Ci sono dei titoli tentatori, perché particolarmente felici. Felici perché creano empatia, e non si ergono su un piedistallo per dare delle “Istruzioni”.

Come lettrice amo i personaggi che scendono in mezzo alla gente, condividendo un pezzo di strada o raccontandosi senza mistificazioni. Chi si confessa sapendo di trovare un amico, un confidente, un compagno.

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In “La tentazione di essere felici” (Longanesi, 2015), di Lorenzo Marone, il protagonista Cesare parte con una confessione (anche se lui, con tono brusco che gli riconosceremo proprio quasi da subito, la chiama precisazione). Il figlio è omosessuale, ma non ha mai avuto il coraggio di confessarglielo, né Cesare la volontà di chiederglielo, di conoscerlo, di farlo sentire compreso. Il fallimento del suo essere genitore lo scopriremo con il tempo, seguendo Cesare nella quotidianità di una vecchiaia, alla quale poco alla volta il protagonista cercherà di dare un senso sempre meno egoistico e sempre più sentimentale.

Il romanzo di Lorenzo Marone potrebbe essere a pieno titolo definito un romanzo di formazione, sui generis certo, perché non di un giovane si tratta, ma della matura consapevolezza di un uomo anziano, a cui lo scrittore dà una voce di piena immediatezza.

Non è un tipo facile, Cesare Annunziata, burbero scontroso egoista solitario, ma due donne, giovane e sensibile l’una, Emma, matura e vissuta l’altra, Rossana, gli faranno vedere le cose da una diversa angolatura. Quello che  accomuna le due donne è il diritto che entrambe dovrebbero avere a una vita diversa. Ma se quella di Rossana è una vita disgraziata, fatta di rinunce e sacrifici; quella di Emma è una vita tragica, disperata, perduta.

Attraverso la varia umanità, mai caricaturale come è facile quando si parla di napoletani, Lorenzo Marone ci racconta il tentativo, a tratti maldestro, a tratti efficace, talora insensato e vano, di essere felici, perché quello che Cesare riesce a dirci, vivendo e non istruendo, è che tutti abbiamo diritto al nostro angolo di felicità, ma questo non ci è mai concesso senza sforzi e soprattutto senza mettersi in gioco, regalando agli altri qualcosa di noi stessi, fosse solo il nostro tempo e la nostra attenzione.

Con Rossana ed Emma, Cesare Annunziata, padre e marito assente, riesce a uscire da se stesso, senza perdere se stesso, e questo è un altro elemento che rende affascinante il romanzo di Lorenzo Marone, tutto giocato sulla voce narrante del protagonista, ispida ironica caustica, anche quando depone la corazza con cui ha voluto proteggersi dal mondo. Scoperchiare un lato sentimentale, a lungo represso, renderà Cesare più disponibile anche ai figli: Dante, il maschio da sempre ignorato, e Sveva, la figlia con cui è in dissidio perenne, fosse solo per il fatto che ha sostituito la figura della moglie, di cui è rimasto vedovo dopo un matrimonio ben presto senza amore.

[…] Mi sembra di non poter fare a meno di essere spiritoso. Ci sono due modi di affrontare le cose, con disperazione o con ironia, e nessuna delle due cambia le carte in tavola.

Non è solo il motto con cui Cesare Annunziata affronta le ultime pagine del romanzo, ma anche la cifra narrativa di Lorenzo Marone, che sceglie di raccontare la vita e i maldestri tentativi di raggiungere la felicità con ironia e leggerezza, pur mostrandoci i lati più malinconici e crudeli con cui alcune vite si disegnano. Non è superficialità, ma l’unico modo a volte per rimuovere il timore di non essere all’altezza.

Sullo sfondo una Napoli, che non ha nulla dei colori sgargianti e chiassosi che le si dipingono spesso addosso, ma che è rintracciata con un vena sensibile nei suoni e nei rumori:

In realtà a Napoli più che la vista serve l’udito, è una città che si svela attraverso il suono. Nelle viuzze di Chiaia, per esempio, le sere d’estate si riescono ad ascoltare i tacchi delle signore che camminano sicure sui ciottoli, qualche risolino in lontananza, o due bicchieri che si toccano appena dietro il vicolo. Posillipo, invece, sembra muta, con le strade ampie e deserte che si dipanano silenziose sulla collina, mentre la città poco più giù appare ovattata. Devi saper ascoltare con attenzione i vagiti dei quartieri nobili se vuoi imparare a conoscerli. Nel centro storico, invece, bisogna saper distinguere, prestare attenzione solo a ciò che interessa, separare i suoni, come le tracce di una canzone da mixare. Così puoi gustarti il vocio degli studenti che vagano fra i vicoli antichi, il frastuono delle posate che zampilla dalle trattorie, le tante campane che battono la domenica mattina, il richiamo dei venditori ambulanti, la voce rauca e malferma di un vecchio che suona la fisarmonica ai piedi di una basilica sprangata e dimenticata. Per gustarti tutto ciò devi, però, cancellare il ronzio dei motorini che infestano le strade, le urla di donne che si azzuffano per un nonnulla, la voce di un neomelodico che esplode dai finestrini di un’auto.

Lorenzo Marone con “La tentazione di essere felici” mostra di avere il talento dell’orchestrazione, leggero e riflessivo, salace e malinconico, ironico e tragico, nel tentativo di modulare tra le armonie e disarmonie della vita cosa sia la felicità e nella tentazione di ritrovarla in una lunga lista di “mi piace”.

La tentazione di essere felici