Ci sono libri fondamentali per la forza di universalizzare, di parlare dell’uomo e del mondo con lucidità e perspicacia: i capolavori, i classici, gli intramontabili.

Ci sono, poi, i libri che fanno da specchio alla propria individualità, che miracolosamente ti esplodono sotto gli occhi e nell’anima con una forza sorprendente, in uno sfarfallio di emozioni e sentimenti. Esperienza straordinaria la lettura con la pelle d’oca, quella in cui specchi una te stessa deformata, capovolta, straniata, ma non per questo meno vera e paradossalmente tanto più profonda. Mi è capitato due volte nella mia esperienza di lettrice accanita e sorrido di fronte alla coincidenza che in entrambi i casi si sia trattato di scrittrici donne (quasi necessario!), campane e verso cui nutro una istintiva simpatia. Per il resto i due libri sono molto diversi, se non fosse per quel sommesso ma riconoscibile timbro campano che a tratti fa capolino tra le parole e le espressioni, senza però mai in entrambe ricorrere al dialetto.

Fuori i titoli e le autrici?

Valeria Parrella con Lo spazio bianco (Einaudi, 2008) e L’iguana non vuole di Giusi Marchetta (Rizzoli 2011).

 Valeria Parrella

Due storie in cui il mio coinvolgimento emotivo ha toccato i vertici dell’empatia. Con L’iguana non vuole Marchetta racconta la scuola italiana dall’ottica di un’insegnante precaria e di sostegno. Non dalla cattedra, dunque, né con la stabilità dell’insegnante di ruolo, ma con le difficoltà i sacrifici le frustrazioni di chi oggi c’è e domani sa non certezza che non ci sarà. Non uno sguardo diretto e frontale sui ragazzi, sulla scuola, sui colleghi, ma uno sguardo obliquo, laterale, di fianco, che arricchisce la percezione e la visione, caricandole di emozioni, riflessioni, immagini, sfaccettature prismatiche e variegate. Emma deve lasciare Napoli, nella scommessa di avere una supplenza annuale dopo la laurea, l’abilitazione e i corsi sul sostegno sostenuti e superati a pieni voti. Il destino fino a quel punto condiviso con Anna si biforca: Emma a Torino per una cattedra annuale al liceo Bernini sul sostegno, Anna dopo un anno inconcludente nelle graduatorie scolastiche di Napoli in un’università americana per una borsa di studio. Entrambe rappresentano “i cervelli” che il nostro paese in diversa misura spreca e allontana.

Nel lasciare la città di nascita, Emma prende le distanze anche da una convivenza divenuta incerta nei sentimenti, con Gianni, un amore messo in discussione dalle ragioni del cuore tra ripensamenti e ambiguità, raccontate da Marchetta senza smelensi patetismi, ma con partecipazione e sobrietà.

Il tema del precariato è trattato nelle sue diverse e minime sfumature: dalla convivenza temporanea con una sconosciuta che per la forza della quotidianità diventa una persona “cara”, dagli incontri e le amicizie in una nuova città con una parte del cuore in perenne malinconia per affetti profondi e costanti lasciati là dove si conservano le proprie radici sentimentali, agli scatoloni ingombranti che diventano emblemi della temporaneità e della precarietà della propria esistenza lavorativa e quindi anche personale.

Soprattutto, però, L’iguana non vuole rivela l’inadeguatezza della scuola italiana ad affrontare l’integrazione dei disabili, l’indifferenza che serpeggia in alcuni docenti e l’entusiasmo e il coraggio degli insegnanti “veri” ormai abituati a una situazione costante e irresponsabile di tagli e incomprensioni di chi governa e legifera su scuola e istruzione, tale da rendere l’insegnamento non un lavoro, ma una missione.

Marchetta si serve di tre diverse categorie di disabilità, incarnate in Andrea, che rappresenta “la malattia” chiara, rimarcata, inesorabile; Mattia la disabilità strisciante e inconsapevole che condanna irrimediabilmente alla solitudine e all’emarginazione; Petar, la “disabilità” di una lingua e un paese nuovi con le difficoltà proprie di ogni emigrato.

La parola d’ordine è contenere.

Imparo ad aspettare prima di reiterare una richiesta che Andrea ha sentito benissimo. Imparo a toccarlo appena, sul braccio, quando Nicolini salta il suo nome all’appello e lui inarca la schiena, bestemmia. Imparo a leggere le sue risatine, i grugniti, gli scatti nervosi della mano.

Riccardi è una pentola che bolle sul fuoco. Ha bisogno di un coperchio e di un corretto dosaggio del gas per non traboccare.

Petar è una pistola carica. Lascio che la scuola la maneggi, puntandola im tutte le direzioni. Lo guardo ammirata mentre da solo si disinnesta un po’ alla volta, sottraendo le pallottole al tamburo che scatta a ogni presa in giro, a ogni punizione ingiusta.

Mattia è una chitarra scordata. Quando passa in mezzo ai compagni ride troppo o troppo forte. Capisce la metà di quello che dicono e non gli importa. Quello che vuole è essere uno di loro, anche se per finta.

La disabilità e l’integrazione sono una sfida aperta e fondamentale per una società moderna che vuol dirsi civile, disattesi, pur in presenza di leggi che hanno segnato passi importanti soprattutto per quanto riguarda la scuola, da tagli miopie e indifferenza nei confronti dei quali Marchetta fa sentire forte e chiaro il suo grido di allarme e di vendetta.

Succede così, senza preavviso.

L’iguana si muove. Dalla sua carne viene altra carne che le irrobustisce il corpo, ispessisce i muscoli, allunga denti e unghie. I polmoni respirano, la lingua freme nella bocca: è pronta.

Senza fretta, si trascina per tutto il Paese, cominciando dal Piemonte, dalla Lombardia, dal Veneto: la strada è lunga fino in Sicilia.

Viene per voi.

Avanza a piccoli passi, per non saltare nessuno. Vi raggiunge mentre siete a telefono nei vostri uffici, nelle aule, o in viaggio sulle auto blu. Vi cerca in ogni ministero: Economia, Istruzione, Giustizia, Pari opportunità. Vi cerca in ogni ospedale, in ogni scuola, in ogni azienda. Non importa quanto sia ridicola la vostra carica, il modo in cui siete arrivati a occupare la vostra posizione, l’ignoranza con cui ripetete a memoria ataviche bugie, perpetrando ataviche ingiustizie: per l’iguana non ci sono gradi di colpa, non c’è differenza tra mandante e complice, non ci sono scuse. Non esistono.

Vi trova attraverso i contratti, i decreti legge, le raccomandazioni, i maneggi che vi hanno resi ricchi e potenti. Le basta seguire la scia dei morti che vi lasciate dietro.

Vi riconosce, sa tutto di voi. Vi ha visto e sentito tutte le volte che non avete pagato alla fine del mese i vostri dipendenti o dopo tre gradi di un processo che vi ha condannato. Tutte le volte che il vostro interesse ha calpestato ogni altro interesse, che avete privatizzato un diritto rendendolo un privilegio, che vi siete o ci avete venduti.

L’iguana sa che vi sentite un’altra razza, che vi proteggete a vicenda, che pensate di essere immortali e che i vostri figli saranno come voi.

Sa che questo Paese è colpa vostra.

Per questo vi viene addosso, vi afferra con le zampe, spinge le unghie nelle vostre gole, nei petti, in fondo alle orbite. Il sangue che scorre e gli organi a pezzi non sono abbastanza. Ci vogliono i denti: con le zanne vi deve frantumare le ossa, lasciando il cranio per ultimo perchè senza mascella vi sarebbe impossibile urlare. E invece dovete urlare. E chiedere perdono per non essere ascoltati. E pregare per non essere esauditi.

Ci saranno quelli che credono di poter scappare e salvarsi. Stupidi.

L’iguana può esplodere nelle vostre case, sugli aerei, sui treni, per le strade, le piazze, in Parlamento.

Non c’è scampo, non c’è salvezza.

E voi potete anche andare avanti a vivere come avete sempre fatto, a succhiare avidi tutta la linfa di questo Paese, a rubare spazio, possibilità e speranze, a passare il potere ai vostri figli, trasformando una repubblica in tante monarchie, a farvi Cosa Vostra, a essere i nostri padroni, il nostro inferno terreno. Solo che non potrete farlo per sempre. L’iguana non vuole.

Giusi Marchetta ha un atteggiamento lucido e non falsificante nel raccontare le difficoltà di essere non un’insegnante, ma un’insegnante di sostegno con tutte le inevitabili frustrazioni.

È il mio posto questo.

L’ho capito stamattina, appena mi sono seduta alla cattera. Il registro aperto davanti, la lavagna sulla sinistra, alle mie spalle. La luce filtra dalle finestre e illumina le prime tre bancate vuote.

Nel silenzio della classe, della scuola, perchè sono le sette e mezza e ci sono solo io e qualche bidella giù al primo piano, ho potuto sentire persino il rumore della mia penna sul registro. È andata avanti per un po’, poi qualcosa è piovuto da un banco, ha preso a strisciare sul pavimento grigio.

Ogni azione va programmata in base all’alunno. Il tuo alunno è Riccardi. Che cosa farai?

Mi arrenderò. Non sono in grado. Aiuterò Mattia, farò il laboratorio, e tutto il resto, lo giuro.

Riccardi è la prima angoscia che striscia nella stanza. Ma ce n’è un’altra più grossa, con i denti sporchi e la testa piatta.

Quest’anno è andata ma l’anno prossimo no. Gli insegnanti non servono. Nessuno serve davvero.

Niente di questo è colpa mia. Io ho fatto tutto quello che dovevo: i buoni voti a scuola, la droga di rado, sempre leggera, gli esami in sequenza, la laurea in tempo, il tirocinio serio, la specializzazione col massimo, la scelta ragionata, la partenza, la volontà, il fegato, il cuore, i polmoni. Le ore. Giorni, mesi, anni di tempo in cambio di una preparazione. Un lavoro fatto dignitosamente. La certezza di un affitto sostenibile e di una coscienza pulita alla fine del mese.

Nello stesso tempo, come in tutte le sfide aperte e non scontate, la soddisfazione degli obiettivi, anche parzialmente raggiunti, è ineguagliabile.

Lo sguardo lucido e meditato di Marchetta si spinge fino a toccare il tema difficile della genitorialità, complicata e ispessita dalla disabilità di un figlio, dando un quadro chiaro e toccante senza mistificare ed edulcorare.

Quello che stupisce in L’iguana non vuole è la maturità stilistica e la cifra introspettiva: continui slittamenti temporali, che rendono la storia e i personaggi coinvolgenti e densi; uno straordinario mescolio tra mondo reale e immaginario, concreto e onirico che introiettano sensazioni, ricordi ed emozioni; una forte e pregnante simbologia, presente sin dal titolo, per rendere icastiche attraverso i rettili, paure e fobie, frustrazioni e mancanze affettive.

Un romanzo pieno, sfaccettato, complesso nei temi, ma semplice e piano, senza mai essere banale, nella scrittura.

L’invito è rivolto prima di tutto ai docenti, perché L’iguana non vuole è una lettura istruttiva e formativa, che aiuta a visualizzare piccoli dettagli di enorme portata. Invito poi esteso a tutti, perché Giusi Marchetta ha la capacità di mettere il lettore con le spalle al muro senza dargli la possibilità di distogliere lo sguardo e l’attenzione. Un libro che entra dentro, che illumina diverse situazioni che riguardano non solo le scuole e i docenti, ma anche e soprattutto i ragazzi, le loro debolezze e infinite risorse.

Quando suona la campana, i ragazzi si riversano nel corridoio per l’intervallo, scendono le scale, escono in cortile, si chiudono in bagno a fumare. Il passo strascicato delle ragazze sotto braccio si confonde al calpestio nervoso dei maschi che si spostano da un piano all’altro per farsi vedere da questa o quella, per scroccare delle patatine o una sigaretta, per avvisare il secchione di turno che l’ora dopo sono cazzi suoi se non passa il compito di matematica. Vogliono fare tutto e quindici minuti non bastano.

Guardo i colleghi che si spostano lungo le pareti o si cercano per scambiare due chiacchiere. L’intervallo ci esclude, come una festa cui non siamo stati invitati. Miranda si aggira per i corridoi minacciando di sequestrare sigarette e cellulari troppo rumorosi. I ragazzi non la vedono e non la sentono. Funziona così.

Intanto le classi si svuotano e perdono significato. La scuola si fa scuola di cose che con i libri non c’entrano e non vogliono averci a che fare. Era così al Tito Livio, è così al Bernini, sarà così dappertutto.

E si torna anche noi tra i banchi con un misto di nostalgia ed emozione: beata gioventù, eppure non ne è consapevole, ma forse il segreto e la magia di quell’età è proprio di vivere l’età dell’oro senza averne il minimo sentore, per conquistarne il senso quando è ormai troppo tardi!

 

L’iguana non vuole