“La vita fa schifo” dice uno dei personaggi dell’ultimo racconto che si legge in Urbino, Nebraska di Alessio Torino (minimum fax, 2013), ma nonostante questo si cerca fatalmente di darle un senso, proprio attraverso libri come questo. Anche di fronte alla vanità della morte, come quella di Ester e Bianca, uccise fuori dal tempo narrativo da un’overdose di eroina. È proprio la scempiaggine di due vite sprecate e il vuoto consistente della loro assenza a collegare le quattro storie che compongono il romanzo.

Furono ritrovate la mattina all’alba su una panchina della Fortezza Albornoz, e in questo modo la loro morte è diventata pubblica e sociale, menomazione di una comunità che si ritrova tale negli spazi cittadini, ancora di più quando questi vengono deturpati da un fatto tragicamente inusuale.

Fortezza Albornoz di Urbino

In apertura il racconto più disteso e anche incomparabilmente il più felice. Con Zena Mancini Torino riesce a raccontare con le pennellate dense della sua scrittura tante cose insieme: la provincia, la vita universitaria, le incertezze di un’età di mezzo in cui lo studio fa sentire ancora fanciulli ma preme il desiderio di essere considerati adulti, la solitudine esistenziale e l’afasia sentimentale. Gli altri racconti, che al loro interno hanno delle perle come Torino sa regalare, soffrono dello splendore del primo, e nel confronto appaiono foto sbiadite, capaci di descrivere ma come immobili, anche se poi riescono a guizzare per un particolare o un dettaglio. Come questo:

Non ce la faceva più. Un rombo crescente stava prendendo ogni cosa e avrebbe potuto prendere anche lui. Un saltello in avanti. Finita. Chissà che dichiarazioni sconvolte avrebbero raccolto da H&P. Avevano lavorato tutto il giorno, mangiato la pizza, sembrava sereno. Si sentivano spesso frasi del genere. Quant’era idiota, la gente, a dirsi sorpresa della calma delle persone incontrate pochi minuti prima che si ammazzassero. O forse, chi non lo provava, non poteva capire l’assaggio di pace nello sventolare finalmente bandiera bianca.

Veduta

Eccezione l’ultimo racconto, La rotta, che relegando sullo sfondo Urbino, che invece è prepotente protagonista degli altri racconti, innalza su un piano più prettamente sentimentale e personale i temi che si rincorrono tra le pagine dell’intero romanzo, in particolare la ricerca di sé e l’analisi delle radici affettive e familiari. Non è casuale, a mio avviso, che proprio in questo racconto, con la causticità che Torino sa dimostrare nei momenti in cui sarebbe più facile cadere nel patetismo, si ritrova affermata e divenuta consapevole la massima che racchiude il senso esistenziale dei personaggi: la vita fa schifo.

Ogni personaggio, a partire da Zena, la protagonista del primo lungo racconto, portano su di sé il fardello pesante dell’inutilità della propria vita. Lo sconforto per non sapere chi si è e cosa si vuol fare, anche quando si è un professionista affermato come Mattia Volponi. La difficoltà di vivere la propria scelta di fronte allo sconforto di chi si ama, come avviene a Nicola Chimenti. Per arrivare a Federico a cui una pala conficcata nel terreno dopo una violenta nevicata svela quale sarà la guerra che dovrà combattere, in staffetta con il nonno:

Ma ora aveva anche lui la sua guerra. L’inverno successivo l’avrebbe spalata lui la rotta, anche se la vita faceva schifo, avrebbe aperto il cancello prima della comparsa degli spazzaneve comunali. E questa era la guerra che gli avrebbe fatto diventare i capelli bianchi, rattrappire le mani, come era successo al nonno. E ora lo sapeva, mentre camminava verso il capanno e l’unico rumore era l’acqua che continuava a sgocciolare dalle grondaie.

Torino ha la grande capacità di una scrittura ellittica, che scava dentro i personaggi, iconizzandoli. Li lasciamo in sospeso, imbrigliati in un gesto o in un proponimento, e li guardiamo andar via, di spalle, senza conoscerne il futuro, ma dopo esserci specchiati nella loro anima.

L’Urbino di Alessio Torino, come la Ferrara di Bassani, in particolare in Cinque storie ferraresi, quanto più è autentica e topografica nelle descrizioni tanto più diventa emblema e simbolo di un certo modo di considerare e soppesare l’esistenza.

“Resto a Urbino” dirà Zena, incomprensibile e inspiegabile. Significa fare i conti con se stessi e con le proprie debolezze e fragilità. Accettarsi con le proprie incongruenze.

Zena va a sedersi su una delle panchine rivolte verso l’altro colle, dove i Torricini si sporgono sulla scarpata come una prua. In mezzo, le case di Urbino, Urbino che, sotto il cielo insicuro di marzo, non sa decidersi se sentirsi il centro del mondo o l’ultima remota propaggine.

Urbino, Nebraska
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