Appuntamento al Parco degli Acquedotti Alessandrini, scenario della scena del buco al collo in “Amore tossico” e poi vicino a casa mia, a quella di Giordano (che si è trasferito in zona da poco) e a quella dove Claudio è vissuto negli ultimi giorni.

Avrei detto immediatamente sì a Francesca Serafini, se mi avesse rivolto questo invito alla richiesta di chiacchierare con lei e Giordano Meacci.  

Francesca Serafini e Giordano Meacci per me sono non solo scrittori, ma due intellettuali nel senso pieno e profondo del termine. Versatili, eclettici, radicati nel presente ma con una solida enciclopedia da cui guardano la realtà.

Prima di chiacchierare con loro di “Non essere cattivo”, l’ultimo film di Claudio Caligari, di cui hanno firmato la sceneggiatura (insieme allo stesso Caligari), e di tutte le vicende che ruotano intorno alla messa in opera del film, che potrebbero esse stesse fungere da sceneggiatura, sento il bisogno di fare un passo indietro e di riagganciare questo ultimo tassello della produzione del regista con “Amore tossico”, un film culto per un’intera generazione, di giovani soprattutto.

 

Vi invito a immaginarci a Roma, al Parco degli Acquedotti Alessandrini, mentre leggete la nostra chiacchierata sul film, per poi dirigervi nella sala più vicina per la visione.

 

Cosa è stato “Amore Tossico”?

 

Se penso ad AT (così lo chiamava Claudio, che aveva una passione per gli acronomi: per noi per esempio Non essere cattivo è stato da subito NEC) mi viene in mente quello che è stato per tutti e quello che è stato per me – per noi, includendo anche Giordano nel modo che ti spiegherò. Per tutti – e quindi anche per noi – AT ha rappresentato il passaggio ulteriore rispetto a Pasolini nel racconto della borgata. Quando, cioè, quel mondo che Pasolini sentiva già minato nella sua purezza è entrato in contatto con la droga. Eravamo negli anni Ottanta e la droga era l’eroina – la robba, come la chiamano Cesare e i suoi amici. Un’intera generazione di giovani del popolo spazzata via da questa dipendenza e che Caligari ha raccontato a modo suo. Con una documentazione impressionante e puntigliosa (saprai che gli attori erano “tossici” veri, reclutati in un SERT dove Claudio era appunto andato a documentarsi e dove trovò Cesare, bello e talentuoso) e con la precisa volontà di fare cinema, come si capisce da ogni inquadratura del film e dallo stile tipico di Caligari: un racconto senza giudizio che fotografa l’orrore mettendo in evidenza l’umanità dei poveri cristi che lo animano e che spesso divertono, col risultato che nessuno dei suoi film è a patetico. Poi, per me, per Giordano, AT è stato anche un tormentone negli anni dell’università. Quando avevamo creato con altri nostri compagni l’Accademia degli Scrausi (un’associazione di linguisti che ancora oggi esiste e ha un voto al Premio Strega) e andavamo raccontando l’etimologia di scrauso, anticamente ‘sciocco’ e poi riemerso negli anni Ottanta nel gergo delle borgate romane col significato di ‘scadente’ e proprio in questa accezione attestato per la prima volta in AT.

 

Sì, se penso a AT — ché ormai AT è AT e lo sarà per sempre… Claudio rideva ricordando che in quello stesso periodo è uscito ET di Spielberg e quindi chiamare il film AT era anche un modo per giocare sulla differenza cinematografica sostanziale tra un alieno immediatamente empatico, e accattivante; e un manipolo sgangherato di alieni a loro modo disturbanti e impresentabili alla categoria eterna dei ben-pensanti Se penso a AT si sommano insieme tre ricordi distinti. Uno è quello, continuato nel tempo, dell’Accademia degli Scrausi e del nostro modo di presentarci al mondo attraverso una strega del Cinquecento e l’arte di Claudio Caligari, appunto. Tra l’altro: per uno di quei segni casuali da salvare sul calendario degli affetti quando càpitano: il film esce nelle sale l’8 settembre. Una data che – accanto all’inizio della fine del fascismo: è sempre bene ricordarlo (anche se questo non ci assolve dall’impegno di stare sempre in guardia, va da sé…) – è anche legata alla nascita dell’Accademia degli Scrausi stessa: in un pub che aveva il nome di un titolo di De André (Le nuvole); nel 1992.
Il secondo ricordo riguarda invece il senso di sconcerto delle prime visioni di AT in televisione; o in videocassetta – gli ultimi anni Ottanta, i vhs spesso registrati direttamente dal televisore. Il dolore lacerante dello specchio crepato – anche in questo Caligari era un maestro – tra la verità impatteggiabile della realtà raccontata e l’arte strenuamente non naturalistica con cui le storie di Cesare, e di Ciopper e di Michela e di Enzo e di Loredana venivano guardate.
Il terzo ricordo, ultimo in senso cronologico (e etimologico, purtroppo), ha a che fare invece con i racconti di AT fatti da Claudio Caligari in persona; con la visione ripetuta, e continuata, di AT mentre scrivevamo; e dopo aver scritto la sceneggiatura di NEC. E qui il secondo e il terzo ricordo si fondono con il primo in un’unica grande esperienza condivisa dove Ostia – che con Francesca abbiamo frequentato a lungo, negli anni: sempre per quelle congruenze semicasuali che la vita ti offre; soprattutto se sai cercarle bene e hai la fortuna immediata di notarle – e la scena del “quadro” in casa di Patrizia Vicinelli, i necrologi rigorosi di Claudio per i suoi attori, nel tempo, l’immagine di Ferreri che si prende a cuore le sorti del film, il modo in cui Caligari ha scelto di inquadrare la morte di Michela, o il fatto che alla fine la parola scrauso doveva chiudere AT in un montaggio precedente – “è morto solo uno scrauso” era un’ipotesi di battuta finale (fatta da uno dei poliziotti): ce l’ha raccontato Claudio a Francesca e a me in un pomeriggio di scrittura di tre anni fa —- ecco. Tutto questo diventa AT per me. E la cosa assolutamente straordinaria, però, è che di là da tutte le digressioni possibili, resta AT in sé. Ancora universale e unico per qualsiasi – mi verrebbe da scrivere lettore – tipo di spettatore. 

C’è una linea di continuità tra AT e NEC? Giordano parlava del primo come un soundtrack per la scrittura del secondo, cosa ne è venuto al nuovo film da questo vostro legame affettivo con AT?

La linea c’è e per Claudio era fondamentale. Il nucleo vivo da cui è partito tutto. Il cambio di sostanze, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, segna anche un passaggio storico: la fine del mondo pasoliniano. La fine dell’età dell’innocenza e insieme quella delle aspirazioni a un mondo realmente migliore. I nuovi accattoni guardano quelli che li hanno preceduti come reietti, senza rendersi conto della parentela. La scena a vuoto in cui Cesare e Vittorio aspettano i tossici (perché chi sniffa o ingolla pasticche non si considera tale) era cruciale per Claudio. Per questo – lui che amava gli straniamenti brechtiani: pensiamo ai personaggi che parlano in camera nell’Odore della notte – lì, nel dialogo, per qualche istante la quarta parete ha uno sbrego e Claudio – il suo film – parla direttamente a chi guarda, raccontando la storia di Debora (e di sua madre), nella quale – con noi che continuavamo a rassicurarlo e a rimuovere il senso di fine che lo pervadeva nello stremo delle forze fisiche – stava prefigurando la sua morte (non a caso ha fatto costruire un orsacchiotto per Debora identico a quello che aveva da piccolo). Quella dell’artista che mantiene vivo, nella sua purezza, lo sguardo di un bambino.

Sì. “Non essere cattivo” è l’ultimo atto di quella che Claudio definiva una trilogia “a quattro mani” con Pasolini (con i precedenti di Amore tossico e Accattone). Quindi una linea che s’intreccia con un’altra linea e se ne crea una sua, privatissima e personale. E Claudio ne era perfettamente consapevole. Penso al modo in cui sono state immaginate le particolarità linguistiche di ogni personaggio. Il lavoro fatto su Linda, per esempio: perché fosse sempre presente allo spettatore – un’altra traccia di quella predilezione brechtiana di cui parla anche Francesca – che il suo personaggio (un tentativo di nobilitazione sintattica, una presa di posizione impostata retoricamente) incarna in tutto (e specialmente nella lingua, per l’appunto) quell’ultima traccia di un tentativo di crescita sociale che, però, è già in partenza destinato a scontrarsi con le mine e le bombe – quelle sì – della nuova società italiana (e non solo) in arrivo dalla metà degli anni Novanta.

Se in AT i tossici di Caligari si muovevano ai margini di una società che, in molte sue parti popolari, cercava di reindirizzare verso una maggiore giustizia sociale le storture millenarie che le circondavano: ecco che già una decina di anni dopo la marginalità e l’isolamento cui sono costretti i Cesare e i Vittorio che non vorrebbero – a loro modo – essere cattivi non hanno altra scelta esterna che il ritorno (antico quanto il genere umano; e nuovamente declinato secondo i dettami del neoliberismo trionfante) alla spietatezza sommaria dell’homo homini lupus. Per Claudio era evidente tanto la linea di continuità quanto la voragine data dalla frattura.

 

Nelle vostre parole è ben visibile il rapporto con Caligari, al di là della sua opera. Chi era Claudio Caligari per Francesca Serafini e Giordano Meacci? In che modo vi siete ritrovati nel mondo di NEC?

Purtroppo, i danni veri comportano sempre una beffa, secondo proverbio, e in questo caso la beffa è che se parliamo di Claudio come ne parlavamo anche quando era vivo adesso si può pensare subito che siamo in clima da santino. Non ci resta che confidare nella sensibilità di chi ha amato i suoi film e ha capito quanto amore ci sia dentro per lasciargli intuire la dolcezza e l’intelligenza dell’uomo con cui abbiamo avuto la fortuna di collaborare. Claudio ci ha scelti e poi noi abbiamo cercato in tutti i modi di non deluderlo.

Sì. Se penso a Claudio non posso che recitarmi privatamente una serie di parole tra loro contrastanti. Fortuna, dolore. La fortuna di averlo incontrato; il dolore continuato di averlo perso. Perché quello che c’è della sua Arte resterà nel tempo. Penso di poter parlare anche a nome di Francesca se dico che ci mancheranno – sarà bene cercare anzi di frequentarli, costantemente, nella memoria: almeno finché potremo – certi gesti che da soli commentavano un tempo, una situazione. Il modo che Claudio aveva di confermarti in una decisione o di regalarti un dubbio necessario solo con una frase spiazzante. Tutte cose che – mediate dalla forma, la sua più grande ossessione estetica – si possono notare nel gesto con cui ha diretto i suoi film, certo. Ma che purtroppo non possono ridarci lui per intero – in realtà a quarantaquattro anni non sono ancora riuscito a scendere a patti con l’idea stessa della morte – e questo, se mi permetti: è l’abisso scuro che è anche l’esatta metafora di tutta la questione sui tre film firmati da Claudio.

Per l’arte che resta bastano a loro stessi; ma a noi spettatori mancheranno per sempre i film che Claudio Caligari non ha diretto. Passati e futuri.

Dopo il successo critico che NEC ha avuto al Festival del Cinema di Venezia, molto amato anche dal pubblico, ma quello di Venezia è un pubblico particolare e di amanti del cinema, il film passa alle sale cinematografiche delle città. Perché lo spettatore dovrebbe andare a vedere NEC al cinema? Che cosa gli riserva il film? Spesso il pubblico esce deluso dalle sale perché si aspettava altro o qualcosa di totalmente diverso. Diciamo chiaramente invece a chi decide di vedere il film cosa vedrà e che tipo di film sta scegliendo e quali motivazioni dovrebbero spingerlo a scegliere NEC.

Noi – Claudio con noi – ci aspettiamo solo che il film travolga lo spettatore con le sue emozioni. Che lo strattoni tra una risata e un pianto, mettendolo con le spalle al muro (perdona l’immagine trita, ma penso che in questo caso renda perfettamente il senso di disarmo che ci dovrebbe pervadere tutti durante i titoli di coda) rispetto a temi e persone che il racconto della quotidianità generalmente rimuove. È un film accogliente: non vuole respingere nessuno. E a tutti ricorda, di là dal grado di cultura cinematografica, dal censo e dall’età, che a guardare il mondo con occhi privi di giudizio si riesce ancora ad amarlo parecchio anche là dove sembra impossibile.

Claudio amava i suoi personaggi senza giudicarli. Come si amano – attenzione – in quanto esseri umani (con le loro fragilità inevitabili, i difetti, le pochezze: insieme con i saltuari gesti generosi che possono arrivare da qualsiasi parte) gli esseri umani.

Con il di più di una constatazione. Ché quelli – tanto per usare un’altra metafora abbastanza comune – che hanno ricevuto carte terribili dalla prima smazzata della vita meritano maggiore attenzione; e rispetto. Cosa che – se, ancora, mi permetti – è tipica solo dei grandissimi artisti. (Com’è nella mia formazione, penso a Pasolini; penso a Fabrizio De André). E quest’amore per la vita, proprio perché Claudio era consapevole delle griglie mobili dell’arte-quando-si-fa, ha trasformato Cesare, Vittorio, Viviana e Linda in personaggi che ci raccontano l’esperienza umana. Come Sancho Panza. O Molly Bloom. Perché certo non ho bisogno di essere io un dublinese del primo Novecento per soffrire con lui, quando si accorge, senza riscatto, di non essere amato, su questa terra; mentre la neve cade sui vivi e sui morti.

 

E poi per chiudere torniamo a voi, gli sceneggiatori: immersi nell’anonimato del pubblico in sala, quale momento del film vi piacerebbe che il pubblico sottolineasse e con quale gesto o sensazione?

Non ce n’è uno in particolare perché pensiamo con Billy Wilder (lui dice in realtà che un film non può essere fatto solo di scene madri, anzi) che anche le scene preparatorie o di decantazione servano a dare luce a quelle pensate per imprimersi vivide nella memoria. Però, quando ci è capitato, è stato molto bello sentire risate in sala quando c’era da ridere e poi scorgere occhi lucidi intorno a noi, quando c’era da commuoversi.

Ha ragione Francesca. Non ce n’è uno in particolare. (Sarebbe quasi come chiedersi se di un racconto che si è scritto preferiamo le proposizioni finali o l’uso del passato remoto). Però c’è una scena in particolare – che si conclude con l’abbraccio tra Cesare e Vittorio prima del cantiere – che ogni volta che abbiamo visto il film in sala ci commuove. Per la scena. Ma anche perché si commuovono con noi le persone intorno. Un omaggio emozionato a Claudio. E una piccola cosa buona per il futuro di tutti noi, esseri umani che non siamo altro.

 

Usciti dal film, quale sarebbe il commento in cui maggiormente vi ritrovereste e quale invece avete avuto la fortuna di ascoltare in cui vi siete pienamente riconosciuti?

Uno più di tutti, tra quelli che ci è capitato di intercettare. Quello a cui teniamo di più: che meraviglia Claudio Caligari! E quanto ci mancherà.

Sì. Che meraviglia, Claudio Caligari. E quanto ci manca già.

Ci sarebbe poi una cosa che vorremmo dire insieme, e cioè grazie a Valerio Mastandrea. Perché, come ci ricordava sempre Claudio, “senza di lui il film non ci sarebbe stato”.

Chiacchierando con… Francesca Serafini e Giordano Meacci