Ci sono dei libri sinestetici. Che fanno bene alla vista per la bellezza e la cura del manufatto libro. Che fanno bene al cuore per il loro contenuto. Che fanno bene persino all’udito. Sì, proprio all’udito. Uno di questi è Gilgamesh, l’epopea del Re di Uruk (L’asino d’oro edizioni, 2013): illustrato da Laurie Elie e Forough Raihani (la vista); scritto con leggiadra poeticità da Alessandra Grimaldi; e infine letto da Francesco Pannofino, senza vezzi, con tono profondo ma mai recitato, in maniera direi atonale, così da far risaltare la lucentezza delle parole scelte dall’autrice del testo. Il formato Mp3 con la lettura di Pannofino è scaricabile dal sito della casa editrice con il codice posto sull’ultima pagina del libro.

La mia di ieri sera è stata un’esperienza sinestetica. Nel silenzio notturno della mia casa, ho ascoltato dall’Ipod la voce cavernosa di Pannofino, sfogliando le bellissime illustrazioni in cui le figure stilizzate si stagliano su un fondo di colori mescolati al bianco, e scorrendo con gli occhi le parole sulle pagine.

Da sempre avevo curiosità di avvicinarmi alla storia di Gilgamesh, ineludibile per chi ha passato i suoi studi sull’Illiade e l’Odissea. La versione che viene proposta da Alessandra Grimaldi è quella di un eroe profondamente umano, che non combatte per la gloria, come Achille, ma perché spinto da brama di conoscenza. Di fronte al più grande mistero, quello della morte del suo amato compagno e fratello Enkidu, prima di Orfeo, viene tormentato dal desiderio di rivederlo e riaverlo. Un viaggio difficile e contorto, che lo porta dove nessuno è mai giunto, nel regno del Lontano, presso Utnapishtim, che per alleviare la sua sofferenza gli racconta la storia del diluvio, straordinariamente simile e antecedente a quella di Noè.

Nel regno di Lontano, Gilgamesh scopre la verità:

Aveva placato le sue angosce, e ora sarebbe tornato alle sue origini, alla sua terra, attraverso la porta da cui era venuto. Partito alla ricerca di Enkidu e dell’immortalità, Gilgamesh avrebbe scoperto qualcosa di ben più importante:la gioia di vivere. Vivere.

Tornato alla sua amata Uruk, tra i suoi uomini e i suoi cari, non deve combattere alcuna guerra, come anni dopo accadrà a Ulisse. Nessuno ha osato conquistare Uruk, in assenza del suo re. Finalmente, dopo tanto patire, cercare, soffrire

respirava quell’aria familiare senza temere il suo domani. Voleva lasciare impressa la sua storia e così fece: su una pietra raccontò le sue avventure, i suoi affanni. Vi scolpì il suo nome in eterno.

Il racconto del ritrovamento della pietra su cui Gilgamesh incide la sua storia, il destino delle tavolette cuneiformi legate ad un altro re leggendario come Assurbanipal, la storia conclusiva di un moderno eroe sulle tracce di quello antico, George Smith, appassionato di cultura orientale e di scoperte archeologiche, che per primo incontrò l’epopea di Gilgamesh nel racconto caldeo del diluvio, i tanti altri che ruotano intorno a questa scoperta sensazionale, tra errori e sfortune, sono raccontati in calce al volume con chiarezza e semplicità.

La mia anima di filologa avrebbe voluto sapere di più e con più esattezza, anche nei dettagli critici del testo presentato da Alessandra Grimaldi, ma non è il libro pubblicato da L’asino d’oro edizioni il luogo giusto. Qui c’è la magia del racconto e la fantasia delle illustrazioni, il pregio grande e il merito infinito di aver voluto divulgare una storia che, persa nella notte dei nostri tempi, ha ancora il potere seduttivo dei racconti fondativi, l’incanto dei miti che cercano il fondamento dei sentimenti e delle emozioni profondi, la valenza delle storie leggendarie da cui tutto ha preso inizio.

Gilgamesh, l’epopea del Re di Uruk