incontrarsi nel titolo in quel “lottatore” che non mi sembra voglia indicare un maschile (come invece è evidente nel titolo omonimo del racconto), ma un’unità conclusiva e “platonica”.

Il mio silenzio è un dubbio

e in quel dubbio c’è forse la chiave di quei “letti soli” e la forza primigenia del lottatore? 

Il racconto offre sempre infinite possibilità di narrazione. Perché grazie alla sua rigorosa sottrazione e a un finale ben gestito (i finali dei racconti hanno sempre qualcosa di ambiguo, secondo me) permette allo scrittore di utilizzare molti modi per raccontare i mille volti di un personaggio. Le mie protagoniste – o la singola protagonista, come piace leggerla a te – posseggono per ognuno di questi racconti, un aspetto di se stesse che non conoscevano e che scoprono man mano, rivelandosi come donne in continua trasformazione o, meglio, evoluzione. In ogni racconto mi piaceva svelare soprattutto le loro contraddizioni e debolezze, spesso contrapposte alla forza o alle debolezze di altri personaggi. In questo senso gli uomini e le donne di questo libro non li vedo in contrapposizione, ma nel vero senso della parola dicotomia: due aspetti separati, diversi e con le proprie specificità. Non mi piaceva far lottare i due generi, ma fare qualcosa di più sottile: mettere la coppia – o qualsiasi altra relazione – al centro della lotta, come entità quasi a se stante; non uomo contro donna. Per questo non vedo né loro, né gli esseri umani in generale, come vittime dell’amore. L’amore è qualcosa che ci capita. Il modo in cui lo si vive, quello sì, può renderci sue vittime o meno.

 

I finali dei racconti riusciti sono sempre ambigui. Concordo con te, Rossella. I tuoi finali lo sono, perfetta conclusione di racconti riusciti. Io aggiungerei all’ambiguità che apre spiragli interpretativi e suggestioni narrative, un’altra caratteristica peculiare dei finali dei racconti di “Il silenzio del lottatore”: il loro essere liminari, nel senso prettamente etimologico. Nel finale la protagonista è sempre su una soglia, o qualcosa che la rappresenta, in procinto di salutare, di andare o di restare. In un caso, “Questioni di spazio”, il racconto più forte e che ancora mi pizzica l’anima con insistenza, la soglia è il limen esistenziale, il labile confine tra la vita e la morte, e l’ambiguità è la vera cifra di un racconto che sprigiona un’energia vulcanica, eruttiva. 

Come corollario alla “poetica del limen” mi sembra di poter enunciare la sospensione temporale che tu attui nei racconti. Un tempo sfuggente e fuggevole, che non ha spazio né consistenza, che tu non conti e non enumeri. È  intenzionale l’inconsistenza temporale? ci hai lavorato per ridurre la categoria temporale al presentimento di avvertire la vita esistere da qualche parte lontano da noi, mentre ci prendevamo il lusso di paralizzarla per un’altra ora soltanto, di assopirci nel tempo?

L’evoluzione delle tue protagoniste non è mai frutto del tempo, o sbaglio?

Ci tenevo – anche se l’ho capito in fase di lavorazione, non è che l’ho pensato a priori – che la questione ‘tempo’ fosse affidata alla composizione di tutti i racconti; al loro stare insieme in un’opera; alla loro capacità di definire uno spazio e un tempo pur nella loro autonomia. In questo senso, la composizione ‘a mosaico’ mi ha fornito la possibilità di affrontare il tempo in divenire delle varie protagoniste. Partiamo dall’infanzia, arriviamo alla vecchiaia. Ma non nei singoli racconti: questo avanzamento, e tutto ciò che ne deriva e ne comporta, lo può raccontare solo l’intera composizione finale. In questo macro disegno, poi, si inseriscono i singoli racconti che si focalizzano su episodi, stracci temporali che vanno avanti e indietro in piccole porzioni di vita. Nei racconti trovo l’esigenza di spostare i personaggi secondo i loro movimenti: spesso bisogna tornare indietro con loro, altre andare avanti, altre fermarsi immobili – come nel racconto che citi. Perché  è in questi movimenti che il personaggio evolve, si svela, si trasforma. L’agnizione, la trasformazione, è qualcosa che appartiene ai racconti classici, o classicheggianti, a cui forse io mi riferisco di più. Joyce, Mansfield, Cechov portano i loro personaggi sempre lì: in un punto in cui sono costretti a guardarsi in faccia e scoprire qualcosa di nuovo. La trasformazione, per me, in narrativa racchiude tutto il senso di una storia: un personaggio deve scoprire qualcosa che prima non sapeva, anche se poi, rispetto a questa trasformazione lui non si muove, rimane dov’è. Però, il fatto che ne sia venuto a conoscenza permette al racconto di aprire una finestra su un nuovo mondo che anche al lettore viene svelato. In questo senso il limen, la soglia, è il racconto stesso: una porta che non si era mai aperta, attraversata la quale si può accedere a qualcos’altro, che ci appartiene anche se non lo sapevamo. E’ il paese delle meraviglie di Alice, no?

foto di Rino Bianchi 

Joyce, Mansfield, Cechov. Sei stata avvicinata alla Munro e di sicuro le donne di “Il silenzio del lottatore” ricordano molto il femminile della scrittrice canadese con la loro buona dose di esistenza irrisolta e forse l’agnizione classicheggiante di cui parli potrebbe riferirsi anche alla trama dei suoi racconti. Senza dubbio la tua voce valica i confini nazionali, per essere pienamente congiunta con la migliore temperie internazionale. 

La tua lingua è sorvegliatissima, intima, a tratti lacerante, sempre composta e dettagliata.  Eppure persistono dei tic linguistici campani, rari incastonati talvolta impercettibili, che la rendono geograficamente connotata, senza mai renderla folclorica o dialettale. Per me un tratto di riconoscimento, insieme a certi paesaggi che mi sono familiari, come l’isola di Dino di uno dei primi racconti. C’è la volontà che la lingua, pur nella sua esattezza preziosa, nel suo lucido dettato, lasci sfuggire da dove veniamo e in parte chi siamo? Quale lavoro sulla lingua attua Rossella Milone? 

La lingua è tutto, o quasi. Al quasi ci tengo, perché  lì dove si lavora solo di stile e si tralascia l’attenzione all’empatia coi personaggi, lì dove lo sguardo si impigrisce lasciando solo alla lingua il grosso del lavoro – si rischia di scrivere qualcosa di gelido, di fare sterile esercizio. Però la narrazione ha bisogno di una postura autoriale, che è la conseguenza di come si padroneggia la lingua e come la si lavora. Rigore, attenzione, cura per la parola per me sono importantissimi. E’ il momento più difficile quello, perché a volte l’affabulazione ti trascina nel suo mondo, dove le parole a volte scivolano come i capitoni. E allora bisogna ritornare sulle frasi, ritornare e ritornare a lavorarle. Anche il dialogato a cui ti riferisci – specie quello che tradisce le nostre origini – è frutto di uno stile che si acquisisce col tempo, lavorando su stessi. È l’incrocio tra due parti di te: quella intima, creativa, che ti appartiene nel profondo come un muscolo, e poi c’è quella più razionale, che va a revisionare tutto. Ecco, questa combinazione di ragione e sentimento, per quanto mi riguarda, è alla base del mio lavoro sulla scrittura. Che però non si ferma mai, si mostra e si rinnova ogni volta che scrivo qualcosa di nuovo.

 

Ultima domanda, anche se mi dispiace, perché è così bello leggerti che continuerei all’infinito.

Nelle edizioni Minimum fax non sono previsti i ringraziamenti. Se ti chiedessi di scriverli per tempoxme? Nei ringraziamenti intendo includere anche maestri, modelli, pietre miliari nella pratica di scrittura (e di lettura) di Rossella Milone.

Mi ha colpita da subito in questa nostra chiacchierata la chiara e piena consapevolezza di scrivere racconti, e allora cosa rappresenta il romanzo nella tua produzione letteraria? Sono diversi i modelli tra l’uno e gli altri, oppure rimangono identici?

 

Le persone che hanno tenuto a cuore, che hanno lavorato e che ancora lavorano con questo libro le ho ringraziate di faccia (come diciamo a Napoli). Poiché tengo moltissimo a loro, mi faceva piacere che il grazie fosse di pancia, a modo mio. E non rinchiuso in una griglia in ultima pagina.   
La già citata Alice Munro, invece, sarebbe un ringraziamento scontato – anche se non sai quanto mi piacerebbe incontrarla e chiederle di scrivere ancora, e ancora. Il suo sguardo tocca qualcosa che sento nel profondo; aldilà della scrittura, intendo proprio come essere umano. Ma i modelli sono tantissimi. Gli italiani, prima di tutto. Fenoglio, Buzzati, Ortese. Fabrizia Ramondino, Federigo Tozzi e Anna Banti sono stati incontri che hanno deviato la mia scrittura, a un certo punto, dandole una direzione precisa. E questo sia per quanto riguarda i racconti che i romanzi. C’è stato un periodo che leggevo solo i russi, soprattutto i romanzieri, escludendo qualsiasi altra cosa come una dieta a zona: avevo preso proprio una fissazione ma quella fissazione mi ha fatto benissimo. Amo leggere i romanzi come amo leggere racconti. Mi piace anche scriverli. Quando ho scritto il mio romanzo mi pareva di aver fatto un viaggio lunghissimo, che mi ha stancata e rinfrancata. Scoprire i meccanismi di un romanzo e starci dentro a lungo, con tutto il corpo e la testa, non ha niente a che vedere con l’apnea del racconto. Ma non è che una cosa sia migliore o più appagante dell’altra. Dipende dalla storia che vuoi scrivere e da come vuoi raccontarla. Questo mio ultimo libro andava scritto coi racconti e volevo raccontarlo solo così. 

Chiacchierando con… Rossella Milone